La ripartizione dell’onere fiscale a danno dei percettori di reddito basso è, al tempo stesso, (con)causa ed effetto della recessione in corso. E’ concausa perché attiva un doppio circolo vizioso.
1. La tassazione riduce la domanda interna e la riduce tanto più quanto più grava sui percettori di redditi bassi. Ciò a ragione del fatto che questi ultimi sono coloro che esprimono la più alta propensione al consumo. La riduzione della domanda, a sua volta, genera aumento del tasso di disoccupazione e conseguente perdita di potere contrattuale dei lavoratori, non solo nel mercato del lavoro, ma anche nella sfera politica. Il che rende possibili misure di ulteriore redistribuzione dell’onere fiscale a danno dei lavoratori (e a favore delle imprese, sotto forma di decontribuzioni). L’esito è recessivo e dannoso per le stesse imprese (almeno per quelle che vendono sul mercato interno) dal momento che, mentre gli sgravi fiscali consentono alla singola impresa di essere maggiormente competitiva, potendo praticare prezzi più bassi, l’aumento della tassazione sui redditi più bassi comprime i consumi, dunque i ricavi e i profitti monetari per la collettività delle imprese.
2. In più, la tassazione grava prevalentemente sul lavoro in ragione della concorrenza fiscale che i Governi sono indotti a perseguire per attrarre investimenti e per evitare delocalizzazioni. In altri termini, l’elevato debito pubblico frena la crescita perché comporta un aumento della tassazione prevalentemente a danno dei soggetti non mobili su scala internazionale e non creditori dello Stato: dunque lavoratori e piccole imprese. Il continuo aumento della tassazione sul lavoro riduce i consumi e la domanda interna. L’aumento della tassazione che grava sulla piccola impresa impedisce riduce la possibilità di fare investimenti per aumentare le proprie dimensioni e, dunque, la produttività. Si consideri, a riguardo, che la grande maggioranza delle imprese italiane è collocata nella fascia dimensionale 0-9 addetti ed esprime un valore aggiunto per addetto notevolmente inferiore a quello espresso dalla media europea delle imprese delle stesse dimensioni. Si consideri anche che le imprese manufatturiere italiane di medie dimensioni – nella classe 50-250 dipendenti – hanno una produttività del lavoro superiore alla media europea delle imprese delle medesime dimensioni.
La “rivoluzione fiscale” promessa dalla Lega va nella direzione di accentuare questa dinamica perversa, mediante l’adozione della c.d. flat tax (tassa piatta), una tassazione regressiva che fa pagare più tasse a chi ha redditi bassi.
La tesi governativa a favore dell’imposta piatta usa questi argomenti:
a) La tassa piatta contribuisce a semplificare il sistema tributario. Vero o accettabile. La contro-obiezione è banale: perché la semplificazione in quanto tale dovrebbe produrre crescita e maggiore occupazione?
b) La tassa piatta disincentiverebbe l’evasione fiscale. Mentre è plausibile ipotizzare che un inasprimento della pressione fiscale spinge verso una maggiore evasione, l’effetto contrario non è affatto certo, ovvero non è affatto certo che che abbassando le tasse diminuisca la propensione ad evaderle. La riduzione dell’organico dell’agenzia delle entrate non è una misura efficace per contrastare i profitti da evasione.
c) La tassa piatta incentiverebbe gli investimenti. E’ un argomento molto discutibile. Può essere sufficiente ricordare le rilevanti decontribuzioni accordate alle imprese negli ultimi anni, con effetti su crescita e occupazione pressoché nulli, per comprendere che si tratta di un effetto che potrebbe non verificarsi mai. Gli investimenti sono guidati dalle aspettative di profitto e queste ultime dalle aspettative in ordine all’andamento della domanda. Se i consumi ristagnano (e verosimilmente ristagneranno ancor più per effetto della maggiore tassazione sui redditi più bassi), vi è semmai da attendersi un peggioramento delle aspettative imprenditoriali e una riduzione – o un non aumento – degli investimenti.
Quest’ultima considerazione indurrebbe a operare in senso contrario, ovvero a detassare i redditi più bassi proprio al fine di accrescere gli investimenti. Vi è ampia evidenza, infatti, in merito agli effetti di ‘accelerazione’ che – a partire da un aumento dei consumi – generano incrementi del tasso di accumulazione. Né vale l’obiezione per la quale l’aumento dei consumi genererebbe un rilevante peggioramento dei conti con l’estero, dal momento che, come mostra l’evidenza empirica, l’Italia ha una bassa propensione alle importazioni e l’aumento degli investimenti pubblici, avendo effetti moltiplicativi molto alti, in larga misura si autofinanzia attraverso l’aumento del reddito nazionale e del conseguente aumento del gettito fiscale.
Se poi, come ripetutamente dichiarato da esponenti leghisti, la “riforma fiscale” che si sta preparando ridurrà l’incidenza della tassazione sul Pil (in continuo aumento dagli anni novanta), non si tratta di una vera rivoluzione: il provvedimento, infatti, si inquadra in pieno in una lunga serie di riforme del sistema tributario che lo hanno reso più ingiusto e che, rendendolo più ingiusto, hanno contribuito – soprattutto attraverso la caduta dei consumi e il rallentamento del tasso di accumulazione e dunque del tasso di crescita della produttività del lavoro – al declino di lungo periodo dell’economia italiana.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 13 giugno 2019]