di Guglielmo Forges Davanzati
Già agli inizi del Novecento, uno dei massimi economisti italiani di quel periodo – Francesco Saverio Nitti – aveva avvertito che l’istituzione delle Regioni avrebbe comportato costi difficilmente sostenibili per le finanze pubbliche italiane senza effetti apprezzabili sulla crescita né delle aree più ricche né delle aree più povere del Paese. A distanza di oltre un secolo, considerando il fatto che la loro istituzione – come documentato da molti studi – ha contribuito all’esplosione del debito pubblico italiano, appare difficile dargli torto. E ciò nonostante le spinte autonomistiche, in Italia, non solo non si sono ridotte, ma hanno subìto una notevole accelerazione negli ultimi anni.
La motivazione è sempre la stessa: maggiore autonomia comporta scelte politiche più efficaci a ragione del fatto che vengono realizzate su una scala più prossima alla collettività di riferimento. In altri termini, si ritiene che il decisore politico locale conosca meglio di quello nazionale i problemi delle aree che governa, ne interpreta meglio le necessità e, per conseguenza, effettua scelte di allocazione di fondi pubblici con maggiori informazioni.
Negli anni più recenti, la convinzione che un assetto federale in Italia sia quello che maggiormente risponda alle esigenze dei territori si è rafforzata, in modo trasversale fra partiti politici, a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione realizzata nel 2001. Si ribaltò, in quella sede, il principio costituzionale in base al quale le competenze non espressamente attribuite agli enti locali dovessero rimanere competenze dello Stato. Si stabilì, invece, il principio opposto: ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato doveva spettare alle Regioni e non più allo Stato.