Passando alla narrazione scritta e venendo a quella forma particolare che è il romanzo – genere che oggi sembra aver fagocitato ogni altra espressione letteraria – va detto che funziona in modo singolare. In poesia e in filosofia, o almeno nella loro eredità novecentesca, la parola deve spesso nominare e portare in luce una realtà non ancora ordinata in concetti. Il romanzo, invece, è un gioco diverso, ossia usa la parola in un modo diverso, non ha pretese di nominare i fenomeni. Non era così, ad esempio, per l’epica. Il romanzo riporta una storia in cui i termini non vanno intesi in modo perentorio e definitivo, ma in modo incerto, spesso parodico. Anche quando si tratta di un romanzo serio, i nomi delle cose sono di fatto nomi relativi, provvisori. Sono nomi che l’autore prende per buoni per arrivare a dire qualcosa. Si può arrivare a sostenere che il romanzo non rappresenta un’interpretazione del mondo, ma uno strumento per costruire un’interpretazione del mondo. Il romanzo è una costruzione narrativa ironica, ambigua consegnata al giudizio del lettore: vedrà lui che farsene.
2.
Cinque anni fa è stato tradotto in italiano L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani, un libro di Jonathan Gottschall che nell’originale suona più perentorio: The Storytelling Animal. How Stories Make Us Human (2012). In poco più di duecento pagine, Gottschall spiega fra le altre cose per quale ragione il raccontare storie abbia rappresentato un vantaggio competitivo negli scontri fra le prime tribù. Questa attività si è rivelata e si rivela decisiva per la comprensione di sé e per la definizione del proprio posto in un gruppo sociale. D’altra parte, si sa che il contenuto delle nostre conversazioni quotidiane è soprattutto comunicativo, più che informativo, anzi, secondo alcuni studi citati nel libro si può dire che viviamo immersi nelle storie, ossia che i sogni a occhi aperti rappresentano «lo stato di default della mente». Alcune delle storie più importanti le raccontiamo a noi stessi e in ragione di queste prendiamo poi le decisioni che ci riguardano.
A dispetto di una fede fin troppo appassionata nei risultati del cognitivismo e di una conseguente incomprensione di altri indirizzi della psicologia, il libro offre numerosi spunti di interesse. Ne riassumo uno degno di nota (pp. 73-74).
Una delle manovre più complesse nel difficile mestiere di pilota della marina degli Stati Uniti è quella di atterrare sul ponte di una portaerei senza provocare danno alle persone e agli aerei già presenti. La nave, enorme, ospita un equipaggio di migliaia di persone, oltre che un carico di missili, di bombe e forse anche di qualcosa di peggio. L’atterraggio su una pista lunga centocinquanta metri, su una nave in movimento, in qualsiasi condizione atmosferica (compreso il volo notturno) presenta davvero difficoltà straordinarie. Queste considerazioni spingono la marina a una comprensibile prudenza e a un supplemento di attenzione nell’addestramento dei piloti, che infatti per mesi devono fare pratica su sofisticati e dinamici simulatori di volo, ideati in modo da ricreare tutte le condizioni che dovranno affrontare a bordo di un aereo. E i simulatori di volo funzionano. Dopo settimane e settimane trascorse in questo estenuante allenamento, i piloti riescono finalmente ad atterrare senza problemi sulla nave e a scendere dall’aereo.
Le storie – sostiene Gottschall, citando Keith Oatley – sono simulatori di volo per la vita. Non c’è dubbio che la vita presenti difficoltà più severe rispetto all’atterraggio su una portaerei, traguardi e lutti di fronte ai quali nessun tirocinio può bastare. Attraverso le storie ci esercitiamo «a utilizzare le competenze più importanti della vita sociale umana» (p. 74). Aggiungerei che proprio per questo il romanzo di formazione e il romanzo di avventura, in tutte le loro riformulazioni, non hanno ancora smesso di suscitare interesse nei lettori.
Certo, leggere storie non è tutto. Come diceva un amico, anche se abbiamo letto numerosi libri sulla boxe non è detto che, davanti a qualcuno dalle cattive intenzioni grosso il doppio di noi, possiamo uscirne al meglio. Ma non valuteremo la prestanza fisica in funzione delle storie, perché non è a questa che loro lettura mirava. È invece molto probabile che un buon lettore sappia rialzarsi meglio da terra, così come un buon lettore, introdotto in un gruppo sociale sconosciuto, saprà comportarsi meglio di un non lettore perché ha acquisito maggiori competenze sociali, ossia «ha vissuto più vite», come piace dire ad alcuni autori di successo.
3.
Viviamo immersi in un rumore narrativo di fondo: ce lo portiamo appresso sui dispositivi. Dallo storytelling politico-mediatico, brutalmente semplificatorio, a quello pubblicitario e social, di cui è sempre più difficile restare consapevoli. Tuttavia, anche alcune attività quotidiane hanno a che fare con la pratica narrativa, ad esempio scrivere un verbale, una relazione, un’anamnesi clinica o una requisitoria. Per quanto non si tratti di pratiche omogenee, mostrano però un riferimento comune, tale da indurre a ritenere che la lettura di storie, più che il semplice atto di seguirle rappresentate su uno schermo, possa incidere sulle competenze con cui poi rispondiamo a richieste lavorative come queste.
Certo, oggi l’utilizzo pervasivo dei mezzi digitali ha trasformato le modalità di comunicazione, riportandoci in una situazione che alcuni definiscono di «oralità secondaria» (un’oralità cosciente della scrittura), tuttavia la lettura, «un’attività che era in declino in seguito all’avvento della televisione, si è triplicata dal 1989 al 2008 perché è la modalità di gran lunga preferita per ricevere parole in Internet» (Bohm e Short, 2010, citato in J. Hurtley, Dopo Ong, p.250). Sono trascorsi quasi dieci anni da questo studio, ma il dilagare delle piattaforme dei social network non lo ha certo smentito. Può darsi che in termini di trasmissione della conoscenza si possa parlare di un’enorme «parentesi Gutenberg» durata cinquecento anni, fino ai media digitali, ma questo non comporta necessariamente un arretramento della lettura e della scrittura, semmai una coesistenza di queste forme con quelle dell’oralità secondaria. Ci sarà poi da discutere il modo in cui si apprende, diverso, anzi per alcuni antitetico, se nel costume prevale l’oralità rispetto alla scrittura.
Nell’ambito della produzione scritta, può tornare utile una riflessione sulla distinzione fra due tipi di discorso fatta a suo tempo da Heinrich Lausberg. Un vecchio manuale di Franco Brioschi e Costanzo di Girolamo la riprendeva dividendo i testi in «scritture di consumo», relative a un ambito comunicativo ristretto, ad esempio direi quelle del biglietto con scritto «Torno subito» (sostituite oggi da un messaggio WhatsApp, Instagram o simili); e in un’altra classe, le «scritture di riuso», scritture prodotte per essere riutilizzate, anche molte volte, comprendenti le leggi (giuridico-sacrali o profane), le formule (destinate a garantire la validità giuridica «di atti di diritto sacrale o profano», come ad esempio: «Vi dichiaro marito e moglie») e infine dei discorsi fissati per una ripetibile rievocazioni di atti. La letteratura va inclusa in questo terzo insieme.
A differenza dei primi due tipi di scrittura di riuso – ossia le leggi e le procedure (o le liturgie), il cui dominio sulle circostanze quotidiane è intuibile – il terzo dovrebbe creare da sé il proprio contesto, la propria occasione di lettura. Quale condizione di riuso si può pensare oggi per la letteratura? Di solito si dice che le sue storie sono destinate ad essere rilette perché hanno interpretato magnificamente una serie di atti: è ciò che è successo per varie generazioni con i romanzi. Questo non significa che nel caso dell’incontro con un biologo molecolare in crisi io debba andare a rileggere Le particelle elementari di Houellebecq o, più comunemente, che nel caso venga a sapere dell’adulterio di una moglie infelice che vive in provincia debba rileggere Madame Bovary; si intende, però – e qui sto divagando rispetto alla serietà degli studi retorici – che in circostanze come queste chi ha letto il romanzo di Flaubert ci torna, anche solo mentalmente, e che il ricordo di ciò che è scritto nel libro (non solo della sua trama, ma magari anche dei costumi di provincia di cui parla il sottotitolo) si interseca all’interpretazione attuale di un fenomeno. I libri di narrativa, in termini generali, hanno svolto anche questa funzione, che ha prodotto aggettivi come «kafkiano» o «proustiano», applicati poi a situazioni specifiche. Naturalmente, un posto lo hanno poi trovato anche aggettivi come «felliniano» e «kubrickiano», come in tempi più recenti «lynchiano» e oggi «tarantiniano»: questa funzione non è riservata solo alla letteratura, ma anche al cinema. Eppure un film incide diversamente sulle nostre competenze di scrittura, perché la lettura lascia nell’orecchio un tono e un ritmo che possono aiutare nel momento in cui tocca a noi prendere la parola per iscritto.
Ci si potrebbe chiedere se la funzione di riuso del testo letterario in un recente passato interessasse un gran numero di persone, al di là dei lettori pronti a interpretare troppo ingenuamente le loro vicende alla sola luce dei romanzi (in un certo senso il bovarismo era già noto al tempo di Paolo e Francesca). Forse questo fenomeno interessava solo i lettori forti, alcuni dei quali però scrivevano i manuali di letteratura per le scuole secondarie superiori, che un numero di persone decisamente maggiore si è poi trovato forzatamente a leggere e rileggere. Alcuni grandi storie sono state sacrificate più di altre al riuso nelle aule scolastiche: la loro lettura è stata imposta a tutti, talvolta al fine di compilare le indimenticabili schede-libro; ma in genere la lettura del romanzo è rimasta privata e perfino poco gradita alle istituzioni formative.
Nelle circostanze odierne – ma credo che l’opinione fosse già diffusa trent’anni fa rispetto al mezzo televisivo – sembra che l’opera di mediazione nell’interpretazione dei fenomeni, più che dai libri, sia svolta dagli audiovisivi, anche da brevi filmati on line che divengono poi virali, ma è vero che queste mode si rivelano estremamente volatili e che i giovani leggono ancora (non tutti, ma i lettori davvero forti non sono tanti meno di un tempo). Quale futuro può dunque avere la letteratura in termini di riuso? Non penso che si possa rispondere a questo interrogativo in modo perentorio, lo si è fatto più volte, talvolta con toni apocalittici: un tempo c’era chi si disperava davanti al successo dei telefilm e delle serie tv di animazione, diventate poi a loro volta tema letterario. Comunque sia, non considero la risposta decisiva in merito alla nostra propensione al racconto, che non smetterà di rivestire un ruolo centrale nel quotidiano. La domanda è, semmai, questa: in che forma la esprimeremo? Non credo che ci limiteremo a brevi post.
4.
Raccontando e leggendo diamo forma verbale al nostro mondo, acquisiamo le competenze sociali necessarie alla sopravvivenza e alla vita in comune; inoltre, attraverso il riuso delle storie, arricchiamo la nostra interpretazione delle relazioni umane.
L’elemento determinante che da ragazzi ci spinge verso la scrittura resta però un altro e si fonda sul legame affettivo che abbiamo provato e che proviamo nei confronti di chi ci ha preceduto nelle stesse imprese: leggendo ci sentiamo solidali e ci identifichiamo non solo nei personaggi delle vicende scritte, ma – parlo per chi ha riconosciuto in sé una particolare propensione narrativa – anche nella voce di chi racconta, nel modo in cui dà forma a ciò che narra, ossia nel suo destino artigianale: la passione per i libri di Kafka è cresciuta soprattutto in questa prospettiva, ma è legittima anche quella per i libri di J. K. Rowling (il problema, che oggi assume una sua rilevanza, è distinguere l’uno dall’altra). E, detto di sfuggita, qui anche il gesto del libro messo in mano allo studente trova forse una sua giustificazione. Per quanto possa sembrare fragile, questa illusione si è rivelata particolarmente tenace, al punto da sostenere un’attività che in termini materiali non ha bisogno di molto altro, se non di uno strumento per scrivere e di un supporto che conservi la scrittura. Crescendo, l’illusione si fa poi più viva quando cominciamo a leggere qualche libro in una lingua straniera, perché in quel caso, espressa senza l’intermediario della traduzione, l’identificazione risulta meno istantanea e si inserisce nel quadro di un’illusione più ampia, quella della letteratura intesa come fenomeno sovranazionale. Tutto questo dovrebbe bastare per sostenere che, se il racconto ci risulta pressoché connaturato, leggiamo e scriviamo anche per ragioni affettive.
Nelle Regole dell’arte Pierre Bourdieu ha studiato la natura delle illusioni letterarie, demistificando alcuni automatismi nella concezione del legame fra autore e opera, eredità della stagione romantica e ora diventati pressoché inservibili; ma se Bourdieu ha illustrato le ragioni per cui la produzione del valore di un’opera è sempre di carattere sociale, ha lasciato agli interrogativi dell’arte le questioni inerenti la costruzione interna di un racconto e l’impiego di espedienti tecnici che in molti casi possono essere chiariti non tanto dallo studio, ma solo dall’esempio e dall’apprendistato, ossia dalla pratica. Insomma, c’è speranza.
Nota
Di seguito, gli estremi dei libri citati: L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 2014; W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 2014 (in particolare p. 27; nello stesso volume il saggio-postfazione di John Hartley, Dopo Ong, pp. 249-267); J. Gottschall, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani, Torino, Bollati Boringhieri, 2012; il manuale citato è F. Brioschi, C. Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Milano, Principato, 1984; P. Bourdieu, Le regole dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 2005. La reazione all’esempio del lettore di libri di boxe si trovava già nel mio L’illusione e l’evidenza. Saggi sull’avventura romanzesca, Milano, Mimesis, 2016. (wn)