I Salesiani di Corigliano d’Otranto

I libri che ci riportano a quell’età sono sempre graditi, ed è per questo che ho letto tutto d’un fiato il libro dei Salesiani – secondo la definizione di mio zio -; un libro di Giuseppe Orlando d’Urso, dal titolo Le strade del Signore sono ferrate, Corigliano d’Otranto 1901-2001. Significatività sociale dell’Opera Salesiana, stampato dalle Edizioni del Grifo nel 2001, per conto dell’Istituto Salesiano “Nicola Comi”.

Attraverso il ricordo commovente di un personaggio fittizio, il vecchio Teo, tanto vecchio da essere in grado di ricostruire per intero tutta la vicenda, d’Urso narra l’epopea dei Salesiani coriglianesi, che condizionò non poco la vita collettiva di questo paese.

Tutto ebbe inizio nel pomeriggio del 21 ottobre 1901, alle ore 15:36, quando alla stazione di Corigliano d’Otranto arrivò da Ivrea il ventottenne agronomo don Giovanni Battista Martina in qualità di direttore della nuova Casa Salesiana, accompagnato dal chierico, agronomo e insegnante Francesco Bonetti, dal geometra e agronomo Giuseppe Richeri e dal contadino Pietro Donato. Ad accoglierli trovarono l’arciprete don Salomone Fuso, a capo del clero del paese, che li guidò fino al palazzo del barone Mario Comi, figlio di Nicola, colui che aveva voluto fortemente, e finanziato lautamente, la dimora dei Salesiani a Corigliano, ed era morto troppo presto (1897) per vedere realizzato il suo progetto.

Chi erano questi quattro viaggiatori e che venivano a fare in una terra così lontana dal Piemonte? Si trattava di una piccola avanguardia di militi di don Bosco che discendeva l’Italia per sottrarre “i contadini miserabili al verbo socialista”. Nella Cronaca della Casa Salesiana di Corigliano d’Otranto, dattiloscritto anonimo (ma curato dai primi Salesiani) citato da d’Urso, si legge sotto la voce Movimento Socialista: “Guai se arriva il verbo socialista ad organizzare questi miserabili contadini. Dobbiamo essere noi cattolici chi li salva” (p. 26). Nello stesso torno di anni, infatti, in Terra d’Otranto andava diffondendosi “il verbo socialista”, con Carlo Mauro e Pietro Refolo – tanto per citare solo due esponenti della sinistra rivoluzionaria del primo novecento, di Galatina l’uno, di Maglie l’altro, le due cittadine intorno a cui orbitava Corigliano -, che organizzavano le leghe per la distribuzione della terre ai contadini. Se ne ritrova un’eco appena percettibile in coloro che, visitando il nuovo edificio già costruito per volontà del barone, hanno da dire la loro (in greco!) su quanto stava accadendo in paese e così sono ritratti dai cronisti salesiani: “… i prudenti del secolo, i saputelli, le mezzecalze, quelli che ci tengono, i quali entrano adagio, petulanti come se fossero in casa loro, ci guardano con occhio superiore, criticano scioccamente e fingono di non sperar nulla dall’Istituto, anzi ci guardano come intrusi. Sono i sobillatori e i sobillati. Si sentono mormorare in greco frasi come questa: “Meglio che il Barone avesse dato a noi un pezzo ciascuno di queste terre anziché introdurre queste novità”, ecc.” (cfr. la n. 10 p. 20). Così la Cronacacitata. In realtà, queste voci di dissenso – che in quel tempo non dovevano essere voci isolate – nel libro di d’Urso rimangono sullo sfondo, appena accennate, confinate in nota, perché ben altro è lo scopo del libro che non quello di una complessiva ricostruzione storica del periodo considerato. Lo scopo è quello di illustrare, come s’è detto, l’epopea dei Salesiani; di quel manipolo di uomini di buona volontà che con gran fatica – alleviata, certo, dalle continue ricche donazioni dei Comi – contribuì a sollevare le condizioni di vita del paese. Corigliano, alla fine dell’Ottocento, poteva essere portato come esempio di una questione meridionale irrisolta e difficilmente risolvibile senza l’intervento di un eroe epico venuto da lontano, almeno, così ci hanno sempre lasciato, e ci è sempre piaciuto credere.

Una delle prime cose che don Martina annota nel suo diario manoscritto intitolato Scampoli di cronaca a fior di penna e storia a vol di rondine, è che dietro l’edificio fatto edificare dal barone Nicola Comi “ci impressiona dolorosamente la troppo grande superficie donde emerge il sasso”: oltre sette ettari di terreno incolto e destinato al pascolo. Sono i cosiddetti cozzi de Corianu, contro cui saranno messi in opera picconi e mine per bonificare i campi e renderli fruttuosi. Ma soprattutto è la Cronaca a dire qual sia la realtà sociale di Corigliano dei primi del Novecento: “L’80% sono analfabeti. Non esiste istruzione agraria: si continua a zappare con zapponi dal manico corto da rompere la spina dorsale. Quanto al vitto si mangia pane nero con poche fave. Il vino: la domenica o, peggio, all’osteria. Raramente si mangia la carne…” (p. 26).

Pertanto, per fronteggiare questa situazione di forte arretratezza sociale, l’opera dei Salesiani si svilupperà in tre fondazioni:  l’Azienda agricola, la Scuola e l’Oratorio.

All’Azienda Agricola, che si avvaleva in gran parte del lavoro gratuito degli allievi apprendisti della Scuola, spettò la dura fatica della bonifica – memorabile, la “scoperta dell’acqua nel 1929 diede il via alla costruzione del primo pozzo artesiano del paese (p. 30) -, con sperimentazione di nuove colture come il mais, orzo, grano e avena, già conosciute, ma di cui si aumentano ora le rese con particolari tecniche agronomiche e con nuove macchine agricole.

In secondo luogo, fu fondata la Scuola Agraria Salesiana “Nicola Comi”, “poi trasformata in Scuola di Avviamento al lavoro di tipo agrario, nell’anno scolastico 1939-1940, per adeguarsi ai nuovi ordinamenti scolastici; così come seguendo l’evoluzione e la trasformazione delle norme vigenti all’epoca, nel 1962-1963, divenne scuola media privata, parificata, legalmente riconosciuta” (cfr. n. 32 di p. 84). La scuola agraria si prefiggeva di “formare esperti agricoltori”, come si legge nella Cartolina pubblicitaria di p. 22. Un esempio di integrazione scuola-lavoro ante litteram – con cui si risparmiava sulla manodopera dei salariati – che viene meno con la trasformazione in scuola media e, soprattutto a partire dal 1970, con lo smantellamento dell’azienda agricola: “… chiuse le stalle, aboliti i pollai, [fu] ridimensionata la produzione, iniziata la lottizzazione per la vendita di terreni per soddisfare una domanda esterna di espansione urbanistica e per riequilibrare il conto economico” (p. 119). In realtà, erano finiti i tempi in cui “uomini in tonaca … facevano i contadini” (p. 73), con risultati a volte apprezzabili, altre volte un po’ meno, a seconda delle annate, assicurate tuttavia dalla continua munificenza dei Comi, che dal 1924 sono anche famiglia di banchieri con la fondazione della Cassa Agricola. A costoro – ma l’idea è sempre di Nicola nel lontano 1896, un anno prima della morte – si deve “l’azione di implementazione e di completamento [dell’opera] con la successiva donazione in favore delle Suore” (p. 54), le Figlie di Maria Ausiliatrice – ben tenute separate da un alto muro dai locali dei Salesiani -, a cui fu affidato l’Asilo infantile il 6 gennaio 1933 (p. 88), secondo una divisione dei ruoli ben precisa che ha nel sesso il suo principio di individuazione: i maschi del paese potevano frequentare l’Oratorio dei Salesiani, mentre le ragazze aveva libero accesso nei locali delle suore.

Proprio l’Oratorio fu la terza novità introdotta dai Salesiani a Corigliano, presto imitata a Maglie per iniziativa del can. Giannuzzi, e a Galatina per iniziativa di don Salvatore Podo e don Mimì Zamboi, e in altre città del Salento (p. 76). L’Oratorio, cioè quell’insieme di attività ludiche che dovevano servire – com’è scritto nella Cronaca – a “dirizzare bene questi [coriglianesi]” (p. 66). Nasce così la Banda musicale, la Schola cantorum, la squadra di calcio, il giornalino, il teatro, e poi ancora il cinema, cui si poteva accedere pagando un biglietto il cui costo dipendeva dai bollini accumulati con la partecipazione ai “momenti formativi e religiosi” (p. 85) organizzati dai religiosi per il solo sesso maschile del paese.

La cosa cambiò solo coi primi fermenti degli anni settanta, quando assistiamo, anche a Corigliano, ad una per così dire riunificazione dei sessi: “Il 15 febbraio 1970 segnò una data storica, suggellando queste presenze miste, maschili e femminili…: fu rappresentata la commedia Isidoro hai preso un granchio” (p. 110).  Qualcuno gridò allo scandalo, ma poi la modernità ebbe la meglio.

D’Urso passa in rassegna tutti i direttori che si susseguirono fino al 2001 (noi citiamo solo don Vittorio Lacenere, direttore della Casa Salesiana nel 2001, che firma una introduzione dell’opera in esame, sottacendo per mancanza di spazio tutti gli altri e  rimandando all’elenco di p. 78), ognuno dei quali lasciò un’impronta nella gestione della Casa Salesiana, fino ai giorni della costituzione della Comunità Emmaus (22 marzo 1994), per il recupero del disagio sociale e dei tossicodipendenti, a cui i Salesiani danno un grande contributo, com’è nella loro tradizione (si ricordi che dal 1919 al 1925 il Collegio aveva ospitato fino a 78 orfani di guerra, e che questa attività di accoglienza era continuata anche dopo).

Alla fine il vecchio Teo – ve lo ricordate il personaggio fittizio che ricorda coi toni  commoventi dell’elegia questa lunga storia? -, prima di morire, “si chiedeva se le scelte dei baroni Comi fossero andate nella direzione ottimale o meno; se fosse stato meglio distribuire le terre ai contadini”, come richiesto da più parti cent’anni prima; e non trova di meglio che affidarsi alla volontà di Dio: “Ciò che non si può negare è che le strade del Signore sono ferrate”, il che vuol dire “che sulla strada ferrata delle moderne ferrovie sono giunti a Corigliano i Salesiani; ma significa anche ben solide” (p. 146), come sono le strade del Signore percorse dai religiosi venuti dal Piemonte. Così, in articulo mortis, Teo si affida umilmente a Dio, senza dare alcuna risposta che, dati i presupposti, non appaia scontata. D’Urso, d’altro canto, in conclusione, allude ad una sorta di conciliazione tra modernità e religione, ritenuta vincente perché avvenuta (e come poteva essere diversamente?) sotto la protezione di una famiglia di baroni-banchieri, considerati in effigie i numi tutelari della comunità.

Se questo sia vero, e non soltanto una ideologica risoluzione di ben altri problemi che nel corso di un secolo i cittadini di Corigliano si trovarono a affrontare (per esempio, quale ruolo giocarono i Salesiani durante il fascismo, quale nel più lungo periodo democristiano, quale peso ebbero le scelte dei Comi sulla fortissima emigrazione soprattutto del secondo dopoguerra, quali politiche furono messe in atto per fronteggiare il fenomeno della droga negli anni settanta e ottanta, ecc.?), soltanto un’auspicabile ricerca storica a tutto campo in futuro potrà dirlo. Ma per fare questo due toni dovranno essere evitati: quello elegiaco di Teo e quello epico di d’Urso. Solo allora sapremo come sono andate veramente le cose.

[I Salesiani di Corigliano d’Otranto (recensione  a Giuseppe Orlando D’Urso, Le strade del Signore sono ferrate. Corigliano d’Otranto 1901-2001. Significatività sociale dell’Opera Salesiana, Edizioni del Grifo,  Lecce, 2001), “Il Galatino” di venerdì 27 marzo 2009, p. 8.]

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