di Walter Nardon
«Perché leggere e scrivere libri?» Davanti allo studente che pone questa domanda, la tentazione di rispondere in modo tradizionale è irresistibile: allungare il braccio sullo scaffale, prendere con cura il libro giusto dicendo «Qui c’è già tutto», per poi mettere fine alla sua attesa porgendogli con gesto sicuro il volume poveramente rilegato, ma di insuperabile valore esemplare. Per quanto questa soluzione possa produrre esiti di inestimabile comicità involontaria, in alcuni casi, ad esempio se si tratta di Anna Karenina, risulta indiscutibile, ma fonda la sua efficacia sulla possibilità che l’allievo riconosca il valore della letteratura come qualcosa di evidente. Quand’è così, va tutto bene; ma se l’occasione è questa, allora la domanda non era, per così dire, disperata, era più che altro la domanda di un lettore, che si può facilmente rinviare alle Lezioni di letteratura di Nabokov: lì troverà quello che cerca. In termini generali, questa risposta corre il rischio di tradursi in quello che gli Americani chiamano pregare per i salvi: chi non riconosce l’evidenza del valore della letteratura non si convince sempre con un libro. Bisognerebbe trovare quello giusto, e non è detto che capiti al primo colpo.
Così credo sia meglio aggiungere che raccontare una storia è uno dei vari modi in cui diamo forma a un linguaggio, una delle tante attività che possiamo compiere ogni giorno con le parole e che vanno al di là della semplice asserzione, ossia azioni come: ordinare o eseguire un ordine, fare congetture su un avvenimento, imprecare, pregare, tradurre, elaborare un’ipotesi e metterla alla prova, sciogliere indovinelli, cantare in girotondo, inventare una storia e, appunto, leggerla. Sono alcuni esempi di ciò che Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (paragrafo 23) chiama «giochi linguistici». Con queste attività diamo forma alla nostra vita. Del resto, la maggior parte delle nozioni fondamentali e delle competenze sociali necessarie alla sopravvivenza ci vengono trasmesse durante l’infanzia o con l’esempio, o in forma di narrazione orale. Raccontare ha dunque il suo senso, anzi, nelle società che non conoscono la scrittura, è l’attività cui viene affidata la trasmissione di tutto ciò che si conosce. «Senza scrittura», diceva Walter Jackson Ong, «non c’è studio», ossia c’è solo apprendistato, non c’è pensiero analitico in senso stretto. Nel mondo dell’oralità primaria, privo di scrittura, le risorse a disposizione sono l’esempio o la memoria; oltre a queste c’è solo l’arte. Tuttavia, è proprio attraverso l’esempio e il racconto che anche oggi impariamo come dobbiamo comportarci in occasioni particolari dell’esistenza: a un pranzo di famiglia o a un funerale.