di Paolo Maria Mariano
Una volta, Patrick Burke, che allora era il direttore del campus di Firenze della Gonzaga University, un’università privata di Spokane, Stati Uniti, mi disse: “avevate un liceo classico che era equivalente al nostro Bachelor in lettere” – il loro diploma universitario di terzo anno – “e lo avete distrutto”.
Nel sistema scolastico s’investe poco, e sempre meno. Si auspica un incremento del numero di laureati ma si discute poco di quanto dovrebbero essere preparati, finendo per svalutare il senso del titolo. Al suo proporsi, il passaggio al sistema universitario di tipo anglosassone (diploma al terzo anno e successivi due anni) è stato tacitamente inteso essenzialmente come moltiplicatore di corsi e quindi di posti. Si sono deprivati i programmi del tempo dell’approfondimento. Si è cancellata una tradizione che forniva laureati con forte preparazione di base, quindi laureati flessibili, peculiarità apprezzata all’estero, per optare per la struttura formale di un altro sistema, quello anglosassone, senza averne la tradizione pertinente e quindi l’esperienza di gestione. Nelle scuole tecniche si tende alla formazione di esecutori piuttosto che di progettisti, una scelta al ribasso per la cui giustificazione esplicita si richiama il mercato, non so se a ragione. Di sicuro, però, il mercato tende a cercare motivi per corrispondere compensi inferiori, ma il mercato stesso cerca anche competenza.
Il livello dello stato delle cose sembra precipitare ulteriormente quando si guarda alla situazione pre-universitaria. Le statistiche Invalsi appaiono preoccupanti, soprattutto sulla percezione dell’italiano: per il 35%, studenti di scuola media superiore non intendono (a vari gradi che un numero medio non può esplicitare) testi italiani non tecnici. Non hanno, cioè, acquisito una ricchezza culturale tale da permettere la comprensione. Questo influisce sulla capacità di avere ed esercitare una funzione critica che indirizzi le scelte e, di riflesso, irrobustisca l’etica. Si attribuiscono colpe alle famiglie, e al suggerimento, implicito nella gestione attuale dei mezzi di comunicazione, che la banalizzazione e l’esposizione di sé siano sufficienti a conquistare senza fatica posti al sole; si addita la responsabilità dei docenti. Molti di loro, però, forse quasi tutti, alla fine della loro carriera possono forse esprimersi, a vario grado di coscienza, come mi scrive Giovanni Frosali, già professore ordinario di fisica matematica nell’Università di Firenze: “Io mi vanto di avere insegnato per 50 anni mostrando il sudore nell’insegnare, per far capire allo studente che tutto si raggiunge a fatica. Io ho sudato, urlato, ripetuto, di continuo sulle idee per far capire che la conoscenza si raggiunge a fatica. […] Una volta che ho indicato la strada, una volta che ho visto andare avanti i più bravi, a quel punto a quelli che sono rimasti indietro non ho mai chiuso la porta, anzi li ho accompagnati alla porta mostrando loro la fatica che è sempre necessaria.”