D’altra parte, però, la pittura di Vermeer, di Caravaggio, di Rembrandt, di van Gogh, la musica di Bach, di Beethoven, di Mozart, di Vivaldi, la letteratura di Shakespeare, di Omero, di Dante, di Cervantes, solo per fare alcuni esempi sulla cui significatività sarebbe perdita di tempo obiettare, sono nutrimento per la mente. E il benessere mentale è un elemento di bisogno primario per l’essere umano. Purtuttavia il lettore potrebbe rilevare che si può vivere da soli ed in sanità mentale su di un qualche fiordo norvegese isolato, nella tundra siberiana, sulle montagne nepalesi, senza essersi mai abbandonati alla luce delle pitture di Vermeer, o aver letto del delirio di Macbeth, o aver ascoltato Glenn Gould che suona le Variazioni Goldberg – e meravigliosamente canticchia, ahimè. D’altra parte, però, quando la persona che si isola dal contesto sociale è presa dal vezzo d’istoriare il manico del coltello con cui taglia la verdura che coltiva o decide d’insaporire il piatto di verdura che cucina, aspirando ad una gratificazione del gusto, essa va al di là del bisogno fisiologico primario del suo stomaco di ricevere una certa quantità di sostanze organiche che gli permettano di affrontare il giorno (tagliare la verdura e prepararla perché sia commestibile sarebbe sufficiente alla sopravvivenza). Nell’insaporire il piatto e nell’istoriare il manico del suo coltello, usa il suo cervello in maniera da realizzare cose nuove (un piatto migliore, un segno sul manico che gli ricordi qualcosa o sia solo veicolo di emozione). Ci si può chiedere se quest’uomo isolato stabilisca con il suo fare un contesto culturale. Alcune osservazioni di Fumaroli nel testo che ho citato in precedenza (si veda a pagina 40) possono aiutare alla comprensione: “tutta questa confusione attuale sul termine «cultura», inteso nel senso degli antropologi (mezzi di sopravvivenza dei popoli senza scrittura) e dei sociologi (tutte le commodities delle società dei consumi, dall’orinatoio allo schermo digitale), è nata da una volontà di indifferenziazione da quella che il diciottesimo secolo, prima di Paul Valéry, chiamò «civiltà» e che presupponeva, oltre un’attività di sopravvivenza materiale, amministrativa e militare, una sfera di sovrappiù, un tempo di lusso, un retroterra estraneo, sia all’inerzia che alla mobilitazione, in cui il libero gioco dello spirito, delle emozioni, della mano d’artista esplora ciò che resta nascosto alla vista frettolosa o distratta.” Per mio conto ritengo che più che cercare una definizione cristallizzata che aiuti a discriminare tra “cultura sì” e “cultura no”, è forse più appropriato parlare di gradi di cultura, di livello culturale, prendendo a metro di paragone, in un dato settore, ciò che appare essere lì il migliore prodotto dell’umano agire, con la speranza di poter cambiare il termine di paragone perché nuovi e più raffinati prodotti dell’ingegno s’aggiungono. Così facendo, però, non ci si esime dall’esercizio di emettere un giudizio di valore, con tutte le difficoltà e le incertezze che ciò comporta, soprattutto quando ci si riferisca a livelli intermedi, non solo a ciò che può aspirare ad essere considerato un termine di paragone. E tali difficoltà fanno sì che la valutazione sia in genere un processo che s’approfondisce e/o muta. Il giudizio subisce l’influenza del contesto storico. Ma è proprio quanto sopravvive alla contingenza, diventando indipendente da essa, che determina un’apprezzabile misura di valore. Il tempo gioca il ruolo di lavacro.
Un processo di valutazione coinvolge nel 2013 la produzione culturale del sistema universitario italiano nel settennio 2004-2010. Gli effetti del programma, condotto dall’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR) incideranno sulla distribuzione dei fondi strutturali agli atenei, distribuzione che non è più uniforme in ragione delle sole dimensioni della singola università, come passate condizioni di floridezza economica permettevano, ma contiene una quota premiale. La valutazione della produzione culturale è suddivisa in due settori: bibliometrico e non-bibliometrico. Mi soffermerò sul primo. Elementi del secondo appariranno indirettamente per esclusione.
L’ambito bibliometrico riguarda prevalentemente l’attività scientifica. Vengono considerati alcuni indicatori statistici relativi alla quantità di citazioni che un dato articolo riceve, alla distribuzione temporale delle stesse, alla qualità (anch’essa associata ad indicatori statistici) delle riviste che le contengono. I dati sono raccolti da enti privati internazionali. Due di essi sono riconosciuti dal nostro Ministero dell’Università e forniscono elementi statistici utilizzati sia nelle valutazioni complessive degli atenei che in quelle dei singoli docenti. Per questi ultimi l’incidenza è sulle procedure concorsuali che gestiscono le carriere, circostanza che ha fatto sì che il sistema bibliometrico sia stato analizzato in dettaglio e criticato anche aspramente ed a ragione da molti. Un fatto è certo, comunque: i dati statistici cui mi riferivo in precedenza, soprattutto quelli relativi al singolo ricercatore, possono essere alterati artificialmente dall’azione combinata di gruppi compiacenti di sodali. Le maniere possono essere differenti. Per averne un’idea, sia pur superficiale, è utile riassumere con un esempio specifico le fasi comuni della procedura di pubblicazione di un articolo che riporti i risultati di una ricerca scientifica. Due ricercatori cinesi credono di aver dimostrato un qualcosa che pare a loro non essere conosciuta. Scrivono un articolo e lo spediscono all’ufficio editoriale di una rivista americana da dove l’articolo stesso viene smistato ad un “advisory editor”, cioè ad un docente che è membro del comitato editoriale della rivista stessa e che lavora, ad esempio, in Italia. Questi sceglie due altri docenti (ad esempio uno a Praga e l’altro ad Edimburgo) che pensa possano valutare il manoscritto che gli è stato smistato. Se costoro accettano di dare un giudizio, lo emettono in maniera anonima. Le loro recensioni vengono spedite agli autori assieme al parere personale dell’”advisory editor” che accetta o rifiuta di pubblicare il manoscritto, o infine suggerisce una serie di correzioni. L’azione è quindi sovranazionale – come lo è anche quella che si sviluppa in ambito umanistico, sebbene in questo caso si attenda in genere per primo un consolidamento in campo nazionale – e l’esempio non è fantasioso. Ho appena condotto da “advisory editor” il processo di valutazione di un articolo che mi era stato inviato (questo come altri), proprio nei termini appena espressi ed avrei potuto agire su tutti i passaggi della procedura (i tempi, la scelta dei revisori, il tipo di risposta) se avessi voluto aiutare od ostacolare gli autori, influendo così alla lunga sui loro dati statistici. Per quanto riguarda le citazioni, poi, è noto che ci sono gruppi che escludono altri o che citano i sodali anche a sproposito.
Per questi motivi la valutazione, per quanto necessaria, non può essere solo bibliometrica. Gli elementi bibliometrici hanno il ruolo di indicatori ma poi si deve andare nello specifico della produzione del singolo ricercatore, di un gruppo, di un ateneo. In questa direzione si stanno muovendo le istituzioni prevedendo l’azione specifica di revisori. Il problema è quindi chi giudica e come giudica. Tre mi sembra siano gli aspetti essenziali che determinano in chi valuta la solidità di ciò che egli esprime: (1) onestà intellettuale, (2) sensibilità personale, (3) competenza – l’ordine non è casuale. E sono caratteristiche che ci si deve preoccupare di esercitare, di affinare nei limiti delle proprie possibilità, si tratti di agire nel mondo dell’arte, in campo scientifico, in quello filosofico, in quello storico, in quello letterario e così discorrendo.
L’attenzione ai processi di valutazione delle attività culturali, infatti, non è limitata al solo sistema universitario. Le condizioni storiche impongono la necessità di allargare sempre più il campo a tutto il patrimonio dei beni culturali, e coinvolgono sia le istituzioni nazionali che quelle locali.
Si sostiene spesso che le istituzioni locali debbano avere come prospettiva la valorizzazione delle realtà ad esse pertinenti per motivi di sostenibilità e di dimensioni. L’osservazione ha ragion d’essere. Il problema, però, risiede sempre nel verificare che le realtà locali siano tali solo per questioni circostanziali e che, invece, possiedano la qualità per essere confrontate con assoluta dignità con un contesto più ampio. Per gli studiosi e per le amministrazioni si tratta di volta in volta di fare scelte che abbiano motivazioni chiare e solide. “Oggi più che mai”, sosteneva Carlo Ossola – professore al Collège de France – in un’intervista pubblicata su Repubblica del 3 gennaio 2013, “c’è bisogno di limpidezza e sobrietà nella prosa, mentre troppo spesso, anche all’interno dell’accademia, prevalgono inutili espressionismi e compiacimenti di un dire senza oggetto.”
Scegliere tra possibili proposte culturali è difficile arte. Ogni scelta che viene fatta evidenzia un valore. Ed è proprio dalla solidità di quel valore che emerge la qualità di chi sceglie, sia nel ruolo di studioso che in quello di amministratore.
[“Il Galatino” dell’ 8 febbraio 2013, p. 5]