L’interpretazione che Pellegrino dà del tarantismo vede il “tarantismo come rito di rinascita dalle origini remote, trapiantate e innestate in ambito cristiano” (p. 26) che si inscrive “nel più ampio contesto dei rapporti tra mito e razionalità occidentali” (p. 26). “Il tarantismo – egli dice – è un episodio dello scontro millenario tra mito e ragione” (p. 24), oggi tanto più evidente in quanto siamo “in un periodo di esasperata razionalità tecnologica” (p. 27). L’assunto principale del libro, dunque, è che “il tarantismo non sia un inutile “relitto” e che anzi in esso sia depositato un prisma che imprigiona i colori della nostra antica identità collettiva” (p. 27). “Da questa prospettiva, l’attuale revival nazionale della tarantella e in particolare della pizzica pizzica, musica e danza che riesce ad accendere i sensi e le emozioni delle folle, si pone come una sorta di ritorno di Dioniso e della cultura che gli appartiene” (p. 28).
Il libro, dopo l’Introduzione (pp. 7-29), si articola in tre capitoli. Il Capitolo I reca il titolo Caratteri generali del mito (pp. 33-47). Dopo una disamina delle varie versioni del mito e del conflitto delle interpretazioni, Pellegrino rivendica “il carattere conoscitivo del mito”: “di fronte al mistero del nostro essere e dell’accadere cosmico, esso riesce a dare una risposta alla domanda: che cosa? Come mai? Perché? Si tratta naturalmente di una risposta fornita non dalla ragione che indaga rigorosamente, ma dalla fantasia…” (pp. 45-46).
Il Capitolo II è intitolato Il mitologema di Dioniso (pp. 49-105). Mitologema è parola greca che significa “racconto mitico”. Questo mitologema, dice Pellegrino, “qui si assume essere, per sentieri accidentati e per intersezioni tra culture diverse e in vari tempi storici, al centro e al cuore del fenomeno del tarantismo” (p. 52). Ora, non c’è lo spazio in questa recensione per raccontare tale mitologema in tutte le sue varie forme. Tuttavia, dal racconto mitico di Dioniso deriva che questi altri non è che “l’antesignano di Cristo”. Scrive Pellegrino: “Quanto quest’accostamento di Dioniso a Cristo, fino alla completa risoluzione dell’uno nell’altro, non sia appannaggio esclusivo dell’ala poetica di Holderlin, frutto di un azzardato volo pindarico, o del sogno visionario di Nietzsche, ma possa costituire il risultato di un’operazione sincretistica e di contaminazione tra riti pagani, diffusi soprattutto nella Magna Grecia, e culto cristiano di più spiccata accentuazione paolina – quanto quest’accostamento, si diceva, sia pertinente in sede storica, e non solo letteraria, è in parte la tesi che qui si intende sostenere, con specifico riferimento a quel crogiolo di esperienze diverse in cui fermenta il fenomeno del tarantismo” (pp. 55-56). Nel Capitolo II, dunque, Pellegrino ripercorre le varie interpretazioni del mito di Dioniso dall’antichità al mondo moderno, fermandosi soprattutto nell’età del Romanticismo tedesco.
Segue il Capitolo III, L’inestricabile intreccio tra mito e tarantismo (pp. 107-162). L’obiettivo polemico è qui Ernesto De Martino de La terra del rimorso: “De Martino ricercherà la genesi e la persistenza della questione meridionale nell’accumulo di sacche di superstizione religiosa, fattore di sottosviluppo civile e di mancata intraprendenza economica” (p. 113); “De Martino pensa illuministicamente che tarantismo et similia sono residui superstiziosi alle radici dell’arretratezza meridionale…” (p. 156); a cui Pellegrino contrappone l’interpretazione “mitica” di Nietzsche de La nascita della tragedia: “Nietzsche è convinto che “senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura”, per cui scorge in un passato immemoriale le origini di alcuni fenomeni, il cui destino si colloca sotto il segno dell’”eterno ritorno dell’uguale” (p. 156). Sono quindi affermate con forza “le radici orfiche del tarantismo, che De Martino esclude a vantaggio della tesi orientata a sostenere origini medievali”. L’orfismo, il cui “nucleo tematico fondamentale” spiega come esso possa essere considerato precursore del cristianesimo, si può riassumere come “la convinzione che la vita terrena sia una semplice preparazione per un vita più alta, che può essere meritata per mezzo di riti iniziatici e pratiche di purificazione, all’interno di un dispositivo rituale conservato rigidamente segreto dalla setta” (p. 125). E’ la tesi di Vittorio Macchioro, che Pellegrino illustra e fa sua senza esitazione (pp. 134-149).
Ci avviamo ormai verso la Conclusione, nella quale Pellegrino ribadisce con convinzione la sua tesi, che spera di aver suffragato attraverso il lungo ed articolato excursus storico-letterario: “L’importante è aver dimostrato la sostenibilità di una tesi orientata ad affermare lo sfondo mitico, oltre che rituale, del tarantismo, le sue antiche origini ed il fatto che ridurlo alle ultime rozze ed eccentriche propaggini del Novecento non rende ragione di quella qual certa dignità culturale che probabilmente aveva in antico…” (p. 162). L’autore ha voluto evidenziare i termini dignità culturale, perché è questo, a mio avviso, che gli sta particolarmente a cuore. Ridare dignità(“quella qual certa dignità culturale che probabilmente aveva in antico”) ad un fenomeno troppo spesso interpretato come un segnale preciso di sottosviluppo (De Martino). E, dunque, tutta una tradizione culturale, quella nella quale si invera il mitologema di Dioniso, dalla tragedia di Euripide all’età di Goethe, da Schlegel a Holderlin, da Scelling a Schopenhauer, da Kierkegaard a Nietzsche (in proposito, si consulti il sempre utile Indice dei nomi), viene chiamata al riscatto del tarantismo, a dargli una dignità, a sdoganarlo, come si dice di certi passaggi politici più o meno recenti. E col tarantismo, “il ritorno di Dioniso, cioè dello spirito dionisiaco, inteso non nel senso della documentabilità filologica ma della metafora che lo racchiude”, dà dignità (in quanto comprende e spiega) al “neotarantismo che pare dilagare: misto incandescente di suoni, ritmo, danze e colori” (p. 161), scrive Pellegrino con forte partecipazione emotiva. Sicché infine si comprende bene l’intenzione dell’opera, la sua per così dire finalità ideologica: fornire agli abitanti della “siticulosa Apulia” (p. 162) una storia illustre nella quale riconoscersi e nella quale farsi riconoscere anche altrove, una storia dunque anche spendibile sul piano “nazionale e oltre” (p. 16), mostrare in quale ragione filosofica e prim’ancora estetica è riposta “la nostra antica identità collettiva”, come Pellegrino scrive nella Introduzione (p. 27). Del che – come sempre quando sento il termine “identità”, tanto più “collettiva” -, mi si consenta, come si dice, di dubitare.
Pertanto, nella lunga estate che ci attende, quando ci capiterà di incontrare nelle piazze dei nostri paesi masse di giovani e meno giovani assiepate tra la chiesa e il palazzo baronale, che ballano e si sballano e si dimenano entro lo spazio simboleggiante i termini di un’eterna dominazione, approntato per loro da accorti amministratori che non perdono occasione per mettere in mostra la loro solerzia, allora ci tornerà in mente Il ritorno di Dioniso; e ci sarà chiaro che il libro di Pellegrino non contiene tanto l’archeologia del tarantismo come rito di morte, liberazione, e rinascita – che rimangono raggi illusori d’un prisma che continua a imprigionarci -, ma una summa del neotarantismo e della restaurazione neobarocca, ovvero la giustificazione teorica e culturale di un’antica pratica di potere tuttora ben radicata, da cui vanamente si pretende di evadere con la musica e coi balli; allora finalmente Dioniso racconterà con uguali parole per chi e perché ogni estate egli torni, come un Cristo Redentore, su questa terra.
[Recensione a Paolo Pellegrino, Il ritorno di Dioniso. Il dio dell’ebbrezza nella storia della civiltà occidentale, Congedo Editore, Galatina, 2008), “Il Paese Nuovo” di mercoledì 17 giugno 2009, p. 7.]