In quel periodo Zilphia era magra come un chiodo, col viso esangue e tormentato e grandi occhi non del tutto sottomessi; andava e tornava da scuola al fianco di sua madre, dietro la piccola maschera tragica del suo viso. Un giorno, quando era al terzo anno, si rifiutò di andare a scuola. Non voleva dare la ragione e Mrs Gant: che si vergognava di essere sempre vista per strada in compagnia di sua madre. Mrs Gant non la lasciò interrompere la scuola, e in primavera Zilphia si ammalò di nuovo, di anemia, di nervi, di solitudine e di pura e semplice disperazione.
L’indomito spirito che traspare dai suoi occhi cela un’aspra lotta interiore tra la sua volontà cosciente, controllata dalla madre paranoica, e le sue inclinazioni naturali. L’infanzia e l’adolescenza di Zilphia non trovano mai la giusta espressione perché abortite, soffocate nell’asfissiante controllo della madre che, con le sue grinzose grinfie di vecchia, eretta nella sua veste nera e il grembiule da sarta stretto alla vita, la tiene lontana dagli amici e dagli uomini solo perché è lei a odiare gli uomini, incarnazione di una terribile minaccia da prevenire e dalla quale cerca di proteggere sua figlia. La malattia affligge la piccola Zilphia. Lo stare a letto, la condizione di prigionia in cui si trova costretta, le risucchia le energie, le asciuga il sangue tanto che
non meno bianca del cuscino sul quale poggiava, aveva due occhi che sembravano buchi fatti col pollice in un pezzo di carta assorbente. (…) piangeva con la testa sul cuscino, le braccia distese lungo i fianchi.
Zilphia, immobile come una bambola di pezza con gli occhi incavati che sembrano due buchi neri, annientata da un dolore fisico che la spezza dal di dentro, più bianca del lenzuolo su cui giace, piange inerme ma senza riuscire a spiegarsi il motivo, rotta da un’infelicità che, lentamente, la consuma. Per tutto il periodo dell’adolescenza, la magrezza è la caratteristica di Zilphia su cui Faulkner insiste maggiormente, metafora di una fragilità interiore che la devasta. Un giorno, quando Zilphia ha tredici anni, la madre comincia, una volta al mese, ad esaminare il suo corpo nudo. Dopo averla fatta spogliare, la costringe a stare in piedi davanti a lei, “rattrappita per la paura”, illuminata dalla gelida luce dell’inverno che entra da dietro le sbarre. Dopo una di queste visite, quando l’inverno era ormai trascorso, la signora Gant “raccontò a Zilphia cosa aveva fatto suo padre e cosa aveva fatto lei”. Zilphia la ascolta tutta ripiegata su se stessa, rimpicciolita, come schiacciata da quelle parole per nulla materne, da quel linguaggio burbero, da uomo.
Dopo dodici anni di prigionia –condanna per essere stata sorpresa sotto una coperta con un ragazzo – la madre assume un imbianchino che per tre giorni lavora proprio fuori dalla finestra di Zilphia. In questi dodici anni, l’aspetto di Zilphia è totalmente cambiato, non è più la ragazzina esile e pallida come un cencio. Al contrario:
Zilphia era una donna linda, con una pettinatura linda. Aveva la pelle colore del sedano, ed era rotondetta e un po’ flaccida; gli occhiali davano al viso un’aria smarrita e ascetica e ingrandivano le iridi opache. Finchè aveva un ago in mano, e non si sentiva osservata, i suoi movimenti erano sciolti e sicuri; ma per la strada, con addosso il cappello e i vestiti che le faceva sua madre, avevano la vaga, indefinibile incertezza dei miopi.
Negli anni è avvenuta una lenta metamorfosi nel suo aspetto fisico: è come se si fosse lentamente gonfiata, appesantita nella sua condizione di dolore e di solitudine, come se l’aumento di peso avesse il compito di colmare tutti i vuoti di quei dodici anni. Tenendo l’ago stretto tra le dita, dietro le lenti enormi, Zilphia osserva l’imbianchino – “i capelli neri e gli occhi color cenere di legna” – che è lì, contenuto nel rettangolo della finestra, suo unico frammento di mondo esterno. Tra i due si instaura una silenziosa relazione. In paese lo sanno tutti. Tutti fatta eccezione per la signora Gant la quale, non appena lo scopre, prende la radicale decisione di chiudere la sartoria. Zilphia smette di lavorare ma “privata del suo ago e del lento lavorio meccanico delle dita, (…) cominciò ad avere male agli occhi e a non dormire bene”. Le sue notti sono agitate da sogni in cui il pittore “faceva cose mostruose col secchio e il pennello”.
Il pittore torna a prenderla per strapparla alla sua prigione, per sottrarla allo sguardo della sua carceriera che, ormai in fin di vita, dorme con le chiavi di casa strette tra le dita nodose, per essere sicura di tenere murata viva la creatura che ha partorito. Il pittore dichiara il suo amore, i due si sposano ma la ragazza non può fuggire con lui senza prima mettere nuovamente piede, per l’ultima volta, nella sua prigione. Però, davanti alla figura della madre che, ritta, tiene stretta in pugno la canna del fucile, nell’animo di Zilphia si rompe qualcosa. Il coraggio le viene meno e, per un istante, ritorna la bambina fragile e malata, schiacciata sotto lo sguardo di sua madre:
Zilphia fece qualche passo e salì i gradini con dei movimenti rigidi. Sembrava rimpicciolita, come crollata dal di dentro, più bassa, d’un tratto goffa.
Tutto è perduto: dopo tre giorni a supplicare davanti alla sua porta, il pittore va via e non si farà vedere più. La madre, non appena il pittore scompare dalla sua vista, può chiudere gli occhi per sempre. Muore così, seduta con il fucile tra le mani, egoisticamente sicura che sua figlia non ha mai conosciuto uomo fino a che lei era in vita. Zilphia, rimasta sola, attende ancora il marito che, però, non tornerà più a prenderla. E’ sola in quella casa e sola nel suo letto, sogna l’imbianchino ogni notte, o meglio, sogna la sua schiena e, nelle notti insonni, con le narici invase dall’odore forte della pittura fresca sulle pareti, “le coperte scagliate lontano e le cosce spalancate che si agitavano in aria”, si dimena crocifissa da un furioso desiderio di concepimento, rincuorata dal fatto che la Vergine Maria ci era riuscita da sola. La sua pinguedine è esagerata, gli occhi sono due punti verdi incastrati nel grasso:
(…) diventò pingue, di una pinguedine flaccida e nei posti sbagliati. Gli occhi, dietro le lenti cerchiati di corno, erano leggermente sporgenti, di un torbido verde oliva. La sua socia diceva che dal punto di vista igienico non era eccessivamente scrupolosa.
Scopre dai giornali che suo marito si è risposato e, informata dal detective che ha assunto per spiarlo, apprende che la sua nuova moglie ha concepito il figlio che Zilphia avrebbe dovuto avere in grembo. Un giorno decide di partire. Nessuno ha sue notizie per tre anni, fino a quando ricompare in paese tenendo per mano una bambina, sua figlia, ma nessun dettaglio viene raccontato di quei tre anni lontana dal paese, così, svanita la curiosità, la gente dimentica e non fa più domande. Zilphia ritorna nella sua vecchia casa, insieme alla figlia, ha quarantadue anni e sembra, finalmente, sana e felice:
Sembrava più bella, il nero le donava. Era di nuovo pingue nei posti sbagliati, ma per la gente della nostra città a una donna che abbia adempiuto ai suoi doveri si perdona questo e altro. Aveva quarantadue anni. “E’ grassa come una pernice” dicevano in città. “Ma le dona; le dona davvero”. “Per forza lo sono, da come mangio di gusto”.
Vittima di un corpo che, nel corso degli anni, è simbolo e sintomo dei suoi stati d’animo, del malessere o del benessere, della solitudine, della disperazione, che si prosciuga e lievita in maniera esagerata, che la rende grassa laddove non dovrebbe esserlo, finalmente la sua pinguedine è diventata un segnale di felicità, di stabilità fisica e spirituale. E’ rotonda, ma non più flaccida e, nel suo grembiule di tela nero svolazzante, cammina per strada fermandosi di tanto in tanto a parlare allegra con la gente. Nella sua mano, mentre vanno e tornano da scuola, stringe dolcemente quella della piccola Zilphia, la sua bambina dagli “occhi color cenere di legna e i capelli neri”.
[“Clinamen”, n. 8 – Giugno 2019]