Fiabe 2. Il folletto

Venne allora celebrata una messa solenne nella chiesa matrice, ma anche questo rimedio si rivelò inutile. Lo sciacuddhi continuava ad imperversare.

Che fare? Non restava che rivolgersi all’Assuntina Ntignata, vecchia strega e prefica consumata. A lei si rivolgevano per malocchi, filtri e fatture gli abitanti del paese e dei dintorni.

L’Assuntina ascoltò il racconto dei Santomasi con un’espressione più fosca del solito, scuotendo il capo di tanto in tanto ed emettendo dei grugniti, non si sa se di approvazione o di disappunto.

Poi, dopo essere rimasta per alcuni minuti in silenzio con gli occhi di civetta persi nel vuoto, aprì la bocca sdentata e disse:

– Il caso è grave assai. Non basta un nuovo visitu e un’altra veglia funebre. Serve una cosa del morticino. Voi ce l’avete una cosa di vostro figlio?

– Tengo ancora le sue fasce e una fotografia – rispose l’Addolorata.

– Bene. Allora si può fare. Però non deve mancare nessun parente. Preparate una capaseddha e un tappo di legno di ulivo nuovi. Avvertite tutti. Parenti, amici, vicini, tutto il paese, come per un nuovo funerale. Venerdì a sera visitu con veglia notturna e sabato concluderò il mio intervento.

Non ci fu verso di farle accettare alcun compenso. Alle profferte di Nicola e Addolorata la vecchia fattucchiera replicò perentoria:

– Coi soldi non riesce!

Il venerdì seguente la casa dei Santomasi si riempì di gente come un uovo già dal primo pomeriggio. Un andirivieni continuo di persone di tutte le età che si alternavano nell’abitazione. Fuori stazionavano gli amici più intimi e i vicini di casa.

Al centro della stanza grande era stato messo un letto a mo’ di catafalco. Sulla pannetta ricamata a mano campeggiava la fotografia del piccolo defunto.

L’Assuntina diede una superba prova della sua sopraffina arte di prefica: sembrava che piangessero anche le pietre.

Decantando la bellezza e l’innocenza del morto e descrivendo nei minimi particolari ciò che avrebbe potuto fare se non fosse mancato tanto prematuramente, riuscì a commuovere non solo i parenti, ma persino quelli che erano intervenuti per pura curiosità, attratti dalla particolarità un po’ morbosa del caso singolare.

Le continue apostrofi alla madre del piccolo, di cui non si stancava di cantare l’immenso dolore con immagini e paragoni sempre nuovi, suscitavano ogni volta scoppi di pianto nella povera Addolorata. Lo strazio durò per due giorni.

Dopo la notte di veglia, alle tre del pomeriggio del sabato, l’Assuntina tirò fuori dalla cintola del fustianu una boccettina contenente un liquido misterioso dal colore indefinibile. Nel silenzio generale, con gesti lenti e ieratici, stappò lo boccetta e asperse le bende che avevano avvolto il morticino, tracciandovi sopra strani segni indecifrabili. Finito questo astruso rituale, si irrigidì come una statua di marmo, affissando gli occhi, inquietanti e neri più del carbone dell’inferno, ad un punto oltre l’uscio di casa, dove, insensibile a tutto ciò che la circondava, sembrava vedere uno spettacolo terrificante che si mostrasse a lei sola. Nel contempo dalla bocca sdentata, quasi per inerzia e contro la sua stessa volontà, le fluiva un’incomprensibile litania.

Nessuno osava aprire bocca. Attoniti, ascoltavano tutti col fiato sospeso e l’animo turbato quell’interminabile teoria di formule arcane che sembravano alternare i lamenti alle invocazioni.

Infine, la vecchia strega si riscosse, come se tornasse da un viaggio in lontane regioni misteriose note a lei solo. Prese la capaseddha, vi piegò dentro con cura le bende, la tappò e la diede all’Addolorata dicendole:

– Tienila sempre a sinistra della porta di casa. A sinistra, mi raccomando. Stai attenta: nessuno deve mai allontanarla da lì o spostarla a destra.

Quindi levò le braccia al cielo e disse: – Mo’ cquistate rigettu, picciccu beddhu, ca lu vadu ca te spetta te l’imu pertu.

Ciò detto, si avvolse il capo nello scialle nero e, solcando la folla degli astanti che facevano ala al suo passaggio, se ne andò via con una strana luce negli occhi e una compiaciuta espressione di trionfo dipinta sulle ragnatele del viso.

Addolorata pianse ancora per tutta la sera. Pianse così tanto che quando andò a letto si sentì come svuotata dentro, leggera, sospesa nel vuoto, e per la prima volta dopo tanto tempo si addormentò subito.

Non si seppe mai se lo sciacuddhi tornò più a premerle il petto.

[“Il Galatino” anno LII n. 10 -31 maggio 2019, p. 3]

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