Quel personaggio fa ridere, ma il fenomeno a cui allude va trattato seriamente. Una notizia banale, una foto postata nella rete, il sospetto di una gravidanza o di una malattia può scatenare insulti, auguri di morte, ecc. La rete pullula di episodi per cui, di fronte agli eventi più vari migliaia di individui si sentono autorizzati a far conoscere la propria opinione, quasi sempre percorsa da sentimenti avvelenati. Si insultano con pari violenza Gianni Morandi se di domenica va a fare la spesa al supermercato e Carola Rackete comandante della Sea Watch 3. E mille altri casi potremmo ricordare. Il fenomeno coinvolge, in maniera preoccupante, anche le giovani generazioni. Un convegno svoltosi il 14 maggio all’università LUMSA di Roma, organizzato da Patrizia Bertini Malgarini che in quell’ateneo dirige il Dipartimento di Scienze Umane, si intitola: «Linguaggi giovanili: hate speech e hate words. Rappresentazioni, effetti, interventi». Vi hanno partecipato specialisti di discipline diverse, offrendo ognuno il frutto della propria competenza: comunicatori, sociologi, linguisti, pedagogisti. Nella società nascono realtà nuove, la lingua ha bisogno di nuove espressioni per esprimere tali realtà: hate speech, hate words.
Diciamolo in italiano: «lingua dell’odio», «parole dell’odio», ci faremo capire meglio e forse alcuni comprenderanno quanto sia aberrante comportarsi in un certo modo. E, forse, la smetteranno. «Dillo in italiano» si intitolava una petizione di alcuni anni fa in favore di un uso più accorto della lingua italiana da parte di chi ha ruoli e responsabilità pubbliche; e anche di singoli cittadini. Non è una battaglia di retroguardia e non è un tema marginale. Non è una battaglia contro l’inglese; anzi, favorisce un reale bilinguismo. Perché è importante? Perché la lingua italiana è un bene comune: ci appartiene, ha un grande valore ed è nostro compito averne cura. È come l’ambiente. Non dobbiamo delegare alle istituzioni, alle industrie, agli “altri” la difesa dell’ambiente. Può farlo ciascuno di noi, non sporcando, evitando gli sprechi di acqua, energia, riscaldamento e condizionamento, camminando a piedi o in bicicletta, riciclando correttamente. «Sporchiamoci le mani» ha intitolato il proprio appello il nostro giornale: una battaglia ben combattuta e vinta, con l’aiuto di molti. L’altro giorno ho visto un signore che, con guanti e una lunga pinza, ripuliva da plastiche e cartacce un intero tratto di scogliera a Serra Cicora. Bravissimo, quello sconosciuto. Spero che mi legga e accetti queste mie lodi pubbliche.
Torniamo agli odiatori. È appena uscita la terza edizione della «Mappa dell’Intolleranza», il progetto ideato da «Vox – Osservatorio Italiano sui diritti», in collaborazione con le università statale e cattolica di Milano, di Bari, di Roma «La Sapienza». Il progetto ha esaminato 6.544.637 tweet (cinguettii), rilevati tra maggio e novembre 2017 e tra marzo e maggio 2018, considerando negli stessi la presenza di 76 termini “sensibili”, cioè che esprimono odio o intolleranza. È stato scelto Twitter, a preferenza di altri social network (reti sociali, puoi dirlo in italiano), perché lo strumento consente con facilità di re-twittare, cioè di ritrasmettere (dillo in italiano, per favore!) il messaggio ad altri utenti, e quindi dà l’idea di una comunità virtuale continuamente in relazione, che diffonde sentimenti condivisi. La natura del messaggio (secco, assertivo, di soli 140 caratteri) e l’anonimato della rete (che garantisce libertà di espressione senza vincoli né freni) consentono di propagare atteggiamenti individuali presso un numero vastissimo di utenti.
La «Mappa dell’Intolleranza» si chiama così perché i contenuti dei tweet vengono geolocalizzati, cioè trasferiti su una carta geografica dell’Italia e indicano le zone dove i fenomeni di intolleranza risultano, a seconda dei casi, più o meno diffusi. Quanto più vicino al rosso è il colore della mappa, tanto più alto è il livello di intolleranza collettiva. Sul sito http://www.voxdiritti.it/la-mappa-dellintolleranza-anno-3-la-nuova-radiografia-dellitalia-che-odia-online/ ognuno può verificare la distribuzione dell’intolleranza nel nostro paese, verificare in che sorta di contesto sociale odiante vive, decidere se gli sta bene o no. Non intendo qui suscitare un dibattito tra chi odia più e chi odia meno, zona per zona. Del resto l’ostilità verso il vicino segna la nostra storia, come ci ricordano le scritte sui muri, pieni di insulti verso gli abitanti di paesi o provincie contigui (e verso le squadre di calcio “nemiche”), e come ci insegna la lingua: l’etimologia di «rivale», quello che combattiamo, è da ripalis, quello che abita l’altra «riva» (ripa in latino) del fiume. Insomma vive di fronte, lo vediamo, per questo lo odiamo; non ci occupiamo di chi è lontano. L’Italia non è un paese razzista, tutti dicevano fino a una trentina di anni fa. Per forza, da noi non c’era nessuno (o quasi) che avesse la pelle più scura della nostra. Poi i neri sono arrivati, e molti tra noi hanno cambiato opinione.
Mi interessa vedere chi sono i destinatari dei tweet intolleranti: donne, omosessuali, immigrati, diversamente abili, ebrei e musulmani. Il bersaglio dell’offesa è quasi sempre l’apparenza, l’aspetto esterno, il corpo: ridicolizzato o umiliato, aggredito verbalmente e fisicamente, stuprato. Una scarica primitiva, indirizzata verso gruppi considerati deboli, diversi, inferiori. La rete favorisce la discriminazione. Data l’assenza di interazioni fisiche, di contatto visivo, di condivisione dell’espressione facciale e del tono di voce, filtri e censure cadono, la comunicazione si fa “agitata”. Politici furbi o disonesti se ne approfittano, facendo propri e amplificando frustrazione e disagio quotidiano, dando voce a forme di intolleranza verso le minoranze, comprese quelle etniche e sessuali. I temi che dominano il dibattito politico trovano riscontro nelle opinioni e nelle tracce digitali disseminate nella rete. I media sociali diventano veicolo privilegiato di incitamento all’intolleranza e all’odio; un certo tipo di linguaggio favorisce la nascita degli episodi di violenza cieca che si moltiplicano nella nostra società.
La quarta di copertina di un libro che, con mia grande sorpresa, è stato presentato anche dalle nostre parti in un contesto che non mi sarei mai aspettato, afferma: «Perché l’insulto è una forma di civiltà». No, non sono d’accordo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 21 luglio 2019]