di Gianluca Virgilio
Con un amico venuto da fuori passeggiavo per le strade della vecchia Galatina, qualche tempo fa. Eravamo in Corso Garibaldi. Avevo appena presentato all’amico l’avvocato Carlo Caggia, fermo nei pressi del Bar Eden. Vedendomi calato nella parte del Cicerone, Carlo mi aveva suggerito di far leggere all’amico l’epigrafe posta sulla facciata di casa Vernaleone e di mostrargli “la parte rossa della città”: alludeva a Piazza della Libertà (“fagli leggere anche l’epigrafe dettata da Lucio Romano in ricordo di Carlo Mauro!” mi raccomandava), Piazza Carlo Galluccio e dintorni, dove un secolo fa si addensava la popolazione contadina, i braccianti, e dove si facevano i comizi dei “rossi”. Si scusava di non poterci accompagnare perché aveva già compiuto la sua passeggiata serale e non se la sentiva di continuarla. Io e il mio amico proseguimmo da soli fino a casa Vernaleone. Ecco l’epigrafe, dettata da G. Porzio il 25 gennaio 1914: “Il dottor Paolo Vernaleone / Al capezzale degli infermi e nei tuguri dei derelitti / Sentì balzare radiosa nell’animo / La visione / Di una nuova umanità / Gettò sui dolenti la luce dell’idea e lo squillo di guerra / Poi cadde a mezzo del cammino / Colla fronte illuminata / Dai fulgori della speranza / Al gagliardo condottiero / L’esercito in marcia / pose questo ricordo”.
“E’ un esempio di prosa del socialismo-umanitario”, mi disse l’amico, dimostrando di comprendere appieno il significato dell’epigrafe. Gli raccontai che in quella casa, nel lontano 29 giugno 1893, era stata fondata la Federazione Provinciale Salentina Socialista, ad opera dei pionieri del socialismo salentino: Cosimo Rubino, Agesilao Flora, Vito Mario Stampacchia, lo stesso Paolo Vernaleone, Carlo Mauro e pochi altri erano lì, quella sera di San Pietro, e discutevano e parlavano dell’idea socialista, del sole dell’avvenire, e il loro linguaggio era quello, fatto d’un lessico in cui, accanto a parole che richiamavano la condizione atroce di buona parte dei contadini (“infermi”, “tuguri”, “derelitti”), comparivano parole di riscatto, di speranza, ed anche di dura lotta, parole militari, come “condottiero”, “esercito”, “marcia”; e poi una parola dalla funzione destinata ad avere la meglio sulle altre: “ricordo”, il ricordo di tutto quanto accadde allora, che almeno una iscrizione avrebbe dovuto conservare.