Quella calda sera in cui la Luna venne sulla Terra

Prima di quella sera, la Luna era stata raggiunta soltanto nei poemi, nelle fiabe, nei sogni di un bambino.

Fuori dai poemi, dalle fiabe, dai sogni di un bambino, la Luna era stata sempre lì, immobile, silenziosa, sospesa, incantante, meravigliosa. Mitologia, leggenda popolare. Un ciondolo nel blu, come in un dipinto di Magritte, o energia sprigionata da una parola, come in un verso di Leopardi. Una luce che rischiara il cammino, che vela e rivela. Era stata sempre lì. Sola. Stupendamente sola. Figura dell’interrogazione continua che non si aspetta una risposta. Oggetto di poesia in ogni tempo, in ogni lingua. Un’astrazione. Una sineddoche dell’universo. Rappresentazione dell’irrappresentabile. Un ponte gettato fra una realtà e una chimera. Stupore, réverie, malinconia, immagine di un desiderio inappagato, inappagabile. Euforia, a volte, oppure spleen.

Anche quella sera di luglio, la Luna era così, vista da qui: annebbiata da una nuvola di afa. Sembrava un’altra bestia sulle case da aggiungere al bestiario di Vittorio Bodini: al geco, alla tarantola, all’aggressiva cicala, alla civetta, a quella favola che sa di sputi e minacce.

Vista da qui sembrava uniforme, levigata, perfetta. Sospesa nello spazio e nel tempo, nell’immaginazione e nel sogno, orizzonte di una smania antica di conoscenza, enigma che provoca un’implacata ansietà di rivelazione. Era la Luna di sempre, quella di ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo: lontana e presente, ad un tempo solo. Misteriosa e famigliare. Creatura dell’origine che riempie il vuoto dello spazio e del tempo. Oggetto del desiderio di conoscenza e mistero che protegge se stesso da quel desiderio. Era la luna nel pozzo: un’illusione, una fluttuazione della fantasticheria. Un trasognamento.

Eppure quella sera di luglio fu come se la Luna si adagiasse lentamente su una strada del paese rigonfia di voci e attraversata dalla brezza di un suono di fisarmonica. Fu come se all’improvviso si fosse fatta piccola, leggera, possibile da toccare, da accarezzare. Ecco: possibile. L’impossibilità del cielo diventò possibilità.

Quella sera di luglio di cinquant’anni fa, il mutamento radicale di pensiero nei confronti del cielo fu determinato proprio da questa impressione di possibilità della luna. Fino a quella sera ‘andare sulla luna’ era l’espressione con la quale si traduceva il senso di impossibilità, di irrealizzabilità. Con quella espressione si indicava l’assurdo.

Invece da un momento all’altro si comprese che andare sulla luna era una possibilità concessa all’uomo, che l’uomo si era conquistato con la sua scienza, con la sua ostinazione a rendere realizzabile quello che sembrava soltanto l’esito di una visionarietà. Raggiungere la Luna rappresentava quasi una possibilità di placamento della vertigine e dello spaurimento che l’immensità provoca nelle creature che abitano la Terra.

Quella sera la luna diventò una soglia dalla quale esplorare l’infinito, dalla quale scagliare lo sguardo verso l’incognita, l’arcano, quindi una riduzione della lontananza, un avvicinamento all’orizzonte impensato. Raggiungere la Luna significava, in qualche modo, aprire un varco nel confine della conoscenza, dare compimento ad un’avventura estrema e, da lì, dare principio ad un’altra, forse anche più audace, più azzardata.

Il televisore ogni tanto rigava, frusciava, confondendo quel fruscio col frinire dei grilli impazziti.

Però la voce si sentì comunque chiara, la voce alterata dall’emozione di Tito Stagno che gridava: ha toccato, ha toccato. Da Houston, Ruggero Orlano replicò arrabbiato: non ha toccato, Stagno, non ha toccato. Qui risulta che manchino ancora dieci metri. Ma che cosa potevano essere mai dieci metri in un viaggio verso la Luna che era sempre stato ambizione confessata o inconfessata. Che cosa poteva essere mai quella distanza da ridere nei confronti di quella che va dalla Terra alla Luna.

Poi a un certo punto si aprì un portello, spuntò una scaletta.

Un uomo si fermò per qualche istante sulla scaletta come un uomo si ferma mentre sale o scende le scale di casa. Si guardò intorno come si guarda intorno un uomo uscendo da casa.

Poi scese, lentamente. Posò il piede sulla superficie di quella nuova terra. Si vide un’orma enorme, rugosa, profonda. Ballonzolò leggero come fosse un grande orso bianco di peluche.

Fu quella sera, in quell’ora di quella sera, quando vedemmo l’uomo orso bianco di peluche vagolare senza peso nel Mare della Tranquillità, che cambiò il nostro pensiero della Luna, del cielo, dell’universo, dello spazio, del tempo, il nostro concetto di noto e di ignoto, di probabile e improbabile, di straordinario e di meraviglioso, di esplorato e inesplorato, di finito e di infinito. Forse cambiarono anche le nostre fantasie, i nostri sogni. Accadde consapevolmente o inconsapevolmente, ma quel viaggio sulla Luna fu l’impulso a pensare che nessun viaggio fosse più impossibile, che si sarebbe potuto oltrepassare ogni frontiera, lasciarsi richiamare da orizzonti mai immaginati, dall’estremo, dal sempre oltre, dall’altrove, dall’ultraterreno che forse significa eternità.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 7 luglio 2019]

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