Torniamo alla «Piazza delle lingue», che continua anno dopo anno. Lo scorso anno, a Milano, in coincidenza con l’EXPO, ha trattato il tema «L’italiano del cibo». Le parole della cucina e dell’alimentazione si diffondono all’estero insieme ai nostri prodotti (per cui siamo giustamente celebri) e contribuiscono a favorire l’immagine di un’Italia capace, produttiva, ammirata e da imitare. Lingua, cultura ed economia vanno insieme, i benefici coinvolgono tutti. L’edizione di quest’anno, la decima, dal 29 settembre al 2 ottobre, svoltasi sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica (come le precedenti), con il patrocinio della Regione Toscana, della Città Metropolitana e del Comune di Firenze, ha discusso su «Firenze e la lingua italiana». Sappiamo quanto grande è stata la parte di Firenze nella storia linguistica d’Italia; l’italiano che noi usiamo quotidianamente poggia, con le ovvie trasformazioni cui va soggetta ogni lingua, in buona parte sul fiorentino del Trecento, quello stesso del grandissimo Dante e degli altri grandi del tempo. Ma il presente impone nuove domande. Firenze ha ancora un ruolo decisivo nel definire le tendenze della lingua nazionale? E i fiorentini, parlando, non fanno a volte errori (come tutti gli italiani)? E quale è la fortuna del fiorentino usato così spesso nel cinema, nella canzone, nella politica e in mille altre circostanze che vedono protagonisti diversi, dai comici toscani fino all’attuale Presidente del Consiglio?
Temi ampi in discussione, come si vede. Di tutto ciò si è trattato in luoghi vari, nella città e anche fuori dal centro cittadino: il Palazzo Medici Riccardi, il Centro commerciale di Ponte a Greve, il Palazzo Vecchio, la Villa medicea di Castello, il Teatro della Pergola, il Teatro Manzoni di Calenzano, l’Istituto Alberghiero Francesco Datini di Prato. «La Piazza delle lingue» non è una manifestazione per pochi. Oltre a studiosi importanti (il Presidente dell’Accademia, Claudio Marazzini, e tanti altri, in numero tale da non poter essere tutti ricordati uno per uno, come meriterebbero), vi hanno partecipato rappresentanti di istituzioni culturali, della magistratura, di comunità religiose. Ci sono state due tavole rotonde animate e coinvolgenti. La prima dedicata alle «Istituzioni di carattere nazionale che traggono linfa dalla fiorentinità». La seconda con interventi di artisti fiorentini come Ugo Chiti, Paolo Hendel, Anna Meacci, Sergio Staino e Pamela Villoresi che hanno discusso sul loro rapporto con la lingua italiana; a seguire, una videointervista con Carlo Conti, Giorgio Panariello e Leonardo Pieraccioni. Sono stati organizzati due spettacoli teatrali: La Tancia di Michelangelo Buonarroti il Giovane (questa commedia fiorentina fu rappresentata la prima volta nel 1612) e Se tu ci pensi l’è italiano! Riflessione semiseria sulla lingua toscana. Sono stati presentati alcuni libri recenti pubblicati dall’Accademia.
Ci sono state anche occasioni meno formali. Gli appassionati di cucina inconsueta hanno potuto partecipare a una cena in forma di «Stravizzo alla maniera degli Accademici della Crusca nel XVII secolo». Non lasciatevi ingannare dal nome. Lo «stravizzo» non ha che vedere con le «cene eleganti» le cui cronache ci sono state riferite con abbondanza di particolari dai giornali dei mesi scorsi. Lo «stravizzo» è il banchetto annuale a cui partecipavano i membri dell’Accademia della Crusca, che forniva occasione per la lettura di componimenti poetici elaborati per l’occasione e veniva concluso da un discorso. Per autoironia si affibbiò a questo discorso finale il nome di cicalata ‘ragionamento bizzarro, ma elegantemente composto’. Spesso si trattava di una cosa molto seria: Algarotti riferisce di un’orazione importantissima e molto bella, conclusiva di uno stravizzo, pronunziata da Giovambattista Dati, «coronato del poetico e imperial diadema dell’alloro» (siamo in pieno Settecento).
Alcune scolaresche hanno potuto visitare gratuitamente la Villa medicea di Castello, sede dell’Accademia della Crusca (vedete la foto); i ragazzi sono entrati in quel monumento, hanno ammirato la «Sala delle Pale» (vedete la foto) e la Biblioteca (anche questa nella foto). Il nome della Sala deriva dalle 153 Pale antiche, gli stemmi personali dei membri cinque-settecenteschi dell’Accademia (fu fondata nel 1583), qui conservate. In un’altra sala si possono vedere le pale appartenenti ad accademici contemporanei, che testimoniano la volontà di mantenere viva la tradizione (di questa seconda sala non parliamo). La pala di un Accademico della Crusca è composta dal nome accademico, da un’immagine e da un motto (tratto dalle opere di Dante, di Petrarca, di altri autori come Ariosto e Tasso): rappresenta l’“intenzione”, quello che il singolo componente si propone di fare, il suo contributo al progetto complessivo dell’Accademia. L’espressione scelta acquista un nuovo significato, indica l’impegno dell’individuo a vantaggio della lingua nazionale. Nella Sala della Pale un bel dipinto di Pier Dandini (recentemente studiato nella sua complessa allegoria) raffigura Filippo Baldinucci, autore di un Vocabolario toscano dell’arte del disegno (1681): Baldinucci è al centro, tra due figure femminili che simboleggiano l’Accademia della Crusca e l’Accademia del Disegno, deve scegliere come Ercole al bivio tra vizio e virtù. Opportunamente Baldinucci non sceglie, per tutta la sua vita continua ad occuparsi della lingua e dell’arte, insieme.
La biblioteca è ricchissima, è la maggior biblioteca italiana di linguistica e storia della lingua italiana, a scaffali aperti alla libera consultazione. Vi sono 146.000 volumi, 780 riviste (di cui 410 correnti), 147 manoscritti antichi, 41 incunaboli, stampe quattro e cinquecentesche. Il patrimonio della biblioteca cresce di continuo: molti acquisti, anche molti doni di autori viventi e interi fondi librari di studiosi scomparsi, che regalano a quella struttura la loro biblioteca personale, costruita pezzo dopo pezzo, lungo l’intera vita. Qualche esempio recente. Arrigo Castellani ha donato circa 4500 volumi moderni e circa 2000 estratti; Giovanni Nencioni ha donato circa 200 volumi antichi e circa 8.000 volumi moderni. Alla biblioteca si accede con un permesso (gratuito), è necessaria una lettera di presentazione di un accademico o di un professore universitario; ma non è una struttura chiusa, il permesso viene rilasciato a chiunque dimostri di saper maneggiare con cura i libri, facendo buon uso del privilegio ricevuto.
Penso alla nostra diversa situazione. Intendiamoci. Nessuno immagina che si possa recuperare in poco tempo il divario che si è creato nei secoli. Ma bisogna avere idee, saper scegliere, decidere in quale direzione investire le non abbondanti risorse disponibili, utilizzandole al meglio. In un Consiglio di Dipartimento, a chi denunciava la carenza delle nostre biblioteche, un collega replicò che la soluzione è dimettersi. Ma quel collega è un buontempone, nessuno presta attenzione alle sue parole, probabilmente non ci crede lui stesso. Invece bisogna agire. Non vedo un progetto di questo genere, né nella mano pubblica né nell’università (e dunque tiro in ballo anche me stesso, non mi sottraggo). Anzi, a causa della crisi, si comprano sempre meno libri e le biblioteche vengono lasciate deperire. Bisogna invertire la tendenza: allestire strutture adeguate (edifici pensati allo scopo, dotati di collegamento internet, moderni, gestiti da personale addestrato), salvaguardare il patrimonio librario esistente che spesso si lascia deperire o derubare, sollecitare i privati a donare quanto hanno (se, dopo la morte, agli eredi non interessa), comprare molti libri e molte riviste. Sono soldi ben spesi, l’impresa merita qualche sacrificio, tagliamo altrove. Per quanto strano appaia, il futuro dei giovani e della nostra terra si decide nelle biblioteche. Le nuove generazioni cresceranno bene se metteremo a loro disposizione biblioteche ricche ed efficienti, luoghi piacevoli in cui studiare e scambiare idee.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 9 ottobre 2016]