Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XVI

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Non scrivo romanzi. Infatti, non mi sono mai messo a tavolino con l’intento di progettare una trama, ideare dei personaggi e uno sviluppo narrativo; non ho mai cercato di costruire una fiction sulla quale lavorare per scrivere un grosso tomo! Rifiuto tutta quella letteratura che riempie le sale delle librerie e dura meno di due mesi. Si tratta di una letteratura asservita, nel senso che lo scrittore deve, per contratto, impegnarsi ad escogitare un plot narrativo più o meno persuasivo, al fine di interessare il lettore alla sua storia e fargli comprare il libro. L’editore chiede una fiction, il lettore altrettanto, lo scrittore si piega a questa richiesta se vuole stare sul mercato, almeno per il breve tempo che gli si concederà in libreria. Rifiutando questo meccanismo, non devo assolutamente impegnarmi alla ricerca d’un plot narrativo, ma solo ed esclusivamente scrivere, naturalmente scrivere, come se stessi compiendo un qualsiasi altro atto vitale: respirare, bere, mangiare… Scrivo quando mi è dato di scrivere, quanto la vita mi suggerisce di scrivere, senza alcuna forzatura. Non escludo che la scrittura possa portarmi, come spesso è accaduto, a inventare delle storie; ma lascio che l’invenzione nasca dalla vita reale, dal vissuto, come garanzia che in essa non vi sia nulla di gratuito e di mendace. Questo è quello che voglio dire quando dico che non scrivo romanzi.

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La poesia e la prosa devono quadrare. Scrive Cees Nooteboom, Le geometrie esistenziali della vera poesia ne “La Repubblica” del 10 settembre 2016, pp. 50-51: “Non solo scrivere poesia, ma anche leggere poesia è una specializzazione governata stranamente da un’unica legge, quella dell’autenticità e della logica interna. Una poesia deve “quadrare”, non posso dirlo altrimenti, ma i criteri perché lo faccia sono, nello scrivere come nel leggere, personali. Qui non c’è nulla da dimostrare, ma molto da argomentare, per quanto alla fine sia una questione di istinto e di esperienza”. Quanto afferma Nooteboom della poesia si può predicare anche della prosa; anche la prosa infatti deve “quadrare”. Se una scrittura “non quadra”, allora dobbiamo chiederci se è valsa la pena d’averla letta e se non si sia sprecato il tempo a scriverla.

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La sera, prima di dormire, il mio cane Billie viene a salutarmi. Si avvicina e richiede insistentemente di essere accarezzato e anche ch’io gli parli per un po’, prima di congedarsi da me. Allora, si mette sotto il letto (in estate) oppure ai piedi del letto, su un tappeto (in inverno), e lì dorme. Il suo sguardo è muto, ma io so che egli pensa. E mi piacerebbe raccontare, come già è stato fatto (Cervantes), se solo sapessi farlo, la mia vita di ogni giorno vista dagli occhi del mio cane. Che cosa egli pensa al vedermi uscire di casa la mattina e poi quando mi vede ritornare o quando mi vede leggere sul divano, ecc.? Sarebbe un esercizio di estraniazione, utile a capire meglio la vita.

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Diario. Un consiglio per chi scrive un diario: si limiti a scrivere quanto gli è successo, quanto ha pensato, ecc, ma non dica mai qual che farà, perché le circostanza della vita potrebbero subito smentirlo.

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Il mondo interiore. Scrive Robert Musil, L’uomo senza qualità II, Einaudi, Torino …, p. 1359: “È una particolarità non trascurabile della civiltà europea che vi si proclami a ogni passo che il “mondo interiore” è il dono più bello e più alto della vita nonostante il fatto che questo mondo interiore è sempre trattato soltanto come un’appendice esteriore.”

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Auspicare e incoraggiare una lenta mutazione antropologica, un cambiamento dell’essere umano, pensare che, un giorno lontanissimo, alla logica del rapporto predatore-preda possa sostituirsi la logica della pacifica convivenza tra gli uomini, credo che sia il presupposto di ogni pensiero critico e la ragione fondamentale che motiva e rende proficuo lo studio degli antichi. Il potere presente non ama il passato, non vuole che lo si conosca per quello che è stato; semmai lo utilizza, lo strumentalizza, lo piega ai suoi fini celebrativi, ma non gli importa di conoscerlo veramente. Questa ignoranza è il presupposto ideologico di una credenza che il potere ama diffondere nel mondo, poiché gli torna molto utile: che questo in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili e che non ci siano altri modi di vita. Laddove manca ogni elemento di confronto, infatti, come può essere immaginato un mondo diverso?

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La memoria. Scrive Peter Sloterdijk, in Critica della ragion cinica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, p. 213: “Imparare nuovamente a vivere richiede, in realtà, un grande lavoro di memoria. Ma, attenzione! Non di quel genere di memoria che sa solo rimescolare vecchie storie. Il ricordo interiore, il più intimo, conduce non a una “storia”, ma a una “forza”. E toccarla significa conoscere un’onda estatica. Questo ricordo non sfocia nel passato, ma in una traboccante istantaneità presente.”

Quanto afferma Sloterlijk deve renderci accorti sulla valutazione di ogni scritto che tiri in ballo la memoria. Esiste infatti una memoria parassitaria, una memoria che vive a spese del presente e lo soffoca, e una memoria produttiva, una “forza” utile al presente, capace di farci vivere in perfetto accordo col nostro passato e di aprire le porte del futuro, una memoria che cambia la qualità della  nostra vita. Il fine del filosofo, infatti, è sempre un fine pratico: vivere bene.

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Memoria Per strada, davanti alla casa che ho abitato per cinque anni durante la mia infanzia. Stavo riprendendo l’auto parcheggiata lì davanti, ed ecco che vedo la vecchia padrona di casa che mi riconosce e mi saluta. Le dico: – Ogni volta che passo da qui, guardo queste finestre, alle quali tante volte mi sono affacciato quand’ero bambino.

-Ma prego, entra pure, vieni a rivedere questa casa.

– No grazie, non sono così nostalgico – mi sono schermito, e sono andato via.

Un’occasione mancata? Non direi. Dopo quarant’anni, rivedere la vecchia casa, abitata da altre persone, dunque con ambienti ridisegnati da altra mobilia, mi avrebbe dato solo un senso di estraneità. Ho fatto bene a proseguire per la mia strada. Ma il mio sguardo corre ancora a quelle finestre.

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Abluzioni mattutine come forma igienica, ma anche come rituale lustrale: offerta di sé al mondo degli uomini nella forma più pulita (pura), garanzia che saremo accettati e coinvolti nel gran corpo dell’umanità, che ha provveduto, come ho fatto io limitatamente alla mia persona, a smaltire i resti prima di uscire di casa.

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L’ozio studioso. Scrive Marc Fumaroli, Lo Stato culturale, Adelphi, Milano 1993, p. 272: “… alla caverna platonica, alla noia pascaliana, esiste, all’infuori della fede religiosa e filosofica, un unico vero rimedio. Questo rimedio è, ed è sempre stato, minoritario, direi anzi individuale. Sono le discipline dello spirito.” Ad esse bisogna attendere, dice Fumaroli, con “ozio studioso”, unica alternativa “al turismo di massa, a quell’intruglio turistico che è diventata la Cultura”;  e aggiunge: “Ci vuole perseveranza, concentrazione, un lungo apprendistato, e anche, quando il momento è proprio, è necessario un completo abbandono – la grazia.”

Mi chiedo a cosa sia finalizzato questo ascetico esercizio che propone lo scrittore francese e trovo una risposta insoddisfacente e piena di quella che Vico chiamava la boria dei dotti: “Gli apologeti della nozione di terzo Mondo hanno sostenuto che questa disparità è dovuta al fatto che sono i paesi ricchi a estrarre le materie prime dai paesi poveri.  Ma i paesi più poveri, in generale, non hanno materie prime o, se le hanno, possono saperlo e sfruttarle solo grazie a noi. È stata la materia grigia dell’Europa, attraverso un concatenarsi di passioni e di pensieri accumulatisi fin dai tempi della Grecia, a elaborare la morale e il diritto di cui è erede la nostra aristocrazia democratica, e a scoprire la scienza e le tecniche che procurano a questa aristocrazia il suo lusso e agli altri – siamo franchi per una volta – gli avanzi di quel lusso. Questa materia grigia è il nostro oro nero, maturatosi in due millenni e mezzo, e in due secoli trasformato in energia industriale. Senza questo petrolio, chi si occuperebbe del petrolio materiale accumulatosi nel sottosuolo del Medio Oriente, corruzione delle foreste dell’era quaternaria? Chi avrebbe minimamente pensato a scoprirlo, a estrarlo, a trasportarlo e a trasformarlo? I nostri diritti d’autore sono incontestabili.” (pp. 339-340).

Qui il democratico-liberale Fumaroli dimostra la sua natura conservatrice e  reazionaria. È l’ex-colonizzatore europeo che parla per bocca del fine letterato e rivendica i suoi “diritti d’autore”. La difesa del passato letterario, artistico, filosofico va di pari passo con la difesa del diritto degli occidentali di dominare il mondo. Quali scenari apre una simile prospettiva? A che vale lo studio del passato se esso converge verso la giustificazione e la conferma di una logica di dominio? “Siamo franchi per una volta”, certo, ma la franchezza non esclude la possibilità di pensare secondo un’altra logica, una logica che lasci aperta l’idea che le cose potrebbero andare diversamente da come sono andate finora. Utopia? Velleitarismo? Forse le cose andranno sempre nello stesso modo, forse Fumaroli ha ragione, ma se è così, allora lo studio dell’antico serve solo a confermare lo status quo, che consiste in una medaglia a due facce: da una parte l’”ozio studioso” dei pochissimi, dall’altra “l’intruglio turistico che è diventato Cultura” delle masse intruppate. A questo ha portato la logica del dominio: Fumaroli che ha da dire su tutto questo?

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Ristorante affollato, chiassoso, tutti chiacchierano rendendo impossibile una normale conversazione; ma si è costretti dalle convenienze a star lì, seduti, in attesa delle varie portate che arrivano lentamente a causa dello scarso personale in servizio; l’aria comincia a essere viziata e fa caldo. Vorrei andare via, ma non posso farlo: si festeggia non so più quale ricorrenza. Mi guardo intorno e un bel volto attira la mia attenzione. È lì, davanti a me, a cinque metri di distanza, appartiene a una donna che non conosco e che non sa nulla di me, non sa che per me il suo volto, il suo corpo, le sue movenze sono la via di fuga del mio desiderio, la mia temporanea salvezza. Rimango seduto, e per questa sera sono salvo.

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1 risposta a Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XVI

  1. Gamet scrive:

    Bonjour Gianluca !
    Parmi tes réflexions qui retiennent en général mon attention, je m’attarde plus particulièrement sur “L’ozio studioso”.
    Le début de ta citation de Fumaroli m’a d’abord semblé confirmer l’image positive que je gardais de cet auteur. J’ajoute celle-ci extraite de la fin de son livre, qui correspond à l’idée que j’avais de lui, celle d’un intellectuel rigoureux qui distingue la culture authentique d’un simple vernis culturel qui fait illusion en société :
    «Concerts, théâtre, expositions, spectacles, fêtes, visites guidées, n’ont rien en soi que de louable. Mais présentés comme le fin du fin de la «Culture», assortis d’un label officiel qui en fait autant d’actes civiques, ils deviennent, comme la messe du dimanche, des distractions «comme il faut», qui ne répondent à aucune nécessité intérieure et qui divertissent seulement du courage d’être soi-même.»

    A vrai dire, jusqu’à la lecture de ton Zibaldone, je me souvenais surtout qu’en son temps Fumaroli, comme d’autres intellectuels exigeants, avait eu le mérite d’agiter des questions qui me concernaient en tant qu’enseignante. Après 68 et la contestation étudiante, à tous les niveaux, on débattait beaucoup des méthodes et des contenus de l’enseignement. “Du passé faisons table rase”, slogan de l’époque ! Même chez les profs de lettres, il était de bon ton de s’être ennuyé en classe, de n’avoir lu les auteurs anciens que pour réussir les examens. Mais moi qui me nourrissais d’eux avec bonheur, je n’allais pas jeter aux oubliettes Montaigne, Racine, Molière, tout le XVIII et le XIX, Proust etc. etc. sous prétexte que tout cela c’était de la culture “bourgeoise”, que c’était trop difficile à lire, inaccessible aux classes populaires et je ne sais quoi encore ; au contraire, je ne voulais surtout pas refuser à mes élèves une chance de pouvoir y accéder ! Et où l’auraient-ils eue, sinon comme moi grâce à l’école ?

    Je ne rappelle ce contexte que pour expliquer mon préjugé favorable à l’égard de Fumaroli, dont je connaissais la sensibilité littéraire pour avoir suivi ses cours sur le dix-septième siècle français en 1967-68 à la faculté de Lille, et qui par ailleurs ne me semblait pas suspect de snobisme ni d’idolâtrie !

    Mais affirmer avec une telle bonne conscience que l’héritage intellectuel des Anciens explique la puissance industrielle et économique occidentale, et justifie l’exploitation du monde, c’est parfaitement ridicule et odieux.
    Donc, Gianluca, merci d’avoir dénoncé ce que Vico nommait la “boria dei dotti”. Je te cite le sociologue Pierre Bourdieu, qui distingue plusieurs formes de racisme dont le “racisme de l’intelligence”.
    “Tout racisme est un essentialisme et le racisme d’intelligence est la forme de sociodicée caractéristique d’une classe dominante dont le pouvoir repose en partie sur la possession de titres qui, comme les titres scolaires, sont censés être des garanties d’intelligence et qui ont pris la place, dans beaucoup de sociétés, et pour l’accès même aux positions de pouvoir économique, des titres anciens comme les titres de propriété et les titres de noblesse.” (Extraits d’Interventions 1961-2001, Agone, Marseille, 2002, p.177).
    Fumaroli en est un exemple. Tu soulignes l’aspect paradoxal de sa pensée dans ta question finale. Ce sont des pans entiers de la connaissance sur lesquels il a omis de réfléchir. S’il n’était pas si âgé maintenant, il faudrait le renvoyer à ses chères études !!
    Bien amicalement. Annie Gamet

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