Impertinenze: Martin Amis, L’attrito del tempo

«Se isolati, L’incantatore, Lolita e Cose trasparenti avrebbero potuto costituire una trilogia splendida ed estremamente inquietante. Ma non sono isolati; per effetto del numero e dell’iterazione, i romanzi nabokoviani sulla ninfolessia si contagiano e si contaminano a vicenda. Noi prendiamo quel che possiamo, pieni di riconoscenza, eppure…» (p. 21)

E lo dice prima di concludere che «Lolita, Pnin, e Disperazione (1936, tradotto in inglese dall’autore nel 1966) e quattro o cinque dei suoi racconti sono opere immortali» (p. 22). L’arte di Nabokov, come quella di Bellow, per Amis sono doni del genio, ma i risultati non sempre sono ferocemente compiuti. In questo caso, va da sé, non è tanto la ricorrenza di un tema a risultare poco riuscita, quanto il compiacimento con cui un autore di tale statura vi si abbandona.

Ma Amis è ricco di sorprese, non solo letterarie. Stupisce il lungo pezzo dedicato all’incontro con John Travolta nel quale ripercorre il crollo della sua carriera dopo gli indimenticabili trionfi giovanili, fino alla chiamata di Quentin Tarantino che come è noto lo riportò al successo con Pulp Fiction (aggiunge poi un commento sulle fortune alterne dei film successivi). In modo incisivo Amis fa emergere fra le righe la commovente ingenuità con cui Travolta guarda al proprio talento. Eccolo ricordare come, al termine di una serata, Tarantino vuotò il sacco:

«Mi fa: “Ma cosa hai combinato? Non te lo ricordi cosa ha detto di te Pauline Kael? Cosa ha detto di te Truffaut? Ma ti rendi conto di cosa rappresenti per il cinema americano? John, che cosa hai combinato?” La cosa mi ha ferito, ma anche commosso. Mi stava dicendo che ero stato una promessa incredibile del cinema. Sono uscito di lì con la coda tra le gambe. Ero distrutto. Ma ho anche pensato: Cazzo, evidentemente ero proprio bravo a recitare» (p. 169).

In Pornoland, uscito nel 2000 sulla rivista «Talk», Amis si impegna invece in un reportage da Malibu sul cinema pornografico. Incontra registi, si confronta con le tendenze cinematografiche più recenti e fa amicizia con Chloe, un’attrice specialista del genere «gonzo». La memoria di molti correrà a David Foster Wallace, al reportage del 1998 Il figlio grosso e rosso sugli Adult Video News Awards poi inclusonel libro Considera l’aragosta. Personalmente, di Wallace ammiro l’intelligenza, ma sono colpito soprattutto dalla vulnerabilità. In Amis prevale invece una sensibilità più scoperta e l’intuizione improvvisa, come in questo passaggio in cui chiama in causa Larkin:

Fisicamente, Temptress dà l’idea di una quindicenne vestita per il ballo. Quando parla non sembra timida, ma a guardarla si direbbe che lo sia. Con quei lunghi capelli lisci che si spinge continuamente dietro le spalle con un lento movimento delle mani, la faccia senza la patina dei cosmetici e gli occhi leggermente socchiusi, trasuda ciò che Philip Larkin chiamava «la forza e il dolore di essere giovani». Le chiedo un po’ della sua storia e lei racconta qualcosa. Una storia di forza e di dolore (e sicuramente anche di giovinezza: Temptress ha ventun anni). (p. 182)

Fra i vari reportage che il libro raccoglie, comprese le giornate trascorse a seguire le campagne dei repubblicani negli Stati Uniti, il più dirompente è senza dubbio Gli assassini menomati di Cali, Colombia, nel quale Amis racconta un mondo di brutalità insostenibile. Nei sobborghi della terza città di questo paese si compie il destino dei giovani trafficanti o killer di professione finiti sulla sedia a rotelle per la più umiliante e diffusa delle vendette: un colpo di pistola alla base della spina dorsale, che li rende impotenti e invalidi, costretti a mostrare agli altri la propria menomazione. Ragazzi che cominciano la loro carriera a dodici, tredici anni per consumarsi lungo un percorso che in molti casi non dura più di un decennio.

Amis ha il dono di saper affrontare con la stessa sensibilità nutrita di erudizione e spavalderia i casi più difficili come le persone più familiari: lo si vede nei saggi su Philip Larkin, il poeta inglese più amato del Secondo Novecento (e, bisognerebbe aggiungere, uno dei maggiori di questo secolo), amico di Kingsley Amis – padre di Martin – e uomo dalla giovinezza tormentata, dal carattere impenetrabile. Figlio di un antisemita filonazista e di una madre ossessivamente invadente, bibliotecario a Hull, scapolo, con poche frequentazioni e relazioni riconosciute, Larkin non poteva che essere fatto oggetto della curiosità biografica più indiscreta e di un percorso interpretativo che l’attenzione critica oggi riserva quasi di norma a chiunque abbia conquistato la fama, scandito in passaggi obbligati che prevedono, post mortem, la condanna definitiva, seguita da un eventuale, tortuoso percorso di riabilitazione. Qui, vista la statura dell’opera, non si poteva che attaccare la vita. Nel difendere la grandezza della poesia e l’umanità difficile – non priva di tratti meschini – del poeta, Amis conferma non solo una prevedibile acribia, ma un’argomentazione altrettanto inesorabile nel ricostruire e contestare punto per punto la reazione contro Larkin da parte di biografi e studiosi.

Un’altra prova di equilibrio si trova nell’intervento dedicato a Jane Austen. Già in The War Against Cliché Amis aveva dedicato uno splendido saggio a Orgoglio e pregiudizio, non incluso poi nella versione italiana. In quelle pagine si interrogava su due questioni che definiscono gli estremi dello spazio esplorato da questo romanzo, che è meglio ricordare. Il primo: il silenzio di Elizabeth nei confronti di Charlotte Lucas dopo il soggiorno presso di lei a seguito del suo matrimonio di interesse con l’incredibile impasto di vanità servile e autolesionismo rappresentato dal Reverendo Collins (dopo questa visita finisce infatti la complicità e l’intimità fra le due migliori amiche; e sembra che questo sia il prezzo che Charlotte deve pagare per la sua scelta). Secondo: la condotta nei confronti di Lydia dopo il matrimonio riparatore con Wickham e il loro trasferimento a Newcastle. Anche in questo caso si tratta di un isolamento, la pena inflitta a Lydia per la sconsiderata fuga d’amore con un uomo inaffidabile e per la moralità riacquistata solo retroattivamente. Elizabeth cercherà di supportarli con qualche donazione, talvolta ospiterà la sorella, ma non ci sarà mai un pieno reintegro nella famiglia. In entrambi i casi, i giudizi – notava Amis – non vanno imputati a Elizabeth ma proprio a Jane Austen.

Nell’Attrito del tempo, Amis illustra la struttura ricorrente dei romanzi dell’autrice, evidente al punto da spingerlo a sostenere che «tutti sono commedie nel senso classico del termine: parlano di giovani coppie che si avviano verso un festoso lieto fine, ovvero il matrimonio» (p. 342). In uno dei romanzi, però, la commedia funziona meglio.

«Orgoglio e pregiudizio ti frega. Sorprendentemente – e, a mio avviso, in modo unico nel suo genere – ti frega ogni singola volta. Anche adesso, aprendo il romanzo, provo la stessa attesa frustrata, nonostante l’abbia ormai letto cinque o sei volte. Come è possibile quando il genere stesso è garanzia di appagamento? La risposta semplice è che in questo libro gli innamorati sono davvero “fatti l’uno per l’altra”, e a farli così è stata la loro autrice. Sono costruiti l’uno per l’altra: destinati all’unione coniugale». (pp. 343-344)

Amis si interroga sulle riduzioni cinematografiche e televisive di Orgoglio e pregiudizio, soprattutto sulla monumentale serie della BBC (1995), muovendo qualche rilievo sul fedele adattamento scritto da Andrew Davies. Va detto che la serie, diretta da Simon Langton, rese definitivamente Colin Firth Mr Darcy, con un’identificazione così completa da rappresentare per gli inglesi quasi un equivalente di quella di Laurence Olivier con Amleto. Ma il punto non è neanche questo. Al di là delle osservazioni idiosincratiche e – come d’abitudine – penetranti di Amis, il pezzo viaggia a un ritmo superiore rispetto a quello di una semplice prova di critica letteraria perché è costruito con un espediente già di per sé degno di nota, ossia partendo dalla descrizione della serata in cui lui e Salman Rushdie andarono al cinema per seguire Quattro matrimoni e un funerale: disapprovandolo, nonostante il consenso unanime dei presenti in sala.

Sarà anche vero, come scrive Amis, che in qualsiasi decennio del dopoguerra, esclusi gli anni Novanta, un film come quello avrebbe provocato reazioni di «incredulo disgusto» per la mancanza di serietà e l’induzione a «fare il tifo per i ricchi», ma bisogna pur dire che questa edizione ridotta del mondo di Jane Austen, in cui il «sorrisetto» sostituisce l’intelligenza, ha offerto ai desideri del pubblico qualcosa che si allontana dal romanzo per ritornare verso una fiaba, appena corretta dal finale agrodolce. Del resto, credo che sia ugualmente indiscutibile che in nessun decennio del dopoguerra, esclusi gli anni Novanta, la speranza in un tenore di vita migliore sia cominciata a venire meno. Bisogna riconoscere che in certi contesti la fiaba incontra una ricezione più favorevole.

Ad ogni modo, con Amis non ci si può annoiare perché anche le riserve in questo libro mantengono una vivacità che ci riporta all’impressione iniziale. Capita, infatti, che, mentre è intento a conquistarci col risultato delle sue intuizioni, Amis osservi lo scrittore di cui parla – si tratti del suo amico Christopher Hitchens o di Don DeLillo – con una pietra in mano. Su Philip Roth, ad esempio, a cui riconosce di aver scritto almeno altri tre capolavori, oltre a Il lamento di Portnoy e La mia vita di uomo (ossia: Lo scrittore fantasma, La controvita e Pastorale americana), quando serve, come si dice, non la fa poi tanto lunga:

La nostra gang, scritto «in tempo tre mesi» è una satira triste e tutt’altro che divertente sull’amministrazione Nixon («Trick E. Dixon»?); Il seno, scritto «nell’arco di poche settimane», vede la trasformazione del protagonista in un’enorme ghiandola mammaria (un particolare davvero poco promettente); e Il grande romanzo americano, 382 pagine sul baseball, è l’esercizio di un hobbista nella spiritosaggine virtuosistica. Si può dire che sia stata una prova di coraggio da parte sua: in successione ravvicinata, 1971, 1972, 1973 Roth – chiaramente uno scrittore geniale – è riuscito a tirar fuori tre assoluti bidoni.

Per il lettore è una festa. Forse solo le parti sulla politica e sullo sport suonano leggermente inferiori, come se la passione si manifestasse con un tono meno acceso e lo smalto dello stile, steso su un soggetto troppo eterogeneo, non riuscisse a brillare. Gli ultimi pezzi, più composti, ritornano sui suoi standard: il ritratto di Christopher Hitchens («ognuno di noi è unico, ma Christopher era eccezionale»), la vita di Saul Bellow e le lettere di Nabokov a Véra in cui esprime la sua «esuberante venerazione» per la moglie, durata oltre mezzo secolo.

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