Nel pieno dei moti risorgimentali la frase di Metternich, utilizzata in chiave patriottica, contribuì prepotentemente, per ovvia reazione, a risvegliare negli italiani sentimenti anti-austriaci. E tuttavia, esaminata nella sua formulazione compiuta, essa contiene un nucleo di verità. La frase intera diceva: «La parola Italia è un’espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle». Formulata per mero calcolo politico, allo scopo di giustificare la frammentazione della penisola, quella frase comprende in sé un impeccabile riferimento alla lingua: molto prima dell’unificazione politica, la lingua è stato il vero cemento identitario degli italiani. «La lingua italiana fattore portante dell’unità nazionale». Così si intitolava un incontro che si tenne il 21 febbraio 2011, al Palazzo del Quirinale, promosso dalla Presidenza della Repubblica con la collaborazione dell’Accademia della Crusca, dell’Accademia dei Lincei, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e della Società Dante Alighieri.
La storia insegna. Nel bagaglio delle matrici identitarie che servono a legittimare le nazioni la lingua è un fattore decisivo. L’Italia arrivò ai prodromi dell’unificazione con una situazione, dal punto di vista della lingua, davvero straordinaria: pur se non era unita politicamente, essa possedeva già una lingua comune, la possedeva addirittura dal Trecento e l’aveva conservata, senza grandi variazioni, fino all’Ottocento. Tra le grandi lingue europee, l’italiano ha una storia particolare, forse unica, nella quale predomina il marchio della letterarietà e in generale dei livelli elevati di espressione. La lingua italiana, costantemente vivificata dal ricorso alla cultura classica (il latino, naturalmente, e anche il greco, che costituiscono serbatoi preziosi ai quali essa attinge nel corso di tutta la propria storia) e da rapporti di dare e avere con molti idiomi diversi, presenta una caratteristica del tutto particolare: pur sottoposta alle tensioni che producono i contatti con altre lingue e gli scambi con la variegata realtà dialettale (vivace e nient’affatto destinata all’estinzione, anche oggi i dialetti sono ben vivi), percorsa inoltre da normali processi di neoformazione da un lato e di obsolescenza dall’altro che ne modificano la struttura (grafia, fonomorfologia, sintassi e lessico), si caratterizza per una evidente riconoscibilità e una (relativa) stabilità in diacronia che conferiscono un aspetto in qualche modo familiare a opere anche remote della letteratura.
Quando Carlo Azeglio Ciampi, un grande Presidente della Repubblica, riceveva nelle sale del Quirinale gli studenti leggeva gli inizi di due poesie dedicate all’Italia: «Italia mia benché il parlar sia indarno» e «O Patria mia vedo le mura e gli archi, le colonne e i simulacri e l’erme torri». E chiedeva quale poesia fosse di Petrarca e quale di Leopardi, poeti vissuti a grande distanza l’uno dall’altro (Petrarca nel Trecento, Leopardi nell’Ottocento). Alcuni studenti rispondevano correttamente, altri no. Facendo quella domanda Ciampi intendeva sottolineare che la struttura dell’italiano era poco variata nel tempo, ancora riconoscibile e familiare, relativamente stabile nonostante la distanza di quasi cinque secoli tra le due poesie. E gli studenti, a volte sbagliando, pagavano lo scotto di uno dei difetti fondamentali della scuola italiana degli ultimi decenni, che ignora la pratica di mandare a memoria (errore clamoroso! Il ministero rimedi, in fretta!) e quindi deprime una facoltà importante del nostro cervello. Ma non solo: incapaci di distinguere la lingua di Petrarca da quella di Leopardi, gli studenti rivelavano di essere tutti immersi nel presente, tuffati in una nebulosa indifferenziata in cui la storia, la variazione e le date (le date, vituperatissime ma fondamentali per capire) perdono senso.
Ancorare la lingua alla storia, conoscere il passato per capire il presente, visto nei tanti aspetti positivi (che per fortuna esistono) e anche nelle forme di disgregazione, nei conflitti personali, nella aggressività e nella irrazionalità che sembrano caratterizzare gli anni che viviamo. Cercheremo di farlo nelle prossime puntate della rubrica. Partendo dalla lingua. Specchio primario di noi, degli altri, della società intera.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 30 luglio 2019]