La scuola e l’insegnamento

Sono parole lodevoli per passione e impegno. Il problema, però, è nel senso che ciascuno dà a quelle parole nella propria esperienza d’insegnamento e, soprattutto, nella qualità del contenuto che, di volta in volta, le accompagna.

Si discute in maniera ricorrente delle modalità di reclutamento dei docenti, attribuendo ad esse tanti guasti. In realtà, non sono tanto importanti i modi, quanto sono essenziali la cultura, la capacità di visione, la competenza specifica, l’etica di chi giudica ed esercita la scelta dei docenti.  L’introduzione nelle procedure concorsuali universitarie di indicatori statistici sulla produttività dei singoli, introduzione prevista dalla legge, denuncia una sfiducia in chi valuta. D’altra parte, però, quegli stessi indicatori, che si propongono come metro di oggettività, sono “gonfiabili” con una certa facilità se ci si trova nell’ambito di un gruppo che non è tanto necessario sia numeroso quanto è indispensabile che sia organizzato. Si ritorna al punto: il valore culturale ed etico di chi esercita la scelta del docente, e il valore del docente stesso. Abdicare a questi aspetti porta alla diffusione di un analfabetismo di ritorno ancor più dannoso perché nascosto dai titoli, che invece dovrebbero essere garanzia. Si finisce con il promuovere essenzialmente l’illusione della competenza, della capacità di comprendere, del valore di ciò che si fa; non s’invita a cercare una presenza sostanziale di questi fattori. D’altra parte, per rendersi conto di non sapere, bisogna avere cultura.

Abbiamo pressante bisogno di competenza per una gestione consapevole e costruttiva della società. Chi aspira a guidarla non deve essere solo voce affabulatrice affamata di consenso, quali siano le conseguenze, atona davanti alla necessità di avere per lo meno quella cultura necessaria a riconoscere e a rifiutare il pressapochismo e il dilettantismo, cultura utile invece a perseguire scelte di valore sostanziale per la collettività.

Si è detto più volte nella seconda metà del Novecento che la cultura porta sperequazione sociale, e lo si è fatto invitando il livellamento al ribasso della qualità dell’insegnamento. In queste affermazioni – spesso espresse da posizioni privilegiate – ci si dimentica che annacquare la preparazione culturale facilita enormemente, per mancanza di concorrenza, chi già ha possibilità d’influenza e riesce a raggiungere posizioni che non meriterebbe; è quindi un modo per perpetuare la sperequazione sociale già esistente.

Nel 1931, il filologo Ernst Robert Curtius si lamentava dell’abbattimento della formazione che rilevava nella Germania del suo tempo e che – possiamo pensare – favorì ciò che la Storia annota (sempre che ci si ricordi di studiarla). Denunce analoghe sono ricorrenti nelle varie epoche. Che fare, quindi? Non ho grandi piani da offrire ma ogni volta che concludo una lezione e mi allontano dall’aula con le dita bianche di gesso, mi viene istintivo pensare che la volta successiva dovrei cercare di fare meglio, e se anche non ci riuscissi, varrebbe comunque l’averci seriamente provato.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 29 luglio 2019]

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