di Paolo Maria Mariano
Nell’ultimo numero de “Il Galatino”, prima della pausa estiva di questo 2014, Gianluca Virgilio si chiedeva se fosse il caso o meno, alla ripresa settembrina delle pubblicazioni, di continuare la sua rubrica “Come stanno le cose”, i cui interventi sono ora insieme a testi del 2007 e del 2008 nella raccolta “Così stanno le cose”, stampata da Santoro e disponibile nelle librerie e nelle edicole galatinesi. Non si trattava di mancanza di argomenti: la rubrica raccoglieva opinioni, spigolature, vagabondaggi analoghi alle passeggiate di Walter Benjamin, di cui il nostro è appassionato lettore; una materia potenzialmente infinita. Quello che lo frenava era il timore che il discutere in quelle pagine delle cose minime della propria esperienza potesse essere e/o essere giudicato come una forma di narcisismo di cui non importava nulla a nessuno. Implicitamente, quel timore solleva una questione letteraria e una psicologica.
Invitato, ormai è qualche anno, a parlare alla cerimonia di assegnazione dei diplomi in una qualche scuola americana (vado a memoria), Jonathan Franzen cominciò chiedendosi se gli organizzatori si fossero resi conto che chiamare a parlare uno scrittore (in particolare un romanziere) voleva dire avere un relatore che alla fine chiacchierava solo della propria esperienza, sperando che gli altri ne potessero trarre vantaggio. Non credo che le cose stiano proprio così, ma l’indicazione di Franzen è un’ottima approssimazione. Ognuno di noi, infatti, quando scrive, lo fa attraverso la propria cultura, la propria psicologia, se stesso, in sintesi. Perfino la semplice lettura di un testo scritto da altri è filtrata attraverso la precomprensione che si esercita anche solo implicitamente per quello che siamo. Hans Georg Gadamer ha scritto pagine illuminanti in merito. D’altra parte, però, uno scrittore che sia tale, cosciente di attraversare la propria esperienza e quella di chi gli sta intorno, cerca di enucleare (consciamente o inconsciamente ha poca importanza) quegli aspetti che possono avere una natura universale e quindi trascendono il caso singolo: il suo. Questo mi sembra distingua uno scrittore da uno scrivente – la classificazione è di Roland Barthes. Una volta che si riconosce uno scrittore si può poi discutere del grado di qualità che è a lui/lei pertinente, non prima, altrimenti si tenderebbe a perdere tempo.