Di mestiere faccio il linguista (terza serie) 2. La lingua italiana ha una storia antica

L’unità politica avviò processi importanti: omogeneizzazione amministrativa e militare, nascita d’un giornalismo moderno, partecipazione (sia pure dei soli ceti abbienti) alla vita politica nazionale, creazione di infrastrutture viarie, accumulo e concentrazione di capitali, forme di embrionale industrializzazione. La scuola fu chiamata a un compito straordinario: le maestre e i maestri furono tra i grandi artefici dell’Unità nazionale. Il processo era avviato, decennio dopo decennio le condizioni miglioravano. Con lentezza. Il Fascismo, che riteneva sufficiente l’assolvimento dell’obbligo scolastico elementare dopo soli tre anni, consegnò alla nascente democrazia del secondo dopoguerra una popolazione per il 59.2% di adulti privi di licenza elementare, per il 13% dichiaratamente analfabeti. Il censimento del 1951 testimoniò che soltanto il 10% della popolazione si era spinto oltre la soglia delle elementari: appena il 5.9% possedeva una licenza media inferiore, il 3.3% un diploma superiore, l’1% una laurea. Concomitante il dato relativo all’uso dell’italiano: era lingua abituale per poco più del 10%, usato in alternativa con un dialetto da poco più del 20%, non usato e in larga parte mal capito dal 64% della popolazione, consegnata invece all’uso esclusivo di uno dei dialetti. E all’analfabetismo. E all’impossibilità di partecipare attivamente alla vita sociale. Di fatto, senza diritti. Non stiamo parlando della preistoria, parliamo dell’altro ieri.

Nei primi anni della Repubblica la necessità di sviluppare la scolarità fu sostenuta da intellettuali attenti e appassionati, fu condivisa dal ceto politico (l’Assemblea Costituente sancì l’obbligo scolastico e la sua gratuità per almeno otto anni), dai governi del tempo (che aumentarono considerevolmente la quota di prodotto interno destinato all’istruzione) e dalla popolazione: contadini e operai capirono che l’istruzione era veicolo fondamentale per il progresso individuale, la laurea si rivelava un formidabile ascensore sociale, i figli dei poveri (se studiavano) potevano migliorare la loro condizione. Il cammino verso l’italiano, favorito dalla scolarizzazione delle classi giovani, era rinforzato da altri fattori: le migrazioni interne verso le grandi città, da tutto il Sud e anche da regioni del Nord (Friuli, Veneto, valli lombarde e piemontesi), che portarono masse di dialettofoni a desiderare una lingua comune; la partecipazione alla vita di sindacati e partiti, che non fu solo sindacalese o politichese e brogli, ma anche promozione culturale e sociale; la diffusione della televisione, che riversò un fiume di italiano (garbato, semplice, “educato”) in case in cui si parlava dialetto: non solo volgarità e pettegolezzi (come molta televisione dei nostri giorni), ma anche cultura e conoscenza.

L’italiano è diventato lingua nazionale grazie allo sviluppo dell’istruzione e delle relazioni sociali, grazie ai mezzi di comunicazione (giornali, radio e televisione), grazie alle migrazioni di Rocco e dei suoi fratelli (inurbati a Milano tra mille difficoltà) e di milioni di uomini e donne diretti verso le fabbriche del Nord, con le valigie di cartone e parlando solo dialetto. Le indagini di Doxa e Istat segnano, passo dopo passo, il cammino linguistico della popolazione, fino ad anni recenti. Nel 2006 il 45% di persone usa abitualmente l’italiano. Il 49% parla sia l’italiano sia anche, alternativamente, specie nella vita familiare e privata, uno dei tanti dialetti, tuttora ben vivi. Appena il 6% usa sempre e solo il dialetto. In sostanza: senza abbandonare modi regionali e dialetto nativo, converge verso l’uso dell’italiano il 94% degli italiani. Ma non tutti ancora siamo dotati dei necessari strumenti intellettuali per parlare e scrivere correttamente e per esprimerci in maniera adeguata, nelle più diverse circostanze. È questa la grande sfida dei nostri giorni, che ci impedisce di essere davvero una civiltà moderna e democratica.

Va portata a compimento una rivoluzione di portata storica. Mai in questo Paese vi era stato un pari grado di convergenza verso una stessa lingua. L’italiano è la lingua comune degli italiani. Da qui, da questo patrimonio acquisito bisogna partire, per puntare al miglioramento. Raggiunta l’unificazione, sulla scena della lingua si affacciano nuove questioni. L’ingresso incontrollato di parole straniere, il nuovo italiano che ragazzi e adulti adottano per gli sms e per i diversi canali della comunicazione in rete, la frequenza di forme sciatte e spesso francamente errate, non solo nel parlato e nello scritto informale ma anche nell’italiano dei media, nei discorsi politici, ecc. Bisogna opporsi alla deriva. Vanno difese la bellezza, la comprensibilità e la correttezza della lingua, senza irrigidirsi in aprioristiche negazioni dei fermenti che la percorrono e nello stesso tempo evitando di cedere al pressapochismo agrammaticale, che ignora la storia e anche la funzionalità.

Oggi migliaia di persone fuori d’Italia desiderano imparare l’italiano, è la quarta o quinta lingua più studiata al mondo. Non perché sia una lingua indirizzata a scopi pratici, ma perché serve a conoscere la cultura, le arti, la musica, la moda, il cibo, tutto il buono che l’Italia ha prodotto e continua a produrre; in poche parole lo stile di vita che ha successo universale, spesso più di quanto noi stessi crediamo. Massimo d’Azeglio, riflettendo sul diverso atteggiamento che segna il modo di essere nostro e dei francesi, scriveva: «Tanto orgoglio da una parte [quella francese] e tanta modestia dall’altra [quella italiana]. Non ho potuto fare a meno di desiderare che anche noi si imparasse a vantarci un poco almeno delle cose vere». Impariamo a farlo (senza sciocchi autocompiacimenti) perché troppo spesso siamo inconsapevoli delle nostre cose vere che meritano di essere apprezzate. La lingua è tra queste.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 7 luglio 2019, p. 9]

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