Ma è forse il momento di chiederci, prima di affacciarci sull’incantata selva dei versi d’amore, quali altre ragioni – al di là delle medievali impalcature teologiche – presiedano al nesso tra poesia d’amore e presenza cosmologica. Alla domanda si può solo replicare con una piccola sequenza di ipotesi. La tensione, anzitutto, comune sia alla lingua della poesia sia all’esperienza dell’amore, verso una temporalità che riconoscendo il limite della finitudine si sporga sul suo oltre, e possa opporre al tempo della caducità il tempo stellare (“le stelle non cadranno”, dirà Werther nell’ultima lettera d’addio a Lotte). Poi, il senso destinale, di irripetibile ed esposta singolarità, di assoluta fragilità attribuito all’esperienza d’amore, che per questo cerca nella decifrazione dello Zodiaco, nella contemplazione stellare, in quella che i romantici diranno eternità delle stelle, una rassicurazione, una protezione. Ancora: il desiderio, o piuttosto il sogno, di sottrarre il corpo d’amore al suo declino, trasponendolo in un corpo glorioso, di cui il corpo celeste, l’astro, è figura luminosa e visibile. O ancora: il legame profondo che la poesia e l’amore avvertono nei confronti di ciò che è vivente, della sua pulsazione, del suo respiro, e dunque nei confronti delle forme, di tutte le forme, visibili e invisibili, che il vivente assume. Infine, l’elevazione come pulsione propria alla poesia e all’amore, e dunque la verticalità, la dislocazione in un punto di lontananza estrema da cui poter osservare il mondo, il dolore del mondo : trasognata alterità di cui le stelle sono come le custodi, altro mondo che sorveglia la parola del tragico. “La Poésie – dirà il giovane Baudelaire -est ce qu’il a de plus réel, c’est ce qui n’est complètement vrai que dans un autre monde“.
Più che un regesto delle occorrenze, ché sarebbe incontenibile nel tempo di una lezione, proporrò solo qualche prelievo intorno a figure della poesia amorosa di esplicito riferimento cosmologico, come la luce degli occhi, la metafora del sole, la presenza lunare, l’elemento stellare. Dando per presupposti alcuni luoghi classici. Tra questi, il riflesso dell’antica sapienziale animazione del cielo -i corpi celesti come esseri viventi (“Oh tu che guidi il coro / delle stelle spiranti fuoco”, sono versi rivolti nell’ Antigone a Dioniso) – , credenza che dai pitagorici giunge fino a Platone e riaffiora, con altro segno, in Origene; le storie di trasmutazioni e metamorfosi celestiali (un esempio è La Chioma di Berenice nel suo cammino di traduzioni e riprese e variazioni, da Callimaco a Catullo a Foscolo); e ancora, la duplice attitudine che trascorre in una rappresentazione poetica della natura, in una prosodia della natura, quella, diciamo, lucreziana, rivolta, con immaginosa e calda tensione conoscitiva, alla fisica terrestre e celeste, e quella creaturale, che a partire dal Cantico delle Creaturedi Francesco d’Assisi convoca il visibile nel cerchio di una dialogante e fraterna prossimità; infine l’importanza, per la poesia del Cinquecento del neoplatonismo rinascimentale, che ha un punto irradiante nell’esegesi del Simposio compiuta da Ficino nel suo Comento, dove è descritta una topica dell’innamoramento all’ombra delle congiunzioni degli astri e dei cieli, ma è anche indicata l’incolmabilità del desiderio (colui che ama “non desidera questo corpo o quello: ma desidera lo splendore della maestà superna, refulgente ne’ corpi”), oltre che la spossessione, la perdita di sé, la trasvalutazione mistica della condizione amorosa: motivi, questi, ben presenti poi in Buonarroti, Gaspara Stampa, Louise Labé, e in molti petrarchisti.
Rileggiamo ora, nella Vulgata, il versetto intero del Cantico dei Cantici da cui hanno preso avvio queste considerazioni: “Quae est ista quae progreditur quasi aurora consurgens / Pulchra ut luna, electa ut sol, / Terribilis ut castrorum acies ordinata?”. Le rifrangenze nella poesia d’amore non riguardano solo i modi dell’apparire e le forme retoriche (si pensi a Cavalcanti: “Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira\ e fa tremar di claritate l’âre”), quelle rifrangenze riguardano anche il permanere del terribilis nella poesia d’amore, dove si mostrerà come sorgente di uno spaurimento: da Dante (“E de’ suoi razzi sopra il meo cor piove / tanta paura che mi fa tremare”) a Leopardi, il quale vedrà nel turbamento d’ amore la traccia dell’antico epipléttein , così come da Saffo a Petrarca s’era manifestato, e la sua appartenenza all’esperienza del sublime. E avrà un suo riverbero, quel terribilis, fin nella baudelairiana passante, i cui occhi lampeggeranno, nell’anonimia della folla metropolitana, come un “ciel livide où germe l’ouragan”. Gli occhi della passante sono già nel cuore della modernità, ma in essi c’è ancora, potremmo dire, il riflesso di una luce trobadorica e romanza, come in altri occhi delle Fleurs du mal riappare il dantesco rapporto tra luce e pietra preziosa, o si specchia l’intero spettro cromatico del cielo. Ma si tratta di una luce che, fin da Hymne à la beauté , mostra nel fulgore l’ombra, nell’azzurro l’abisso: “Tu contiens dans ton oeil le couchant e l’aurore […] / Sors tu du gouffre noir ou descend-tu des astres? “ (“Il tramonto e l’aurora sono dentro i tuoi occhi[…] / Sorgi dal nero abisso o discendi dagli astri?”). Più oltre la rima di astres con desastres annuncia quella compresenza di cielo e inferno, di vertigine e abiezione, di elevazione e caduta che è ritmo stesso di una poetica. Ecco, già disegnata da Baudelaire, la dicotomia astres-desastres: in essa si situeranno sia le moderne estreme rivisitazioni del sublime – l’ alphabet des astres di Mallarmé – sia le forme di un’ écriture du desastrecome quelle che descriverà Blanchot.
Torniamo a Dante e alla luce degli occhi. “Lucevan gli occhi suoi più che la Stella”. Così è annunciata Beatrice, per bocca di Virgilio, sulla soglia dell’Inferno. Quella luce degli occhi lampeggia per tutta la Commedia e ha nelle Rime, fin nelle regioni del più insistito trobar clus e petroso, variazioni che legano l’abbaglio della luce alla ferita d’amore, lo splendore al tremore. Il fondamento di queste variazioni sta forse nei versi “Amor che movi tua vertù dal cielo / Come ‘l sol lo splendore”. Gli “occhi rilucenti” si manifestano anche come “dolce riso”, luce degli occhi e riso comportando spesso un’identica figurazione: “Ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso” (Par., XV, 34-36). Ma già nel canto X, verso 62, Dante aveva esposto, in lampeggiante abbreviazione, il legame tra la luce e il riso: ”Che lo splendor degli occhi suoi ridenti”. Quegli occhi suoi ridentiriaffioreranno nella Silvia leopardiana ma accompagnati dall’ombra del fuggitivi (“Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”), splendente hapax della poesia italiana, bellissimo verso che porta la luce degli occhi in un nuovo paesaggio interiore e si rifrange poi in altri poeti non solo italiani. Più che la dantesca relazione tra luce e riso prevarrà nella poesia moderna il rispecchiamento del cielo negli occhi, fino al Baudelaire i cui cieli possono essere profondi, rosati, bizzarri, abbaglianti, imbronciati, oscuri, accigliati, brumosi, tumultuosi, grevi, solenni, riflessivi, liturgici, bassi, colmi di assopita tristezza. E fino al Mallarmé di Soupir , che vedrà riflesso negli occhi di lei un cielo errante: “Le ciel errant de ton oeil angélique”. Ma forse su questo tema del cielo riflesso la più forte intensità insieme tragica e lirica era già data dai versi di Tasso riferiti a Clorinda morente e messi meravigliosamente in musica da Monteverdi: “e gli occhi al cielo affida, e in lei converso /Sembra per la pietate il cielo e ‘l sole”.
*
Il sole. Anche nel Cantico delle creature la laude di frate Sole non è disgiunta dalla bellezza e dal suo fondamento: “Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore : /de Te, Altissimo, porta significazione”. Nella poesia araba d’amore alcuni versi di Ibn Rûmî definiscono bene la forza della metafora. Li leggo nella traduzione francese di un poeta arabo, Adonis : “Elle est le soleil qui distribue sa lumière /Aux soleils, lunes et astres ». Nella nostra poesia, è nel Canzoniere di Petrarca che la metafora del sole, attenuando la radice teologica, ma non abolendola del tutto, è abbondantemente adoperata per definire le forme dell’apparire di lei sia nell’incontro sia nella rammemorazione. E’ dal sole che il corpo di Laura prende i suoi “figuranti”, per usare l’espressione di Giovanni Pozzi, cioè l’oro dei capelli, la luce del viso, lo splendore degli occhi, la luminosità della veste e del paesaggio stesso che è intorno: alla comparazione (“costei, ch’è tra le donne un sole”, “più bella assai che ‘l sole”) succede l’identificazione (“’l mio sol”, “‘Occhi miei, oscurato è ‘l nostro sole”, “Quel sol che agli occhi miei resplende”, “e il sol che il cor m’arde”). Il sole sarà, nel Comento di Ficino al Simposio, elemento che permette di unire cosmologia e fisiologia, l’una fornendo all’altra il modello d’un funzionamento: “E come il Sole, che è cuore del mondo, per il suo corso spande il lume, e per il lume le sue virtù diffonde in terra : così il cuore del corpo nostro per un suo perpetuo movimento, agitando il sangue a sé propinquo, da quello spande gli spiriti in tutto il corpo: e per quelli diffonde le scintille de’ raggi in tutti i membri, massime per gli occhi”. Dopo Petrarca, il sole abiterà con insistenza i versi d’amore dei petrarchisti -non solo di lingua italiana- e avrà i suoi riverberi fin nel primo Mallarmé intento a impreziosire e quasi raggelare nell’eleganza dell’artificio il dettato della tradizione lirica : “Le soleil, sur le sable, o luttueuse endormie, /En l’or de tes cheveux chauffe un bain langoureux”. Sono alcuni alessandrini di Tristesse de l’été che così tradussi anni fa: “Il sole, sulla sabbia, o dormiente guerriera, / languido bagno scalda nella tua chioma d’oro”. Esercizio, questo mallarmeano, i cui modi formali sono già ben lontani dalle tonalità del sentire baudelairiano come appare nei versi dei Tableaux parisiens dedicati alla “blanche maison” dell’infanzia. …
e il sole immenso e fulgido che a sera,
infranta alla vetrata la raggiera,
guardava, grande celeste occhio, intento,
i nostri pranzi silenziosi e lenti,
spandendo i suoi riflessi come un cero
sulla tovaglia e le tende di telo.
(Les Fleurs du mal, XCIX).
Qui il sole, “ruisselant et superbe”, infrangendosi sulla vetrata, come un grande occhio curioso, osserva, e in certo senso protegge, l’intimità della scena domestica raccolta intorno al tavolo della cena. Il cuore di quell’intimità, anzi il pensiero di quell’intimità, secondo le belle pagine dedicate sia da Bonnefoy sia da Starobinski a quel poème, è l’amore per il padre, il quale morì quando Charles aveva sei anni : quell’amore, sopravvivendo alla scomparsa del padre, cerca nella figura del sole che è “derrière la vitre” una nuova presenza, insieme calda e lontanissima, protettiva e perduta.
Tornando alle figurazioni cosmologiche della poesia d’amore, se il biblico “electa ut sol” ha numerosissime declinazioni nei petrarchisti, è dopo Tasso che il “pulchra ut luna”, e dunque la bellezza lunare, prende campo. Certo, potremmo dire che già in Dante il riso di Beatrice ha su di sé anche il riflesso della luna, della virgiliana Trivia (“Quale ne’ pleniluni sereni / Trivia ride tra le ninfe etterne”, Par. XXIII), ma è con Tasso che nella nostra poesia il paragone con la luce lunare dà rilievo alla bellezza femminile : “Cinzia giamai sotto il notturno velo / non si mostrò così lucente e pura”. Tuttavia ogni pur attento regesto di frammenti poetici, ogni pur solerte antologia di lunari metafore amorose appare esteriore e superflua dinanzi all’energia meditativa e insieme poetica con la quale la luna e la luce lunare appaiono nei versi di Leopardi. La luna è in quei versi, di volta in volta, sfinge o confidente, sorgente di un interrogare che sospinge il pensiero fin sulla soglia dell’impensato, e del nulla, oppure è presenza che, velando e rivelando le cose, facendo dialogare la luce con l’ombra, dischiude il teatro dell’interiorità, sul cui palco tornano, dall’oblio, e in virtù della ricordanza, le immagini antiche. E allo stesso tempo, la presenza lunare acuisce la percezione della transitorietà, del passaggio, del movimento di nascita e declino, e suggerisce il confronto tra la singolarità esposta e fragile del vivente e il ritmo dell’universo, tra la finitudine, il suo respiro, e l’infinito, la sua impossibile raffigurazione. Leopardi assume il pulchra ut luna come reciprocità tra il lunare e il femminile, tra la bellezza lunare e la bellezza femminile. Forse mai come con Leopardi la poesia ha reinterpretato e reinventato con così pensosa grazia l’arcaico e mitologico femminile della luna, quel femminle che Hölderlin volle conservare sostituendo a der Mond il latino Luna, die heilege Luna. Gli attributi che corteggiano la luna leopardiana seguono procedimenti metonimici, relazioni analogiche, elencazioni di proprietà e di atteggiamenti, fino a raggiungere la trasvalutazione del femminile nella divinità, insomma in una vera e propria teofania. Certo, alcuni attributi lunari –“vergine”, “intatta” “candida”- rimbalzano dal Cantico dei cantici (“Et macula non est in te”), ma per molti altri attributi si deve riconoscere il deciso abbandono dei canoni iconici e dei figuranti della tradizione, a vantaggio di una vera e propria rappresentazione del vivente lunare come personaggio la cui presenza è cifra e sigillo di una poetica. Una poetica che porta la finitudine fin sulla soglia dell’enigma, l’esplorazione del visibile fin sull’orlo dell’invisibile. Di là dagli attributi diretti come “candida luna” e da quelli metonimici come “immutato raggio”, “verecondo raggio”, “vezzoso raggio”, si possono disporre le connotazioni lunari in ordini diversi, come la luce(“aurea”, “bianco tuo lume”, ecc.) oppure il silenzio (“tacita”, “muta”, “silenziosa”), il movimento (“cadente”, “peregrina”, “fuggente luce”) e la sua negazione (“queta”, “placida”), la relazione affettiva (“pensosa”, “graziosa”) , l’ atteggiamento (“nebuloso e tremulo”), il carattere divino ( “giovinetta immortal” , “eterna”, “ma tu mortal non sei”, ecc.).
Appartiene al mese d’ottobre del ’23 la meditazione leopardiana, nello Zibaldone, intorno al sublime nella poesia d’amore, in margine ai versi di Petrarca e di Saffo (Saffo citata apud Longinum) , e allo stesso periodo appartiene la stesura del canto Alla sua donna . L’oggetto del desiderio qui non solo è lontanissimo, ma si ritira nel silenzio dell’inconoscibile, in un oltretempo che se ha un ritmo ha il ritmo delle stelle. In un’annotazione sulla sua canzone il poeta dice: “L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola mostra di non amare che questa) sia mai nata finora, e debba mai nascere : sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei: la cerca nelle idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle” . Leggiamo alcuni versi:
Se dell’eterne idee
L’una sei tu, cui di sensibil forma
Sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
Provar gli affanni di funerea vita;
O s’altra terra ne’ superni giri
Fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
E più vaga del Sol prossima stella
T’irraggia, e più benigno etere spiri,
Di qua dove son gli anni infausti e brevi,
Questo d’ignoto amante inno ricevi.
L’antico amor de lonh è trasmutato in una pura “imago”, in un’ “alta specie”. La sua donna è l’assolutamnente altro, l’introvabile, il non situabile, il non transitabile. E tuttavia questa infigurabile figura apre egualmente la ferita del desiderio e il tremito del turbamento: “di te pensando, / A palpitar mi sveglio” . L’orizzonte cosmologico -che fin dall’adolescenza Leopardi ha istituito come spazio sconfinato del suo interrogare, e che dal Pensiero dominante ad Aspasia sarà presenza assidua nella meditazione poetica sull’amore- qui accoglie un amore privo di destinazione e di corpo e di visibilità e tuttavia sorgente di affanno. Un sublime dell’assenza si iscrive in una cosmologia abissale. La poesia d’amore cerca in un altrove privo di figura il suo inveramento, e tenta di fare dell’impossibile un’esperienza, dell’oltretempo un ritmo. Come accadrà alla passante di Baudelaire, la cui apparizione dischiude un altro tempo e un altro spazio dove il non vissuto amore è più forte di ogni amore vissuto:
Un éclair…puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?
Un lampo… poi la notte! Bellezza fuggitiva,
che con un solo sguardo la vita m’hai ridato,
non ti vedrò più dunque che nell’eterna riva?
Ma Baudelaire ha raffigurato della lontananza non solo l’infigurabile tempo, ma anche il tepore e la dolcezza di un altrove, di un“là- bas”, che, con il ventaglio delle sue fascinazioni e dei suoi richiami, abita il tempo presente. Quanto, poi, alla luna, intesa come prossimità del lontano, il poeta le ha dedicato due poèmes delle Fleurs, Tristesse de la lune e La lune offensée , che in questa sede andrebbero evocati proprio in analogia alla leopardiana raffigurazione della luna come una donna. Leggiamo del primo poème solo la prima quartina:
Ce soir, la lune rêve avec plus de paresse ;
Ainsi qu’une beauté, sur de nombreux coussins,
Qui d’une main distraite et légère caresse
Avant de s’endormir les contours de ses seins.
Più pigra sogna la luna stasera,
Come bellezza, su molli cuscini,
che accarezza distratta e leggera
Prima del sonno, le curve dei seni.
La luna pigra e sognante si fa parodica allegoria. Il poeta raccoglierà nella mano e custodirà nel cuore “la larme pâle”, cioè il pallore di una luce che è come lacrima lunare. L’ immagine, levigata e preziosa, è il saluto estremo di un poeta lunare, il quale sa che la poesia non può nascere, ormai, se non dal silenzio lunare, deve cioè portarsi oltre la fascinazione della bellezza, oltre la grazia. Come accade nell’altro poème dedicato alla luna, dove la “vieille Cynthia” mostra al poeta, erede dell’artificioso idillio, l’immagine decrepita della madre che dinanzi allo specchio si imbelletta con i trucchi il seno: “Et plâtre artistement le sein qui t’a nourri” (“E si restaura il seno da cui succhiasti il latte”). E’ deflagrato l’idillio lunare : qui il rapporto tra poesia e declino della bellezza, che John Keats aveva con schietta trepidazione pronunciato, trova le vie della parodia e del “desastre”, evocando uno dei Caprichos di Goya. Di questa rovina dell’elegia lunare un poeta come Zanzotto saprà modulare, scavando nella lingua, aridità e fulgore, limina e lumina, vertigine e inerte pallore.
Dell’elemento stellare, qui a conclusione di un excursus, basterà ricordare come esso trascorra in tutta la poesia d’amore, in ogni lingua e in ogni epoca : poiché ouranós asteroeis , il cielo stellante, nel mito si unisce a Gea, e dal congiungimento nasce Mnemosyne, la madre delle Muse. L’origine, dunque, la stellata origine, sorveglia la lingua della poesia, e la lingua dell’amore, essendo eros e poiesis, stando al Socrate del Simposio, equivalenti. Le stelle sorvegliano il ricordo d’amore. E lucevan le stelle : l’attacco dell’aria di Cavaradossi nel terzo atto della Tosca di Puccini suggerisce al Barthes dei Fragments d’un discours amoureux il titolo sotto cui raccogliere le annotazioni relative al ricordo d’amore, ricordo dolceamaro perché ha il segno di quel che non può più tornare. Del resto le leopardiane “vaghe stelle dell’Orsa” proprio questa pena dell’irreversibile evocavano col loro apparire, ma portavano anche la quieta dolcezza di un rammemorare che trovava nel verso, nella musica del verso, la sua sola consolazione. Cosmografie: come quelle, frequenti, della della Dickinson, o come quella di Pascoli , in cui la terra corre nel cosmo ed esala il suo alito azzurro in mezzo a tumultuanti costellazioni. Cosmografie che tentano di opporre alla transitorietà del tutto quel sogno, o quell’azzardo, di atemporalità, di sfida al declino, proprio dell’esperienza dell’amore. La stella è, nel tumulto dell’esistenza, e nella fragilità dell’amore, e della stessa lingua poetica, presenza protettiva : e può essere la “pâle étoile”, verso cui corre, nelle Fleurs du mal, la vela del poeta (La Musique), oppure la stella errante, sauvage, pensive, che Pierre Jean Jouve dice essere il suo astre intérieur. Può essere in René Char la costellazione di Orione, pigmenté d’infini, o può essere in Rafael Alberti la stella amorosa, l’ “alta Altair”, asible, musical, vibradora. Può essere in Mario Luzi l’aprirsi de “l’innumerabile fiorita /da semi / e gemme / perse tra spazio e tempo” (in Frasi e incisi di un canto naturale) o lo sbocciare di stelle “all’orlo in luce dell’estremo niente” nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Il sogno di una conoscenza sospinta sin sulla soglia dell’invisibile, e dell’enigma, sospinta fin oltre la morte, trascorre nella poesia. “Forse s’avess’ io l’ale / Da volar su le nubi / E noverar le stelle ad una ad una…”, esclama il pastore errante nel Canto notturno. E per Rilke le stelle stanno oltre il tempo del dicibile, oltre il tempo stesso degli Angeli, come leggiamo nella settima delle Elegie duinesi : “O einst tot sein und sie wissen unendlich, / alle die Sterne: denn wie, wie, wie sie vergessen! “ (Oh! Esser morti una volta, e conoscerle all’infinito, / le stelle, tutte : e allora come come come dimenticarle!”). Sarà forse per questa tensione verso una conoscenza altra che spesso le grandi opere poesia sanciscono il loro congedo con un’apertura cosmologica. La Commedia di Dante raccoglie il viaggio mirabile nel regno “che solo amore e luce ha per confine” con l’ultimo verso “L’amor che move il sole e l’altre stelle”. Petrarca sigilla il Canzoniere con la preghiera che comincia “Vergine bella, che di sol vestita, / coronata di stelle”. E la cosmografia del Tramonto della luna conclude il cammino poetico leopardiano. Ed è stato proprio Leopardi, a mostrare con il “giardino della sofferenza” la fine di ogni idillio, a mostrare, dunque, il tragico nel cuore della modernità, annunciando così quel rovesciamento dell’incantata cosmografia d’amore che avrà la sua più cupa manifestazione nel tragico del Novecento. In quel tragico che un poeta come Celan raccoglierà nel verso teso, frantumato, dolente: in Todesfuge , dove il dolore della Schoà è portato enlla poesia, i capelli d’oro di Margarete saranno accanto ai capelli di cenere di Sulamith, la sposa del Cantico dei Cantici, con la cui lode abbiamo cominciato questa lezione. La luce si rovescia in cenere. Tutte le stelle sono spente. Ma anche nel cielo delle stelle spente la poesia d’amore cercherà, ancora, le sue costellazioni: alterità estrema, lontanissimo bagliore, forse fioco, ma necessario.
[Siena, Lectio magistralis, 10 novembre 2009]