Lo sguardo cieco di Camilleri sulle storie del mondo

Ma la morte della madre di sua madre il Maestro non è riuscito a scriverla. Lui che ha scritto più cento libri non è riuscito a scrivere la storia di quella morte. E’ riuscito solo a raccontarla a voce. Non si era mai spostata da Palermo, sua nonna. Poi a novant’anni andò a Roma a vedere Papa Giovanni. Vide Papa Giovanni e poi volle andare a vedere la villa di Adriano. La vide. Su una specie di ringhiera disse: tutta questa bellezza è insostenibile. Piegò la testa e morì sulla spalla di sua figlia. Morì di bellezza, raccontava Camilleri.

Ha scritto più di cento storie ma questa storia non ha saputo scriverla. Chissà perché. Forse perché, lui, architetto di trame, tessitore d’intrecci, si ritrovava a confrontarsi con un gesto che stringe tutte le possibili trame e i possibili intrecci. Con quella testa piegata, con quella bellezza che dilaga negli occhi e li chiude in un sonno senza risveglio.

Per Camilleri il successo è arrivato quando aveva già settant’anni, e a quell’età il successo non ti cambia la vita; forse ti costringe a riflettere di più sulla sua giostra. Scriveva per tre ore la mattina. Nel pomeriggio correggeva per tre ore. Con metodo, disciplina, come un impiegato. A chi gli ha chiesto come nasceva un suo romanzo, ha risposto che non lo sapeva. Infatti i grandi scrittori non lo sanno. Non procedono con uno schema. Ascoltano la gente, fiutano l’aria, si guardano intorno. Si guardano dentro. Le storie stanno tutte dentro e intorno a ciascuno di noi. Come tutti anche lui aveva un mito: Simenon. Ma non aveva un archivio, come Simenon. Gli interessavano soltanto i suoi ricordi e la sua fantasia; tutto il resto non aveva importanza.

Da tempo non scriveva più. Dettava i suoi racconti, i suoi ricordi.

La cecità lo aveva avvolto completamente.

Un archetipo, dunque: il narratore cieco.

Un altro ancora: la narrazione orale.

In “Amore lontano”, Sebastiano Vassalli ricorda che gli antichi attribuivano ai ciechi una capacità di inventare, di elaborare e di raccontare le storie degli uomini, superiore a quella di coloro che vedono. Avendo meno percezioni, i ciechi avevano più vita interiore. Erano dei veggenti che sapevano riempire il buio in cui vivevano di figure apparentemente reali.

Andrea Camilleri raccontava e riempiva il suo buio reale con un universo di colori immaginari, fantastici, con un meraviglioso onirico che in qualche modo compensava il suo sguardo sbarrato.

Chissà se poi non rassomigliasse davvero a Tiresia, l’indovino: con quegli occhi senza alcuna luce, con quella voce roca che sembrava provenire dalla profondità di un pozzo di mistero, con le sopracciglia che sembravano i cespugli di un fantasioso disegno di bambino. Chissà se Tiresia, l’indovino, la creatura multiforme, non avesse la stessa ironia perforante, lo stesso disincanto nei confronti di se stesso e del mondo tutto intero, chissà se non avesse anche lo stesso malcelato smarrimento nei confronti del tempo che provava Andrea Camilleri.

Dice il suo Tiresia che da quando Zeus, o chi ne fa le veci, decise di togliergli di nuovo la vista, a novant’anni, ha sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità. Ma forse l’eternità si può percepire soltanto attraverso l’azzardo di un vaticinio, di una profezia, con l’energia di uno sguardo cieco che trapassa la densa fumaglia del presente e raggiunge orizzonti di verità diversamente impensabili, e vede una luce che senza quella cecità non si può vedere.
Ho riletto in questi giorni i suoi “Esercizi di memoria”. Aveva detto che un libro così non si può scrivere a quaranta, a cinquanta, a sessant’anni; un libro così si può scrivere soltanto a novanta. Perché la vita è prima, e poi te la ricordi.

Già. C’è un tempo per ogni scrittura. C’è un tempo per la scrittura come una cattedrale gotica e un tempo per la scrittura come un capanno sulle dune.

C’è un tempo per la scrittura, come per ogni altra condizione della vita.

Per Andrea Camilleri si era fatto il tempo di una scrittura essenziale. Irripetibile. Come il giorno, l’ora, l’istante di una vita: irripetibili. Si era fatto il tempo di una scrittura come un segno del corpo, sul corpo. Che insieme ad esso diviene, con esso si assimila, s’identifica. Una linea sul palmo della mano. Una scrittura come specchio al quale rivolgere domande sul senso dell’essere stato, in un’altra ora, un altro luogo, con le stesse creature, con creature diverse. Si era fatto il tempo di una scrittura che diceva del tempo. Perché a un certo punto non si può raccontare nient’altro che il tempo; non si può dire altro se non la nostalgia, se non il dolore, le gioie, gli stupori, i sogni, i trasalimenti, le emozioni, i rimpianti, i travagli, nella trasparenza di un’immagine, in una parola, in una scena che riaffiora dalla profondità della lontananza.

Diceva che di lui non resterà niente, che sarà dimenticato come sono stati dimenticati scrittori molto più grandi. Ecco, su questo abbiamo speranza che si sia sbagliato.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 21 luglio 2019]

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