Niels Heinrick Abel era nato il 5 agosto 1802, in un tempo in cui il padre, Søren George, era vicario della parrocchia di Finnøy, isola del distretto norvegese di Rogaland, diocesi di Kristiansand. Che Abel fosse nato a Finnøy è oggi dubbio. È più probabile che fosse la vicina parrocchia di Nedstrand il luogo deputato. La questione è discussa nella biografia di Stubhaug (1996). Comunque sia, quando Søren George Abel sposò Anne Marie Sorensen e la portò a Finnøy, gli sposi avevano rispettivamente ventotto e diciannove anni e provenivano da quello strato sociale che oggi chiamiamo alta borghesia. Il vicariato aveva una certa tradizione nella famiglia di Søren George mentre Niels Henrik Saxild Sorensen, padre di Anne Marie, era un facoltoso mercante di Risør, dove cercò di far sì che ci fosse una scuola permanente fino a quando non fu coinvolto nel disagio economico dell’intera Norvegia, dovuto soprattutto alle conseguenze della posizione neutrale della Danimarca, del cui regno al tempo faceva parte, rispetto alle guerre napoleoniche.
A Finnøy, Søren George Abel sviluppò a una società di lettura che già nel 1810 aveva una biblioteca con 163 titoli. La società seguì l’evolversi della vita del vicario che scomparve nel 1820, dopo essere stato eletto in parlamento e aver subito un progressivo declino per uno scandalo e l’uso di alcool.
Nel frattempo, quando il figlio Niels aveva raggiunto i tredici anni, lo aveva iscritto alla scuola cattedrale di Christiania (oggi Oslo) in un periodo sfortunato per l’impoverimento qualitativo del corpo docente, privato dei buoni docenti che erano stati chiamati nell’università fondata due anni prima. Tra quelli rimasti, l’insegnante di matematica fu allontanato per l’eccessiva brutalità dei metodi educativi. Fu sostituito nel 1815 da Bernt Michael Holmboë. Nell’ascoltare il nuovo insegnante di soli sette anni più anziano di lui, Abel scoprì interesse per la matematica e cominciò letture appropriate, guidate da Holmboë, che nel 1839 avrebbe curato la prima edizione delle opere complete del suo ex allievo. In questo modo, Abel fu essenzialmente un autodidatta, per sua fortuna, visto l’ambiente scolastico che lo circondava.
Alla morte del padre, Abel dovette farsi carico della responsabilità degli altri sei tra fratelli e sorelle. La madre, da cui Niels aveva ereditato l’avvenenza, mostrava disinteresse, alimentato dalla sua predilezione per l’alcool e da una certa tendenza alla promiscuità. Dare lezioni private fu fonte di guadagno iniziale, necessario, viste le persone che aveva a carico. Holmboë, che lo apprezzava, faceva di tutto per trovare sussidi che alleviassero le pene pecuniarie di Abel. Holmboë non era egli stesso un matematico creativo ma non subiva quel sentimento d’inferiorità e di umiliazione, davanti alle abilità di chi è vicino per età e condizione sociale, che fa diventare penose le proprie mancanze e genera disprezzo per ciò che si vorrebbe in realtà essere, invidia in sintesi. Un comportamento simile a quello di Holmboë lo ebbe Crelle – a entrambi è dovuto plauso per questo. Abel non vide molti altri comportarsi con lui allo stesso modo, tra chi poteva essere decisivo per la sua posizione lavorativa. Comunque non cambiò, pare, quel carattere affabile che le cronache dei biografi gli attribuiscono. Nel 1821 entrò nell’Università di Christiania, mostrando attitudine per la sola matematica – aveva comunque un forte interesse per il teatro e una normale attitudine alla vita conviviale, ma questi erano aspetti non accademici. Era sempre più chiara la sua perizia matematica. Qualcuno cercò, riuscendovi parzialmente, di ottenere dal governo i fondi necessari a finanziare ad Abel un viaggio in Europa. Lo scopo era la conoscenza diretta dei grandi matematici del tempo: un’accortezza che è molto attuale, spesso necessaria, sebbene non priva di rischi – talvolta da vicino si possono notare particolari non proprio del tutto gradevoli. Comunque sia, ad Abel fu concesso solo un supporto per perfezionare la conoscenza del francese e del tedesco, ma solo in loco. Riuscì a partire a ventitré anni per andare prima in Germania, poi in Francia. Si era appena fidanzato con Crelly Kremp che gli rimase sempre accanto. In terra tedesca decise di non incontrare Gauss cui aveva mandato uno scritto che non era stato nemmeno letto. Invece di andare a Göttingen da Gauss, quindi, si recò a Berlino e lì conobbe Crelle. Certo, l’amicizia di Gauss sarebbe stata decisiva per la carriera che Abel pensava giustamente di meritare, ma così non fu. In Francia si fermò a Parigi, ospite ingenuo di una famiglia che pensava a sfruttarne la presenza, speculando sul rapporto costo/servizio. Le non confortevoli condizioni di vita minavano la salute e Niels Henrick cominciò a valutarne i segni. A Parigi Abel conobbe, anche se superficialmente, il bel mondo della matematica ricevendo una distratta, inutile stima, del tipo che si distribuisce con facilità. Partì per il sud, lasciando un articolo sulle funzioni trascendenti perché fosse presentato all’Accademia delle Scienze. Scrive Bell: “È l’opera che Lagrange definì monumentum aere perennius e che, secondo Hermite, darà da lavorare alle future generazioni di matematici per cinquecento anni, essendo uno dei coronamenti della matematica moderna. Che ne fu di quest’opera grandiosa? Legendre e Cauchy furono incaricati di esaminarla e di stendere il rapporto; Legendre aveva settantaquattro anni, Cauchy trentanove; il veterano non era più nel pieno delle forze, l’altro, il capofila dei matematici del tempo, nel vigore della maturità, non pensava che a se stesso” (Bell, 2010, pagg. 399-400). Risultato: il manoscritto di Abel non fu letto, giacque in un mucchio di carte. Ebbe il destino d’essere una pubblicazione postuma. Abel riuscì a stare a Berlino dal marzo al maggio del 1827, grazie a un prestito di Holmboë, poi dovette tornare in Novegia. Sperava di ottenere una cattedra di matematica: c’era una disponibilità. Non l’ebbe. La cattedra andò a Holmboë che però si prodigò perché Abel avesse studenti. La momentanea assenza del professore di astronomia permise ad Abel di avere un incarico temporaneo all’università. Le condizioni di salute peggioravano. All’inizio del 1829 non era più in grado di lavorare e aveva raggiunto Crelly Kremp a Froland, dove la ragazza lavorava come governante.
Nel frattempo, a Berlino, Crelle si dava da fare, anche con l’appoggio di Alexander von Humboldt che riteneva di fondamentale importanza portare in Germania sia Abel che Dirichlet. Crelle ebbe successo l’8 aprile 1829: ricevette la lettera con l’offerta di una ben remunerata posizione a Berlino per Abel. Era troppo tardi: Abel era morto ormai da due giorni. Aveva ventisei anni e otto mesi. Non risulta una diagnosi autorevole della malattia. Si suppone che sia stata la tubercolosi a fare il lavoro letale.
Oggi Abel è un’icona romantica della storia della matematica. Il primo gennaio del 2002 l’Accademia Norvegese delle Scienze e delle Lettere ha istituito il premio Abel: sei milioni di corone (750.000 euro circa) assegnate dal 3 giugno del 2003 a chi si è distinto nella matematica – un tardivo e inutile tentativo di riparazione della miopia di un tempo, sebbene sia utile per non dimenticare. Da allora la matematica ha avuto una dinamica molto ricca e articolata. Sicuramente, però, il lavoro di Abel ha segnato percorsi essenziali.
Si ripete spesso che alla domanda su quale fosse l’origine della sua abilità nella matematica, Abel rispose che gli fu chiaro che se una persona vuol fare progressi in matematica, allora deve studiare i maestri piuttosto che i loro pupilli (si veda ad esempio pag. 138 della traduzione inglese della biografia scritta da Ore nel 1954).
La risposta di Abel contiene due indicazioni per chi si avvicina alla ricerca, sia essa in matematica sia in altre discipline: (1) la ricerca dei maestri, (2) la lettura, cioè l’espansione del proprio orizzonte culturale. Sono questi due aspetti essenziali del cammino. Mi sembra che a essi si debba aggiungere almeno un’altra indicazione: andare di là delle sovrastrutture.
Qualche analisi più di dettaglio può essere utile a chiarire la questione.
Cercare i maestri e da loro imparare. Un ambiente culturale fervido rende più agevole la crescita del singolo; è quindi da ricercare. L’affermazione è nota ed è implicita nella risposta di Abel – varie sono le sue possibili espressioni. Richiede, però, che ci sia accordo tra gli interlocutori su cosa voglia dire ambiente culturale fervido. La questione è pertinente a ciò che si intende per cultura, un termine che spesso si abusa per dare patenti di nobiltà ad attività che riguardano essenzialmente il mercato spiccio, la ricerca di peculio fine a se stessa quindi, l’auto-esaltazione vuota del singolo, la gestione di potere. Hannah Arendt suggeriva che il termine cultura debba considerarsi pertinente a ciò che viene dopo l’immediato bisogno materiale, quello che regola – possiamo intendere – la struttura fisiologica umana. Un problema è cercare di capire cosa sia l’immediato bisogno materiale e il dopo di esso. Un modo d’intenderlo è quello di pensare a esso come bisogno primario. D’altra parte, però, la pittura di Vermeer, di Caravaggio, di Rembrandt, di van Gogh, la musica di Bach, di Beethoven, di Mozart, di Vivaldi, la letteratura di Shakespeare, di Omero, di Dante, di Cervantes, solo per fare alcuni esempi sulla cui significatività sarebbe perdita di tempo obiettare, sono – è difficile sostenere il contrario – nutrimento per la mente. E il benessere mentale cui quella pittura, quella letteratura e quella musica contribuiscono è un elemento di bisogno primario per l’essere umano, invero. Purtuttavia il lettore potrebbe rilevare che si può vivere da soli e in sanità mentale (una volta che ci sia accordo anche su questo concetto) su di un qualche fiordo norvegese, isolato perché aspro, nella tundra siberiana, sulle montagne nepalesi, senza aver mai visto lo sguardo sospeso della Ragazza con cappello rosso, uno sguardo che è una rivincita sul tempo, o aver letto del delirio di Macbeth quando la foresta avanza, o aver ascoltato Glenn Gould che suona le Variazioni Goldberg – e meravigliosamente canticchia, ahimè. D’altra parte, però, quando la persona che nella finzione ideale di queste pagine si è rifugiata in una landa sperduta, sola, senza alcuna connessione con il mondo circostante, è presa dal vezzo d’istoriare, per esempio, il manico del coltello con cui taglia la verdura che coltiva, un vezzo istintivo, essa va di là del bisogno fisiologico primario del suo stomaco (tagliare la verdura e prepararla perché sia commestibile, sarebbe sufficiente alla sopravvivenza), come va oltre quando cerca d’insaporire il piatto di verdura che cucina e aspira a una gratificazione del gusto, in aggiunta alla necessità di dover inserire una certa quantità di sostanze organiche che gli permettano di affrontare il giorno. Il gusto muta, in accordo al raffinarsi della capacità di cucinare. Nel fare questo e nell’istoriare il manico del suo coltello, usa il suo cervello in maniera da realizzare cose nuove (un piatto migliore, un segno sul manico che gli ricordi qualcosa o sia solo veicolo di emozione). Si può chiedere se quest’uomo isolato stia, con il suo fare, stabilendo un ambiente culturale.
In realtà nella seconda parte del novecento, la gerarchia tra vita dedicata al pensiero (vie avec la pensée), alla base dello sviluppo della civiltà occidentale, è stata rivista da commentatori la cui numerosità è presto divenuta predominante. Si è sostenuto che tutto ciò che va da gesti elementari a creazioni spirituali somme fosse in realtà da intendersi come cultura. Aggiunge in merito Fumaroli: “Tutta questa confusione attuale sul termine «cultura», inteso nel senso degli antropologi (mezzi di sopravvivenza dei popoli senza scrittura) e dei sociologi (tutte le commodities delle società dei consumi, dall’orinatoio allo schermo digitale), è nata da una volontà di indifferenziazione da quella che il diciottesimo secolo, prima di Paul Valéry, chiamò «civiltà» e che presupponeva, oltre un’attività di sopravvivenza materiale, amministrativa e militare, una sfera di sovrappiù, un tempo di lusso, un retroterra estraneo, sia all’inerzia che alla mobilitazione, in cui il libero gioco dello spirito, delle emozioni, della mano d’artista esplora ciò che resta nascosto alla vista frettolosa o distratta” (Fumaroli, 2011, pag. 40).
Vi è quindi la possibile interpretazione, peraltro diventata dominante, del termine cultura che sia quasi del tutto altra da “le domain où se dérole l’activité spirituelle et créatrice de l’homme” (Finkielkraut, 1987, pag. 16), definizione che richiede, una volta che si voglia impostare su di essa una discussione, che gli interlocutori trovino almeno un ragionevole accordo su quello che essi intendono per “attività spirituale creatrice”. In ogni caso, più che cercare una definizione cristallizzata sul dualismo “cultura sì”, “cultura no”, è forse più appropriato parlare di gradi di cultura, prendendo a metro ultimo, in un dato settore, ciò che in esso appare essere lì il migliore prodotto dell’umano agire, con la speranza di poter cambiare il termine di paragone perché nuovi e più raffinati prodotti dell’ingegno umano si aggiungono. Così facendo, però, non ci si esime dall’esercizio di emettere un giudizio di valore, con tutte le difficoltà e le incertezze che ciò genera, soprattutto quando ci si riferisca a livelli intermedi, non solo a ciò che può aspirare a essere termine di paragone. Il capolavoro, infatti, indica esso stesso il suo criterio di giudizio (le analisi di Dantzig, 2012, illustrano la faccenda in un certo qual modo), anche se, perché tale criterio sia riconosciuto, sono spesso necessari il tempo e il superamento di un arduo cammino, quello che è invece spesso nebbioso e paludoso per le opere intermedie tra il capolavoro e il niente. E tali difficoltà fanno sì che la valutazione sia un genere di processo che va vieppiù approfondendosi e/o mutando. Il giudizio subisce l’influenza dell’ambiente storico, ma è proprio ciò che alla contingenza sopravvive, che da essa è indipendente, che determina un’apprezzabile misura di valore e contribuisce a modellare il pensiero astratto. La pratica in tal senso risale al mondo greco antico, il miracolo greco nella dizione di Steiner. “Il miracolo consisté nello scoprire, anche se questo concetto resta inafferrabile, e nel coltivare il pensiero astratto. E con esso la pura riflessione e l’interrogarsi non inquinato da esigenze utilitaristiche di economia agraria, navigazione, controllo delle acque, predizioni astrologiche che erano prevalenti, spesso in maniera geniale, nelle attività del Mediterraneo, del vicino Oriente e dell’India. Abbiamo la tendenza a dare per scontata questa rivoluzione, essendone noi il prodotto. Invece è strana e scandalosa. L’equazione di Parmenide tra pensiero ed essere, il giudizio di Socrate che la vita irriflessiva non sia degna di essere vissuta, sono provocazioni veramente enormi. Incarnano la supremazia dell’inutile, così come noi la presagiamo della musica. Nell’orgoglioso linguaggio di Kant, esse aspirano all’ideale del disinteressato. Una cosa ancora più strana, forse eticamente più sospetta, della propensione a sacrificare la vita a un’ossessione astratta, inapplicabile, come fa Archimede quando riflette sulle sezioni coniche o come fa Socrate. La fenomenologia del pensiero puro è quasi demoniaca nella sua estraneità. Pascal e Kirkegaard lo stanno a dimostrare.” (Steiner, 2012, pagg. 28-29).
Si chiederà, però, chi voglia addentrarsi in maniera professionale nella ricerca matematica come Abel, o in altra disciplina, cosa abbiano a che fare queste disquisizioni con il suo desiderio di trovare una strada per imparare un po’ (e forse più di un po’, secondo le aspirazioni personali) del settore per cui prova interesse per poi raggiungere una posizione che gli permetta di esercitare creativamente e con tranquillità quello che ha appreso e forse imparare dell’altro.
Se la persona in questione è solo interessata agli aspetti economici e a quelli che si riferiscono alla posizione sociale che quel tipo di lavoro può offrire, la pertinenza delle riflessioni precedenti può considerarsi trascurabile, se non inesistente. Non ha necessità di cercare di capire come si possa valutare il grado culturale di un ambiente. Soprattutto non ha necessità di trovare e neanche di cercare maestri – il punto cui mi propongo pian piano di arrivare. Gli basta inserirsi con iniziale discrezione in un gruppo di ricerca sufficientemente potente nelle questioni di politica accademica, seguire il pensiero dominante nel suo specifico settore senza esprimere critiche né manifestare una propria personalità indipendente, né, tanto meno, trovare risultati prominenti rispetto a quelli di chi presiede il gruppo, anzi essendo strettamente funzionale ai suoi progetti. In tal modo potrebbe forse ritrovarsi nei ritratti de Les Caractères ou les Moeurs de ce siècle, che Jean de la Bruyère pubblicò nel 1688, conseguenza della frequentazione a Versailles di cortigiani incipriati, decorativi, smaniosi di avere la suggestione di dividere potere per quanto effimero e trascurabile esso potesse essere, considerando ciò nell’intimo come prova di ragion d’essere propria, di esistenza, in fondo (de la Bruyere, 2012).
Ho comunque una speranza, sebbene di salute cagionevole. Presumo, infatti, che tra chi abbia avuto la pazienza di leggere fin qui, attraversando anche passaggi angusti, e abbia in mente di dedicarsi professionalmente a un ambito di studio, ci sia più di qualcuno che non abbia in maniera decisa (e, per quanto riguarda la mia considerazione, drammatica) le attitudini che ho appena descritto ma abbia attrazione, almeno in principio, per un’attività del pensiero che sia mossa da curiosità, dalla ricerca di armonia o meglio di bellezza, dal desiderio (per quanto possa essere talvolta vano) di comprendere qualcosa di ciò che ha d’intorno. Ebbene, per costoro le note precedenti sulla valutazione del grado culturale di un dato ambiente sono pertinenti. Chi si voglia addentrare in qualsiasi ambito di studio e voglia cercare di essere creativo o, almeno, indirizzare in maniera positiva la sua attività, come fecero Crelle e Holmboë che creativi non erano (beh!, Crelle lo fu nell’ideare la sua rivista), troverà rilevante la possibilità d’accostarsi ad un ambiente che abbia un livello culturale alto ma compatibile con le sue capacità e che abbia un’etica del rispetto. La scelta iniziale di un tale ambiente in cui sviluppare i propri studi è, spesso, se non sempre, condizionata da fattori contingenti. Essa deve quindi essere intesa come una tappa in un processo nel quale la crescita culturale personale coinvolge differenti frequentazioni, ove possibile, di ambienti sempre migliori – e la capacità di giudizio di essi è sempre commisurata al livello personalmente raggiunto. Cerchi chi si avvia lungo questo cammino i propri maestri nella disciplina che lo attira – e che siano pluralità – ma da essi non si faccia schiacciare, cercando di mantenere una sua persistente individualità che però non sia priva di rigorosa ma non annichilente autocritica.
C’è comunque da intendersi su che cosa voglia dire maestro, pur avendo presente l’idea che da tutti, in un qualche momento, si possa imparare. Il fattore decisivo è il tempo. Un maestro si vede dalla capacità d’essere nel tempo un riferimento, l’indicatore di strade nel dominio in cui agisce, quello nel quale si propaga la sua opera, il suo modo di essere.
Cerchi quindi chi si addentri in qualsiasi disciplina del sapere d’interagire, anche solo per l’inizio della sua ricerca, con docenti che abbiano dato e diano ancora al momento dell’incontro contributi chiari e possibilmente vasti (anche qui c’è una gradazione per gli aggettivi che corrisponde a quella dei maestri) e, soprattutto, a loro attribuibili senza dubbio alcuno.
Abbia rispetto per la qualità, che poi è il vero obiettivo del suo fare – obiettivo che riguarda sia la definizione di un livello che il raggiungimento e almeno la permanenza in esso – ma non sia prono, non sia succube di chi possiede ed esercita quella qualità che va cercando, perché anch’egli un giorno (chissà?) potrebbe essere un maestro. E semmai l’obiettivo dovesse sembrare troppo alto, non si disperi e non diventi il soccombente di Bernhard, semmai si ricordi che il vero succo dell’impresa sta nel cammino, nel provarci con sobria e solida dignità, quella che è l’istinto che caratterizza uno degli aspetti essenziali dell’essere maestro. In assenza di essa – la dignità, dico, con gli aggettivi pertinenti – la qualità che ci parrebbe di attribuire a una persona sarebbe molto probabilmente solo apparente. Apparenza di qualità sono spesso i titoli, gli incarichi, i premi, soprattutto quando la persona che li riceve li condisce di arroganza, il vestito peggiore della mediocrità.
Comunque sia, la risposta di Abel apre una serie di problemi che possono essere affrontati con successo forse solo in un processo formativo che non si intenda con un inizio e una fine, collegati ad un periodo preciso dell’arco dell’esistenza, ma che coincida con tutta essa.
La questione essenziale riguarda il luogo ove si vuole porre l’asticella, quale sia, cioè, il livello cui si voglia e si possa giungere. Non si tratta, sia chiaro, di quel livello cui spinge l’ambizione dei possedimenti materiali o di quelli della gloria, che sa d’essere vana (in fondo è la sua maledizione), quanto il desiderio di andare in profondità nel possibile senso delle cose, la curiosità della conoscenza, pur nella consapevolezza dell’irrealizzabilità ultima della compiutezza del processo.
Lo studente che si guarda in giro per chiedere una tesi, osservando un qualche docente per poi avanzare una richiesta, dovrebbe chiedersi che cosa costui abbia scritto, in quali ambienti lo abbia pubblicato, quanto abbia scritto da solo, e, infine, quale sia il suo rapporto con gli allievi.
Per essere in grado di indirizzarsi, di capire differenze e gradazioni culturali, però, lo studente deve leggere. E questo è un altro dei punti cruciali di tutta questa faccenda.
Leggere. Sostiene Bloom: “Sono del parere che leggiamo per porre rimedio alla nostra solitudine, anche se poi, di fatto, la nostra solitudine cresce parallelamente all’aumentare e all’approfondirsi delle nostre letture” (Bloom, 2007, pag. 107). È un monito di cui bisogna tener conto. Nonostante i rischi, però, leggere è parte integrante e cruciale del processo di formazione e di crescita culturale.
Siamo noi, infatti, che stabiliamo il recinto dei nostri pensieri, compatibilmente con il limite alla capacità di comprensione fornitoci dalla natura. Leggere può voler dire allargare il recinto, poter incrementare il grado culturale personale, la propria capacità d’andare oltre le esigenze istintive primarie che sono riferite alla sopravvivenza. La possibilità è però collegata alla qualità della lettura e presume quindi l’esercizio di un giudizio da parte del lettore che sceglie di andare avanti fino in fondo in un testo e di non fermarsi e riporre la carta irrorata d’inchiostro per non riprenderla. Non sempre, però, la crescita culturale è apprezzata. Anzi, crea spesso fastidio in chi basa la sua attività sulla gestione di potere.
Ci sono piccoli esempi che si possono estrarre dall’attività culturale quotidiana. Vi sono, però, esempi macroscopici che da soli chiariscono la questione e che, per questo, vale la pena ricordare.
Immaginateli: in migliaia si apprestavano frenetici a recitare un canovaccio che prevede il rogo di libri, un gesto che voleva dichiaratamente essere al tempo stesso simbolico e catartico. Accadde tra il 10 maggio e il 21 giugno 1933, talvolta con declamata ritualità, come fu per Berlino, dove furono arsi circa ventimila volumi trasportati su camion e preceduti da musiche, talaltra in modo più carnascialesco, come in altre delle trenta città universitarie tedesche coinvolte. Immaginate ancora i volti resi stolidi, taluni dalla costrizione dovuta al timore che spinge a essere gregge, altri dal convincimento, altri ancora dall’istinto d’acquisire potere (per tendenza innata, per rabbia da frustrazione, per mero interesse) e forse soprattutto da sfrenata euforia, quella dovuta alla perdita dei freni inibitori, volti che nell’Opernplatz di Berlino (la piazza dell’Opera) ascoltarono il primo giorno del periodo dei roghi il discorso di Goebbels. Il propagandista declamò il valore simbolico del gesto in vista di un futuro in cui (almeno nel suo dire) il cittadino tedesco non sarebbe stato e soprattutto non sarebbe dovuto essere “un uomo di libri”. C’erano in quella piazza le Sturm Abteilungen (SA), i gruppi paramilitari di Röhm, che erano il braccio armato del partito nazionalsocialista e che ormai a quel tempo avevano raggiunto i due milioni in numerosità. C’erano le Schutzstaffel (SS) di Himmler, reclutate tra le SA per costituire la guardia personale di Hitler che era a capo del governo dal gennaio di quell’anno, e che aveva già fatto sospendere le garanzie costituzionali e aveva posto la magistratura sotto controllo, prevedendo che il criterio di legalità fosse espresso solo dalla sua persona. C’erano studenti cui Goebbels attribuì l’iniziativa dei roghi. C’erano infine professori. Per questi ultimi, che avevano marciato con gli studenti in una processione che precedeva i libri destinati alle fiamme, mi sembra di poter dire che dei professori avevano solo il nome, non la qualità etica che si dovrebbe richiedere a chi a quel titolo ambisce o quel ruolo ha già. Per gli altri la Storia ha ampiamente provveduto ad emettere l’inevitabile giudizio.
Nel rogo finirono scritti che contenevano idee non congrue con quanto pareva convenire alla tipologia di regime che si instaurava (si è sempre in un regime, infatti, la questione cruciale è di quale tipo si tratti). La lista degli autori dei libri arsi comprende, in ordine sparso, Adorno, Bloch, Wittgenstein, Einstein, Freud, Husserl, Weber, Benjamin, Arendt, Fromm, e tanti altri, fin troppi. Erano tutti rappresentanti di quella cultura tedesca che attraversava un periodo d’inusitata creatività ma che forse non era riuscita a riversarsi in una maniera adeguatamente costruttiva nella qualità del sistema educativo, se si guarda al percorso che portò a quella storia naturale della distruzione (per parafrasare in senso più esteso un titolo di Sebald) che ha caratterizzato la prima parte del secolo scorso. Comunque, vi era già critica circostanziata alla direzione intrapresa dal sistema educativo tedesco. Qualche anno prima, nel 1931, Curtius, filologo attratto dallo sviluppo delle idee nella vicina Francia, anche per le sue origini alsaziane, firmava sulla Die Neue Rundschau, una rivista svizzera, un saggio che aveva deciso di intitolare Abbau der Bildung, letteralmente “abbattimento della formazione” (per la traduzione italiana si veda Curtius, 2010). Facendo un paragone con l’integrazione in Francia tra tradizione, sviluppo culturale e senso dello Stato, Curtius registrava come la gioventù tedesca leggesse in quel periodo soltanto ciò che veniva “consigliato in foglietti di associazioni di lega o politico-partitici” e ricordava come, ad esempio, il ministro prussiano della pubblica istruzione, nel discorso di apertura del museo Pergamon, sostenesse che non fosse propriamente più da giustificare la cura dell’arte antica. Si era progressivamente persa una visione culturale ampia, lo stesso desiderio di essa. Tutto ciò era funzionale al controllo della società. È la ricerca di un potere privo di etica che avversa i libri ed ha in sé l’enfatico disprezzo per una formazione culturale sostanzialmente formativa, vasta, e non solo meramente informativa. “Però ricordati di impadronirti prima dei suoi libri; senza di essi egli è solo uno sciocco come me, e nessuno spirito potrebbe obbedirgli. Solo i suoi libri, devi bruciare.” È questo il consiglio che Calibano offre a Trinculo e Stephano per togliere l’isola a Prospero. È “La Tempesta”. È Shakespeare, con cui tutti noi dobbiamo fare i conti quando scriviamo, come non si stanca di ripetere da anni Bloom.
Scrisse Borges nel 1950 (La muraglia e i libri, in Altre inquisizioni): “Lessi, giorni addietro, che l’uomo che ordinò l’edificazione della quasi infinita muraglia cinese fu quel Primo Imperatore, Shih Huang Ti, che dispose anche che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui. […] Bruciare i libri ed erigere fortificazioni è compito comune dei principi; la sola cosa singolare in Shih Huang Ti fu la scala sulla quale operò” (si veda Borges, 1986, vol. 1). Forse, per accettare la generalità dell’affermazione di Borges, non serve neanche ricordare altri esempi quali i libri bruciati dall’Inquisizione spagnola, la distruzione sistematica della Biblioteca Nazionale bosniaca da parte dell’aeronautica serba nel 1992 o infine, giusto per interrompere la lista, l’incendio della biblioteca di Baghdad nel 2003.
La lettura è l’antidoto alla massificazione bruta. Sviluppa lo spirito critico, la sensibilità naturale del singolo, la coscienza del ruolo sociale delle istituzioni. Non lascia mai soli e al contempo permette di rimanere soli con se stessi a pensare. Lettura di cosa? Nel 1644, Milton, in uno dei suoi scritti con intenti politici, l’Areopagitica, scrisse che “uccidere un buon libro equivale a uccidere un essere umano; chi uccide un essere umano uccide una creatura ragionevole, l’immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione medesima”. Il punto sta proprio nell’aggettivo “buono” che implica la necessità di un giudizio di valore. Per esso sono necessarie sensibilità, competenza, onestà intellettuale. La prima è un istinto naturale che non si acquista in nessun mercato. La seconda richiede dedizione e impegno. La terza è una qualità etica che pretende anche la capacità di andare oltre i limiti della propria psicologia. Trovare tutte queste caratteristiche in quantità adeguata nella stessa persona che sia impegnata in un giudizio di qualità che riguardi la formazione culturale non è impresa banale, anzi troppo spesso appare particolarmente ardua. Il percorso di scelta delle letture “buone” è quindi scosceso. È fatto di tentativi, di ripensamenti, di costanza. Ha bisogno del lavacro del tempo. La lettura, infatti, non è un’attività passiva. Ciascuno di noi si accosta al libro con il proprio bagaglio di esperienze e rimane più o meno avvinto da ciò che vi trova in base al suo stato d’animo ed alla capacità di comprensione del momento. Ha, cioè, pre-comprensione, direbbe Gadamer. Quest’ultima è alterata in un processo dinamico dalla lettura stessa. “Se l’evento della lettura è l’incontro di due solitudini, ognuna di esse risulta popolata da una molteplicità senza termine di voci e di ombre misteriosamente solidali lungo la trama temporale cui è inevitabilmente legata anche la nostra ricerca di senso nelle parole del passato”, annota Raimondi (2007). E le modalità di lettura e la maniera di accostarsi alla lettura stessa e dare un senso a quell’atto non sono state sempre le stesse. Di una storia della lettura ha parlato Manguel (2009) che da adolescente ebbe la ventura di diventare lettore ad alta voce per Borges, quest’ultimo oramai a quel tempo in una fase avanzata di cecità, stato in cui resse la biblioteca di Buenos Aires, che conteneva allora ottocentomila volumi, e immaginò quella di Babele, figurandola come un contenitore di tutti i libri possibili a partire da un alfabeto di venticinque lettere, una biblioteca che ai suoi occhi spenti sembrava una ragionevole immagine dell’universo, anzi con esso coincidesse.
Parlando dell’attività del romanziere, Proust (2011) sosteneva che “per opera sua, perdiamo la nostra condizione precedente per conoscere quella del generale, del tessitore, della cantante, del nobile di campagna, la vita nei campi il gioco, la caccia, l’odio, l’amore, la vita degli accampamenti. Per opera sua, noi siamo Napoleone, Savonarola, un contadino, o addirittura – esistenza che avremmo potuto non conoscere mai – siamo noi stessi”. Ma non sono solo i romanzi. Così fa la poesia, così fanno i saggi.
C’è anche qualcosa di più e ci si dovrebbe dilungare, forse troppo per i confini di questo scritto. Una rapida sintesi è data da pochi versi, non troppo limati ma pertinenti.
Ho detto – l’ho scritto in un saggio –
La lettura è un atto di libertà
Ma è anche – lo dovevo aggiungere –
Scostarsi dal rumore del mondo
Salire a rilento sulla collina
Allontanare la frenesia
Che attanaglia le ore dei giorni
Che smorza la luce delle cose
Delle piante che crescono
Degli animali che tra loro camminano
Del sorriso degli umani.
Un libro è compagno paziente di viaggio
Porta il suono delle parole
Il ritmo dei pensieri
La fantasia,
Aiuta a sopravvivere a se stessi
A restare come ulivi
Se le parole non sono scritte sull’acqua
Se hanno il dono dell’arte
Se non muoiono come il fuoco
Quando il ceppo è ormai consunto
E diventa cenere, preda del vento.
Può bastare? In realtà si deve riprendere il cammino di questa narrazione perché le indicazioni della risposta di Abel (leggere i maestri, non i loro pupilli) sono sicuramente necessarie a chi si avvii alla ricerca in un qualche ambito culturale, ma di certo non sufficienti. La stessa lettura di cui ho tessuto sin qui le lodi con convinzione nasconde insidie. Una, minore in verità, è la possibile dispersione delle forze inseguendo ora uno ora l’altro autore – si impara, comunque, a discernere. Un’altra è la possibile cristallizzazione delle idee: nel ripetere letture su un certo campo, nell’approfondirle, si può avere il rischio di non riuscire a pensare altrimenti da quello che si legge. È il motivo per cui è nata la diceria per cui in matematica si è creativi solo da giovani. Eminenti esempi contrari – penso a Eulero, Gauss per citare le montagne da ottomila metri, o in questo secolo von Neumann, Niremberg, Gromov, Arnol’d e altri – fanno pensare che sia un po’ una leggenda che però, come tutte le leggende, ha un qualche tipo di fondamento nascosto: l’analisi continua di una teoria genera un modo di pensare, spinge progressivamente a trovare naturale il punto di vista e a “dimenticare” la struttura primaria della teoria, perdendosi nelle sovrastrutture. Non so se l’osservazione valga per tutti i campi. Per quello che finora ho potuto vedere, posso dire che è vera soprattutto nella costruzione di modelli di fenomeni fisici: per costruire di un qualche fenomeno fisico un modello matematico che dia una luce nuova su quanto si conosce, è generalmente necessario andare alla struttura primaria delle nozioni che si posseggono, intendere cosa effettivamente esse dicono, di là dal modo con cui sono comunemente usate, e vedere dove e come esse possano essere modificate per fornire nuove prospettive. È una continua lotta contro la precomprensione che ciascuno naturalmente ha.
Comunque sia, una volta che abbia fatto tutto questo – cercare e interagire con maestri, incrementare la propria cultura (leggere è la strada maestra ma non la sola), ottenere risultati nuovi – chi si avvia alla ricerca si accorge che non basta a consolidare la sua carriera, come non bastò ad Abel, le cui indicazioni e la loro estensione appena accennata qui sono sufficienti per l’inizio. La persona in cammino si scontra con il giudizio di valore. Di esso, però, non dovrebbe avere paura: ognuno fa quello che può e dovrebbe cercare di migliorare, null’altro. I modi con cui il giudizio è esercitato e le ragioni per cui si esercita in modi talvolta palesemente irragionevoli sono il vero problema. Non si tratta, infatti, di fatti giuridici regolati da codici ben precisi, sia pur con un margine d’interpretazione. Al contrario, qui – si è visto con Abel, esempio iperbolico e per questo paradigmatico – non vi sono codici, altro è dominante. A questo punto, una giaculatoria contro l’incrocio tra i molteplici aspetti deleteri della gestione del potere accademico, per quanto vacuo e non tangibile esso possa essere in molti casi, sarebbe forse ripetitiva e infruttuosa. La letteratura pertinente è ampia e sono profonde le analisi in essa presentate. Qui basta ricordare che l’origine delle distorsioni, anche dal semplice buon senso, talvolta persino dall’evidenza, risiede molto spesso nella psicologia di chi esprime un giudizio di valore. E sono proprio i fattori psicologici che principalmente corrodono l’onestà intellettuale. Immagino due circostanze in cui chi giudica sia in condizioni auspicabili per il concorrente di valore. La prima riguarda il caso in cui il giudicante possiede un grado culturale tecnicamente appropriato a quello dei candidati e uno spirito almeno analogo al migliore tra loro. D’altra parte, però, il grado culturale di chi giudica potrebbe anche non essere tecnicamente appropriato ma dovrebbe essere adeguata al compito la sua sensibilità personale, tale da permettere il riconoscimento del candidato che più assicura la possibilità di ottenere risultati rilevanti nel suo campo e la capacità di trasmetterli agli eventuali allievi. Che tali circostanze non siano la norma non deve necessariamente indurre mesto sconforto. Difficoltà iniziali possono trasformarsi in qualcosa di positivo, perfino se si sono protratte nel tempo. Vi sono esempi in questo senso, come anche vi sono storie che finiscono male. Quella di Abel è triste. È bene forse ricordarne una che ebbe esito opposto, pur partendo da un iniziale fallimento.
La storia comincia con una copertina. Vi è scritto
Dissertazio physica
DE SONO
quam annuente numine divino
iussu magnifici et sapientissimi phylosorum ordinis
pro
vacante professione physica.
La pubblicazione è del 18 febbraio 1727. La nota sul suono (De Sono, appunto) era stata presentata all’Università di Basel – la Basilea affastellata lungo il Reno a delimitare il confine svizzero con le lande tedesche e francesi – pro vacante professione physica, per concorrere, cioè, a una cattedra vacante di fisica presso quella stessa Università. Il concorso si sarebbe chiuso nel marzo dello stesso anno.
Lo scritto a stampa constava di sedici pagine ed era presentato come Habilitationsscrift (tesi di abilitazione all’insegnamento). Lì era riassunto quanto di essenziale all’epoca era noto sulla natura e la propagazione del suono, e si apponevano alcune considerazioni inedite e una lista di problemi aperti. Si suggeriva implicitamente un programma di ricerca che avrebbe avuto per lungo tempo natura d’indirizzo per tanti studiosi. Lo stesso autore avrebbe scritto sull’argomento almeno cento articoli (tra molti altri, in verità), da quelle sue iniziali riflessioni. Questo, però, sarebbe stato il futuro. Nei giorni della pubblicazione i suoi pensieri erano presumibilmente indirizzati solo alla procedura di concorso cui partecipava perché essa poteva assicurare sussistenza per il suo presente e per il tempo a venire. Non era privo di consapevolezza ma sapeva di poter avere qualche punto debole. Poteva, infatti, sembrare al giudicante troppo giovane per l’aspirazione che lo muoveva a postulare per la cattedra di fisica nell’Università di Basilea: il 15 aprile di quell’anno avrebbe compiuto appena vent’anni. Si era mostrato, però, già produttivo. Due scritti, uno del 1727, l’altro dell’anno precedente, avevano riunito suoi contributi allo studio delle traiettorie reciproche, un argomento in cui si era visto il suo professore di matematica e mentore, Johannes Bernoulli I, quello che in quel momento era forse il più eminente matematico in attività in Europa, disputare con la scuola inglese. Aveva poi partecipato a un premio scientifico a tema, istituito dall’Accademia delle Scienze parigina. L’argomento del 1726 era il modo ottimo di montare gli alberi sulle navi. Aveva ottenuto un accessit. Si trattava di un secondo premio che aveva diviso con un altro concorrente, Ch. E. L. Camus. Il primo premio era stato assegnato a Pierre Bouguer, che è considerato tutt’oggi il padre dell’architettura navale moderna, e che proveniva da un ambiente consono alla tenzone: il padre Jean era autore di un trattato sulla navigazione. Il giovane svizzero, invece, aveva, invece, un’esperienza marinara che non andava oltre la contemplazione dell’avanzare di chiatte e navigli su quella parte del Reno che bagna Basilea. Era meno di un dilettante, quindi, eppure sopperiva all’esperienza con la capacità di enucleare dal problema aspetti essenziali e di trasferirli in termini analitici: la capacità di creare modelli.
Così si presentava al concorso di Basilea. Sembrava promettente. Lo era, anzi. D’altra parte era Leonhard Euler, l’Eulero della dizione italiana. Laplace, a lui posteriore, diverso profondamente per carattere e convinzioni, aduso all’equilibrismo politico, supportato da una personale capacità intellettuale non banale, avrebbe incitato i suoi contemporanei: “Lisez Euler, lisez Euler, c’est notre maître a tous!” Quando fu pronunciato, l’elogio di Pierre Simon de Laplace, conte per volontà di Napoleone, contro il quale, più tardi, fu lesto a firmare il decreto di bando, non era di certo necessario a Eulero. Per lui avrebbero parlato le opere, per qualità, soprattutto, e per copiosità. A puri scopi statistici si può ricordare che la raccolta postuma degli scritti di Eulero comprende trenta volumi di matematica pura, trentadue volumi di meccanica e astronomia, dodici volumi di fisica e di astronomia, 2480 lettere, tra cui le famose “Lettere a una principessa tedesca”, che possiamo intendere come uno dei primi, se non il primo libro di divulgazione alta, 4000 pagine di appunti: un totale di 886 lavori scientifici. Laplace è molto lontano, in basso sulla collina, e veramente pochi possono dirsi vicini. E si tratta di opere che non sono divise con co-autori. Eulero pensava e scriveva da sé, spesso attorniato dal rumore del gioco dei figli, quand’erano piccoli.
In quell’inverno del 1727, ormai degradante verso la primavera, le sedici pagine del De Sono, quanto aveva scritto in precedenza e lo stesso accessit dell’accademia parigina non furono sufficienti a Eulero. Andreas Stähelin, in uno scritto del 1957, pubblicato nell’ambito delle celebrazioni per i seicento anni dell’Università di Basel, si premura di far conoscere i dettagli della procedura di quel concorso del 1727. Rileva l’autore che vi era una fase che prevedeva un’estrazione casuale tra i concorrenti, condotta dal personale amministrativo – il giudicante quindi aveva responsabilità solo su chi era indicato dal fato. Eulero non superò quella fase. E di questo, in verità, fecero menzione nelle orazioni funebri che scrissero per Eulero tanti anni dopo anche il, Marchese di Condorcet – Marie Jean Antoine Nicolas de Caritat, nome magnifico per una persona che contribuì non banalmente al dibattito per la definizione del metro e si fece uccidere per ingenuità – e Nicolas Fuss, che fu assistente di Eulero. Superò, invece, l’estrazione casuale e poi vinse la cattedra Benedict Stähelin – non so se sia un caso che ci sia lo stesso cognome dell’estensore della precisazione del 1957. Stähelin era dodici anni più anziano di Eulero, aveva studiato medicina ed era membro di un’influente famiglia di Basilea. Non abbiamo traccia nella fisica né nella matematica di prodotti del suo ingegno. Nel 1750, anno della sua scomparsa, fu sostituito su quella cattedra da Johan Rudolf Stähelin, anch’egli medico di formazione. Non conosco la procedura per la quale Johan Rudolf Stähelin subentrò a Benedict Stähelin – tra il 1764 e il 1792 fu per quattro volte rettore dell’Università di Basilea. Né so se la fase casuale del 1727 sia stata usata come comoda scusa per eliminare un candidato scomodo. Non ho alcun elemento per dirlo, se non il pessimismo. Comunque sia, però, chiunque non si sia prodigato in quel 1727 per assicurare all’Università di Basilea i servigi di Eulero non poteva avere una precisa visione della qualità della sua produttività futura. Forse, però, poteva intuirne le potenzialità e tentare una sorta d’investimento intellettuale. Poteva avere il fiuto di Johannes Bernoulli I che si era prestato a fornire colloqui privati di matematica al giovane Leonhard, allora studente di filosofia a Basilea, che il padre spingeva verso altra carriera. Bernoulli non si era detto disposto a quelle lezioni per bisogno: la famiglia Bernoulli era agiata. Il padre di Johannes, Nicola il Vecchio, era un ricco commerciante, e lo era la sua famiglia per tradizione. Era alleato con le famiglie abbienti di Basilea. I Bernoulli non erano autoctoni: erano originari di Anversa; si erano spostati a Francoforte nel 1583 per allontanarsi dalle questioni ugonotte e poi, da lì, si erano trasferiti a Basilea. Johannes aveva tre figli. Due di essi, Daniel e Nicolas II, si erano trasferiti a San Pietroburgo nel 1725, chiamati tra i primi professori della neonata Accademia delle Scienze che Pietro il Grande aveva istituito con un decreto del 1724, facendo proprio un suggerimento di Leibniz. Lo zar era scomparso l’anno successivo e non aveva visto concretarsi la sua idea. Era stata la vedova, Caterina I, a lui succeduta, a inaugurare nell’agosto del 1725 l’Accademia delle Scienze, uno dei vari fattori che dovevano consolidare per San Pietroburgo il ruolo di “finestra sull’Europa” (definizione che Púškin attribuisce a Pietro il Grande, ricordando le parole un po’ differenti dell’Algarotti), la Palmira del Nord (si veda Lo Gatto, 2011, pagg. 58 e 78, e seguenti). L’Accademia di San Pietroburgo non aveva un retroterra nel sistema educativo russo: per essa all’inizio furono chiamati sedici professori dai paesi europei e otto studenti dagli stati tedeschi. Quando fu offerta ai due figli di Johannes Bernoulli I la cattedra a San Pietroburgo, Nicolas II già insegnava a Berna; per Daniel, cinque anni più giovane del fratello, era la prima nomina, all’età di venticinque anni.
La posizione dei due Bernoulli a San Pietroburgo fu essenziale per Eulero. Alla loro nomina avevano promesso al giovane studente del padre di proporlo per la prima posizione vacante che si sarebbe creata (si veda Calinger, 1995, pag. 125). Nel settembre 1726, in una sua lettera, scritta in nome del presidente dell’Accademia, Lavrentii Blumentrost, di origine tedesca, Daniel Bernoulli offriva a Eulero la posizione di aggiunto alla cattedra di fisiologia che gli era stata assegnata all’inizio, mentre quella di fisica era occupata dal fratello Nicolas II. La scomparsa prematura di quest’ultimo, però, nel 1726, per un attacco di appendicite, aveva fatto andare Daniel sulla cattedra di fisica. Spostati i suoi interessi sulla fisica, Daniel avrebbe dilagato nella fluidodinamica, ambito in cui Eulero avrebbe dato negli anni successivi un contributo essenziale, ricavando le equazioni che descrivono il moto di un fluido che si sviluppi senza dissipare energia e senza un rilevante contributo di eventi a scale spaziali più piccole di quella macroscopica, un fluido che in tali condizioni viene detto perfetto.
Quando la cattedra di fisica a Basilea fu assegnata a Stähelin, il 5 aprile di quel 1727 Eulero accettò la proposta di Daniel Bernoulli. Partì da Basilea con le conoscenze di anatomia e fisiologia che si era costruito nei mesi precedenti su suggerimento di Daniel, dopo aver ricevuto la proposta. Viaggiò sul Reno, poi a piedi, in carrozza postale attraverso gli stati tedeschi, poi in nave da Lubecca. Entrò a San Pietroburgo il 17 maggio, sette settimane dopo la partenza. Aveva ricevuto 130 rubli per il viaggio e lo aspettavano 200 rubli annuali cui Daniel Bernoulli ne aggiunse 100 dai suoi fondi per i viaggi, per giungere a uno stipendio di 300 rubli, vitto, alloggio e illuminazione gratis (si veda ancora Calinger, 1995, pagg. 125-126).
In terra russa, l’Accademia delle Scienze, che inizialmente aveva potuto avere disponibilità della biblioteca di Pietro il Grande, di quella di Alexis, figlio dello zar, e di quelle di alcuni nobili, che era dotata di laboratori, di un’università e un ginnasio, e i cui professori avevano essenzialmente il compito di pubblicare e dare lustro all’istituzione, cominciava ad avere difficoltà derivanti dalla diffidenza della nobiltà russa, non ultimo il primo ministro della zarina, e dall’evoluzione del clima politico generale. Caterina I aveva continuato a vivere a San Pietroburgo, e lo fece fino alla sua scomparsa, qualche giorno dopo la conclusione del viaggio del giovane Eulero. Pietro II, che le succedette dopo due anni, e Anna Iòannovna, che lo sostituì dopo altri tre, trasferirono a Mosca la gestione delle cose, con progressivo disinteresse per le vicende della città, per lo scopo per cui era stata immaginata da Pietro il Grande. La politica della sovrana Anna, che aveva percorso la Nèvskij Prospèkt per raccogliere la corona, fu torbida: quello della Iòannovna fu un periodo cupo. L’atmosfera cambiò a cominciare dalla fine del 1741 quando Elisabetta Petròvna, la figlia di Pietro il Grande, con l’aiuto di pochi amici e del reggimento delle guardie d’onore di stanza nella caserma Preobraženskij, condusse con successo un colpo di stato – non pochi ne ha visti la Russia. “Elisabetta Petròvna, figlia non degenere del sovrano che aveva creato la grandezza della Russia, era donna di gusto, amante dell’eleganza e della cultura europea e nello stesso tempo attaccata alle tradizioni russe più care alle vecchie generazioni. Ad Elisabetta Pietroburgo dovette l’Accademia di Belle Arti, ma Mosca la sua prima università; e fu ancora Elisabetta che diede al primo scienziato russo nel pieno senso della parola, il Lomonòsov, la possibilità e i mezzi materiali per aprire alle scienze del suo paese il cammino auspicato dal grande sovrano scomparso” (Lo Gatto, 2011, pag. 85).
Le conseguenze sull’Accademia delle Scienze delle turbolenze seguite alla scomparsa di Pietro il Grande fecero sì che, giunto a San Pietroburgo, Eulero si trovasse aggiunto alla cattedra di matematica, per l’apparente intercessione di Daniel Bernoulli e del collega Jakob Hermann, secondo cugino della madre di Eulero. Fu una circostanza gestita in maniera oculata, se si tiene conto delle personali inclinazioni culturali del giovane Leonhard. Nel 1730 Hermann lasciò San Pietroburgo per accettare la cattedra di etica all’Università di Basel. Daniel Bernoulli gli succedette sulla cattedra di matematica, così Eulero, nel 1731, fu nominato professore di fisica, all’età di ventitré anni, posizione che accettò, rifiutando di proseguire la carriera nella marina russa per la quale aveva lavorato nei primi anni della sua permanenza a San Pietroburgo, per arrotondare il suo stipendio. Nel 1733 anche Daniel Bernoulli lasciò la Russia per Basel, dove lo attendeva una cattedra di botanica e anatomia. Calinger (1995) ricorda che a spingere Daniel contribuì la stanchezza generata dall’ostilità del nuovo presidente dell’Accademia, Johann Schumacher, con il quale ebbe a discutere in vario modo per questioni di salario perfino Eulero, uomo particolarmente tranquillo e dal carattere affabile, e dall’ostilità generale per i tedeschi. Eulero subentrò a Daniel Bernoulli: nel 1733 era primo matematico dell’accademia pietroburghese. Era la posizione più appropriata per le sue propensioni culturali: Eulero era un matematico puro ma anche un fisico-matematico. Da un lato, infatti, i suoi studi lo portarono a sviluppare capitoli della matematica per se stessa (in un certo qual modo si può dire in quanto linguaggio), dall’altro proponeva modelli matematici di fenomeni fisici e determinava soluzioni di problemi particolari a essi associati. È proprio l’aspetto del proporre modelli, con le successive analisi ancillari, che caratterizza un fisico matematico – la sola analisi di problemi particolari di modelli di altri è insufficiente a una caratterizzazione piena, come è noto – ed è proprio quell’aspetto quello più difficile da incontrare.
L’anno dopo l’assegnazione della cattedra di matematica, Eulero sposò Catarina Gsell, figlia di un pittore svizzero, anch’egli emigrato a San Pietroburgo, e comprò una casa lungo la Neva. Cominciava una carriera piena di splendore intellettuale e materiale (fu abilissimo contrattatore di stipendi). La Svizzera aveva perso il miglior talento matematico della sua storia, uno dei costruttori sostanziali della cultura moderna. Lo aveva perso per sempre. Di là di questa porzione, il resto della vita di Eulero è materia trattata da biografie approfondite. Ciò che qui ho ricordato serviva solo da esempio che avesse fine differente da quello di Abel.
Che cosa potrebbe essere quindi utile per chi si voglia addentrare nelle lande della ricerca? Non c’è una ricetta. Bisogna vivere. Incominciare un percorso e affrontarlo con dignità. E questa parola, dignità, la prenda il lettore così com’è, per la suggestione che la sua personale precomprensione lo porta ad avere, perché non cercherò di dilungarmi in sforzi vagamente definitori. E la prenda come valore assoluto, senza alcuna storicizzazione, senza interesse relativo, momentaneo, politico. Null’altro.
Riferimenti bibliografici
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- Calinger R., Leonhard Euler: The first St. Petersburg years (1727-1741), Historia Mathematica, 23, 1995, 121-166.
[in “Prometeo”, a. 31, n. 124, dicembre 2013, pp. 82-93]