Le cause dell’aumento delle divergenze regionali sono note, ampiamente documentate in letteratura e fondamentalmente riconducibili alle seguenti:
a) Vi è innanzitutto da considerare un meccanismo spontaneamente generato da un’economia di mercato deregolamentata, che ha a che vedere con quelli che vengono definiti effetti di causazione cumulativa. In altri termini, data una condizione iniziale di concentrazione dei capitali in determinate aree, i capitali collocati nelle aree periferiche trovano conveniente spostarsi in aree nelle quali – attraverso l’operare di economie di agglomerazione e di economie di scala (per le quali al crescere della quantità prodotta si riducono i costi di produzione) – possono ottenere maggiori profitti, perché è più alta la produttività del lavoro. Evidentemente, possono più facilmente migrare imprese di grandi dimensioni che, peraltro, trovano conveniente farlo in quanto competono innovando, e, per farlo, hanno bisogno di operare in ambienti nei quali sussistono le condizioni più favorevoli per generare flussi di innovazione: facile accesso al credito, esistenza di esternalità positive derivanti dall’attività di ricerca attuata da imprese già presenti in loco, presenza di Istituti di ricerca scientifica, ampia disponibilità di manodopera qualificata. Questa dinamica determina crescenti divergenze regionali: in alcune aree si producono beni ad alta intensità tecnologica, nelle aree periferiche (Mezzogiorno incluso) le imprese – di norma di piccole dimensioni e poco esposte alla concorrenza internazionale – competono mediante compressione dei costi, e dei salari in primo luogo. La crescente concentrazione geografica dei capitali si associa a crescenti flussi migratori, che interessano prevalentemente giovani con elevato livello di istruzione.
b) Negli ultimi anni, il fenomeno è stato accentuato dalle politiche di austerità. La riduzione della spesa pubblica (soprattutto nel Mezzogiorno) e l’aumento dell’imposizione fiscale su famiglie e imprese hanno ristretto i mercati di sbocco, generando riduzione dei profitti e fallimenti. Ciò a ragione del fatto che la gran parte delle imprese meridionali vende su mercati locali e la compressione della spesa pubblica, riducendo i consumi, ne riduce i ricavi di vendita. L’aumento del tasso di disoccupazione e la riduzione dei salari sono state le ovvie conseguenze di queste scelte.
L’inversione di rotta – come, peraltro, invocato da SVIMEZ – richiederebbe ingenti investimenti pubblici nelle aree meridionali. La previsione di uno stanziamento del 34% di investimenti pubblici nel Mezzogiorno, contenuta nella manovra finanziaria di questo Governo, si muove in una direzione apprezzabile, sebbene sia da considerare che la medesima previsione era già stata assunta da precedenti governi (e mai attuata) e che, a consuntivo, di norma, gli impegni di spesa per il Sud previsti nelle leggi di stabilità degli ultimi anni si sono rivelati quasi sempre disattesi, in parte o in toto.
A fronte di un’economia in caduta libera (caduta, peraltro, che interessa l’intera economia italiana), l’idea di riproporre un intervento straordinario che richiami l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno dovrebbe trovar posto nell’agenda del decisore politico. La Cassa per il Mezzogiorno fu istituita, come ente con personalità giuridica di diritto pubblico, nel 1950, con l’obiettivo di contribuire – tramite investimenti – al “progresso economico e sociale dell’Italia meridionale”. Fu soppressa nel 1984, poi trasformata in Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno, spenta – quest’ultima – nel 1992. La Cassa per il Mezzogiorno – con significativa dotazione di fondi pubblici e prestiti esteri – operò essenzialmente per accrescere la dotazione di capitale pubblico al Sud, soprattutto mediante l’intervento in infrastrutture e, per l’agricoltura, con bonifiche.
Il periodo nel quale la Cassa per il Mezzogiorno fu pienamente operante coincise con la stagione di maggiore crescita economica del Sud e con le minori divergenze regionali: fra il 1950 e la seconda metà degli anni settanta il differenziale di crescita fra le due aree del paese si ridusse significativamente (il Pil pro capite del Mezzogiorno passò dal 53% rispetto a quello del Centro-Nord del 1951 al 60,5% nel 1973), con un valore degli investimenti fissi lordi pari a circa il 30% del totale degli investimenti pubblici in Italia.
Il periodo nel quale la Cassa cessò di esistere coincise con la stagione dell’avvio del lungo sentiero di recessione dell’economia italiana e con la fase della ripresa delle divergenze fra Nord e Sud del Paese (dal 1992 a oggi i divari regionali, misurati in termini di Pil pro-capite sono stati costantemente crescenti), con una flessione rilevante degli investimenti al Sud, collocati ad oggi intorno al 15% rispetto agli investimenti pubblici complessivi.
La riproposizione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno non è impossibile per ragioni di bilancio: ogni ‘copertura’ di spesa rinvia a una scelta in ordine alle priorità che un Governo si dà ed è dunque questione intrinsecamente politica. Né può essere recepita, nelle condizioni date, l’obiezione per la quale, così facendo, si creerebbe un ulteriore centro di spesa clientelare e improduttivo: la sola alternativa, al momento, disponibile è continuare ad avvalersi dei fondi europei, spesi tardi, male oppure neppure spesi.
[ “Nuovo Quotidiano di Puglia”, 4 agosto 2019]