di Antonio Prete
Dans le
coeur elle demeure et elle est aussi loin que les Pléiades.
Ibn Rûmî
(nella trad. francese di Houria Abdelouaed e Adonis).
Je t’adore à
l’égal de la voûte nocturne
Baudelaire
Les Fleurs du mal, XXV
Una ghirlanda di similitudini incorona la sposa fanciulla nel Cantico dei Cantici : per ogni parte del corpo lo sposo e il coro evocano figure di leggiadria animale, di mirabile architettura, di campestre fragranza. Ma nella sequenza dell’elogio è allo sposo che spetta il balzo verso paragoni celesti: Pulchra ut luna, electa ut sol. Bella come la luna, fulgida come il sole. Se lungo i secoli l’animatissima esegesi del Cantico dispiegherà via via la sostanza allegorica, la poesia accoglierà e protrarrà la vita delle immagini, di quelle immagini che a loro volta erano giunte al Cantico da fonti di poesia orientale.
L’astro della notte e l’astro del giorno, la luce lunare e la luce solare, offriranno alla poesia d’amore un iridescente ventaglio di possibili raffigurazioni: dall’aspetto corporeo alla definizione del carattere, e più oltre, alla ricerca del fondamento stesso della bellezza. L’abbaglio del luminoso, dell’aureo, del biondo, oppure l’attenzione all’ombroso, al velato, al nascondimento suggeriranno di volta in volta forme e colori e gesti per la rappresentazione dell’amata o dell’amato. L’orizzonte di teoresi che presiede all’uno e all’altro registro è la medievale annessione della bellezza all’ordine della luce. Il pulchrum , nella Summa Theologiae di Tommaso, è lo splendor formae della divinità: epifania e visibilità luminosa del principio. E’ questo splendor formae che motiva teologicamente, nella trattatistica d’amore, la centralità della luce. A una metafisica della luce corrisponde una fisica corporea della luce, a una teologia del raggio divino una fisiologia del raggio che muove dagli occhi. Conciliare teologia e fisiologia è il compito delle poetiche medievali. Nella poesia trobadorica e nel Dolce Stile il legame del corpo con il cosmo e l’intreccio tra lume degli occhi e lume celeste giunge, dunque, dal sapere scolastico -e averroistico- sull’amore, dagli ensenhamens provenzali, dalle summae, dai repertori, dai bestiari. I poeti, dice Contini, assimilano questo sapere “a fini di euristica e linguistica immaginativa”. Non solo, dovremmo aggiungere. Quel sapere cosmico-teologico risponde a una tensione propria sia dell’amore sia della poesia: trovare al desiderio un orizzonte che lo metta al riparo dal transitorio e dall’effimero, fare affiorare nella lingua il suo rapporto con il silenzio, con l’oltrelingua, con quel ritmo che ha nel movimento dei cieli e delle stelle il suo supremo inattingibile principio. E’ quel che Dante ha mirabilmente mostrato con la Commedia, che davvero possiamo definire, ricorrendo a un verso di Paul Celan, parola sorvolata da stelle, “das sternüberflogene Wort””. Del resto, il sigillo di ogni cantica è la parola stelle. Vertigine, certo, della lontananza. Ma anche invocazione di una protezione celeste nei confronti della lingua, nei confronti del “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra”. E l’amore della lingua in Dante è cerchio che accoglie e fa prezioso ogni altro amore.