I Salesiani di Corigliano d’Otranto

di Gianluca Virgilio

Qualche giorno fa sono andato a trovare mio zio, che abita a Corigliano d’Otranto. Non lo vedevo da molto tempo, e quando stavo per congedarmi da lui, mi ha regalato un libro, – il libro dei Salesiani, ha detto -, raccomandandomene la lettura. Mi ha mostrato, sfogliandolo, una delle molte fotografie che corredano il volume, in cui è ritratto anche lui in gioventù, all’incirca verso il millenovecentocinquanta, mentre posa come calciatore della squadra di don Bosco. L’ho ringraziato e gli ho risposto che l’avrei letto volentieri, anche perché l’argomento mi riportava indietro di tanti anni, quando accompagnavo mia madre a Corigliano dai nonni e, siccome in casa mi annoiavo, i parenti mi spingevano ad andare all’Oratorio dei Salesiani, dove c’era sempre qualcosa da fare: una partita di biliardo, di calcio e cose di questo genere. Per la verità, all’Oratorio di Corigliano mi sentivo un po’ a disagio, perché, provenendo di Galatina, non conoscevo nessuno e nessuno mi considerava; allora preferivo andarmene al cinema pubblico – Cinema Italia o Supercinema, non ricordo più -, pagavo il biglietto, un po’ più costoso di quello che facevano pagare i Salesiani, e me ne stavo da solo, per un paio d’ore, nel buio della sala affumicata a guardare le immagini luminose che mi scorrevano davanti. Ma l’edificio monumentale dei Salesiani, scurito dal tempo, mi era familiare, perché vi lavorava mia zia, e io e mia sorella immancabilmente correvamo a trovarla quando si andava a Corigliano in orario di lavoro. Mia zia, immersa tra montagne di lenzuola fresche di bucato, da stirare e rammendare, senza smettere di lavorare, ci raccontava di tutto il ben di Dio che c’era nelle stalle e nei magazzini e nei campi, orti e frutteti dei Salesiani, tutta roba che il barone religiosissimo aveva donato tanto tempo prima, che lei non era ancora nata. Ancor oggi, se ci penso, l’edificio monumentale e scuro dei salesiani occupa il mio immaginario, come quel luogo dietro il quale si aprono giardini incantati, popolati di uccelli e altri animali domestici chiusi in ampie gabbie, galline e anatre e oche e conigli, cui era possibile dar da mangiare un ciuffo d’erba strappato da un’aiola di rose, di gladioli e di bocche di leone. Erano i primi anni settanta ed io avevo all’incirca una decina d’anni: ora non saprei dire se queste cose le ho viste davvero oppure le ho immaginate sulla scorta dei racconti di mia zia.

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