Che cosa nasconde il palazzo baronale

In effetti, tutti i contributi presenti (impossibile citarli tutti, sono venticinque, e annoierei il lettore) sono fondati sullo studio di documenti di archivio, sicché i risultati della ricerca nel loro complesso appaiono scientificamente ineccepibili. Semmai, il limite di questo tipo di pubblicazioni è altrove, e cioè nel veicolare una concezione della storia parziale ed elitaria, tal quale l’oggetto che si propone di studiare: il palazzo signorile come espressione e rappresentazione delle vecchie classi dirigenti. Il lettore apprende moltissime cose sul passaggio dal castello al palazzo baronale tra XVI e XVIII secolo, quando il venir meno del pericolo esterno (mamma, li Turchi!) stimolò la formazione di un nuovo stile di vita nelle élites, e pertanto fortezze, torri merlate, bastioni, feritoie, fossati lasciarono il posto a balconi, balaustre, giardini di delizie, portali, scalinate scenografiche, e una miriade di decorazioni minori; ma nulla apprende della vita quotidiana che avveniva intorno al palazzo, della fatica degli uomini, delle condizioni spesso inumane di miseria nelle quali versavano i contadini tra l’indifferenza quando non lo spregio delle poche famiglie che la rivoluzione francese solo in parte spazzò via fin nei più remoti angoli d’Europa. La vita della gente comune è la grande assente da questo tipo di narrazione storica, come ammette senza troppe reticenze Mina Chirico, Le residenze aristocratiche del borgo antico di Taranto (pp. 130-141) quando accenna alla “gente comune in basso, lontana e ignara di quanto e di cosa si decidesse in quelle stanze a dieci metri dal vivere quotidiano” (p. 137).

Il palazzo è in effetti la massima espressione del vivere more nobilium, separati dal popolo, poiché “abitare vuol dire dimostrare fino in fondo chi si è e con chi ci si schiera” (p. 299), come scrive Antonio Cassiano, Simboli e allegorie nei cicli pittorici (pp. 294-307), a proposito del programma pittorico del palazzo Castromediano di Cavallino. E, a pensarci bene, leggendo questo volume, si finisce con l’ignorare non solo quando avveniva intorno e al di fuori del palazzo, ma anche quale fosse la vera vita che si conduceva all’interno di esso. Che cosa realmente pensavano e quali erano i comportamenti e i sentimenti che animavano le azioni dei nobili, a prescindere da quanto andavano ostentando nelle magnifiche architettute delle loro dimore e nelle pubbliche comparse autocelebrative. Insomma, che cosa avveniva davvero tra le mura del palazzo nobiliare?

Siffatti pensieri mi baluginavano nella mente, mentre leggevo il libro sulle residenze dei nobili salentini. Allora, ho riaperto un libro a me molto caro, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (quarta parte), dove lo scrittore siciliano descrive il palazzo di Donnafugata (chi voglia farsene un’idea, veda l’omonimo film di Luchino Visconti): un “palazzo nel suo complesso inestricabile di foresterie vecchie e foresterie nuove, appartamenti di rappresentanza, cucine, cappelle, teatri, quadrerie, rimesse odorose di cuoi, scuderie, serre afose, passaggi, anditi, scalette, terrazzine e porticati, e soprattutto di una serie di appartamenti smessi e disabitati, abbandonati da decenni e che formavano un intrico labirintico e misterioso”; sicché giustificato appare il “piccolo compiacimento” con cui Don Fabrizio, principe di Salina, “… soleva dire che un palazzo di cui si conoscessero tutte le stanze non era degno di essere abitato”. Tomasi ci mostra due amanti, Tancredi e Angelica, che esplorano, accompagnati sempre da Eros, “il quasi illimitato edificio” di Donnafugata, in tutto simile, mutatis mutandis, ai palazzi di Terra d’Otranto (i palazzi degli Imperiale, le residenze della famiglia Perez Navarrete, il palazzo Marchesale di Montemesola, le residenze dei Lopez y Royo, dei Pignatelli, dei Basurto, dei Granafei, ecc., di cui si parla nei diversi studi del volume che qui si recensisce). A un certo punto, i due amanti penetrano in una zona assai recondita del palazzo e fanno due scoperte: la prima è un appartamento settecentesco dove in un armadio, tra le altre cose, rinvengono numerose fruste – e Tomasi ha cura di precisare che “dopo il Gattopardo, a dire il vero, la frusta sembrava essere l’oggetto più frequente a Donnafugata” -, utilizzate da qualche nobile avo dei Salina in indicibili pratiche erotico-sadiche inflitte ai propri sudditi; la seconda scoperta avviene in un appartamento più interno, dove a metà del Seicento  – man mano che ci si addentra nell’edificio, infatti, si va a ritroso nel tempo – un antenato del principe, “Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle; nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice”.

Forse nel nobile sadico e in quello sadomaso di cui scrive Tomasi vi è più verità storica che in cento trattati di storia delle élites o di storia sociale. Tomasi ci parla di un duro e sanguinoso dominio, esercitato sugli altri e su se stessi fino ad eccessi parossistici e indicibili, che hanno fatto la storia dell’Italia meridionale, e rimangono inscritti nelle mura di ogni palazzo nobiliare, al di là delle sue belle apparenze. Ebbene, vorrei che le immagini dei due avi di Don Fabrizio che ho ricordato fossero sempre presenti nella mente del lettore, quando utilizzerà il volume sulle residenze nobiliari come guida, di castello in castello, di palazzo in palazzo, nei cento e uno paesi di Terra d’Otranto che andrà a visitare. Ché, viceversa, se ci si limitasse al compiacimento estetico, che il libro inevitabilmente sollecita e promuove, ci si priverebbe dell’esatta comprensione di quanto la storia d’Italia, alla svolta controriformistica, non smette di significare dietro la facies di severi e marziali castelli divenuti magnifici e sontuosi palazzi, edificati per la “gioia di vivere” delle vecchie classi dirigenti salentine.

[Recensione a Dal castello al palazzo baronale, a cura di Vincenzo Cazzato e Vita Basile, Congedo Editore, Galatina, 2008), “Il filo di Aracne a. IV – n. 2, marzo-aprile 2009, pp. 10-11.]

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