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La lezione di Gianni Celati. In un tempo in cui nelle università italiane imperversano molti professori tanto mediocri quanto boriosi e nelle case editrici si fa per lo più marketing, in un tempo in cui l’invenzione non è più il sale della vita né alla vita si accompagna, Gianni Celati ci ha dato una lezione di grande saggezza e umiltà. Egli ci ricorda che noi siamo vermi della terra e nulla più, e che la scrittura non val nulla se non nasce da uno stato d’affezione e non porta a un cambiamento del lettore. Uno stato d’affezione è un’aderenza alle cose e alle persone tale da farcele comprendere intimamente (affezione deriva da ad-factum, un qualcosa fatto stando vicino a qualcos’altro); e questa vicinanza determina una metamorfosi che la scrittura deve indurre nel lettore, allo stesso modo che il lettore induce una continua metamorfosi della scrittura. Il rapporto tra lettore e scrittore è biunivoco.
La scrittura che noi leggiamo è come il cibo che noi ingeriamo ogni giorno; esso deve fornirci tutto ciò di cui ha bisogno il nostro corpo per vivere, ed è per questo che dobbiamo stare bene attenti a quel che ingeriamo, perché se non lo facciamo rischiamo di vivere intossicati (drogati) o di morire avvelenati. La buona scrittura è come il buon cibo, fa solo del bene e migliora la nostra intelligenza della vita. La cattiva scrittura ha l’effetto contrario.
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Perché si dorme? Mi sembra di capire che il sonno è il nostro modo di staccare la spina, isolandoci dal mondo, che ha un fortissimo potere di usura su di noi. Il sonno dunque agisce a salvaguardia della nostra salute. Per mancanza di sonno si può morire, come sa bene chi ancora usa questa tecnica di tortura. Tutto questo vuol dire che il mondo ci consuma lentamente, togliendoci le forze un po’ alla volta, giorno dopo giorno (è questo il cosiddetto invecchiamento). Avviene che il mondo piano piano riassorba la sostanza vitale che ci ha concesso di sviluppare dopo che siamo nati. Ornella, da me interrogata, mi ha detto che dormire serve per riprendere le forze. Quindi tutto avviene in questo modo: il mondo ci dà la forza, ma col tempo che passa se la riprende a piccole dosi quotidiane, consentendoci di trattenerla temporaneamente grazie al sonno, il quale funzione come un caricatore del cellulare. A un certo punto, però, questo caricatore si esaurisce e smette di caricare; così subentra la morte. Forse per questo i vecchi dormono poco, forse perché hanno il caricatore (il sonno) che si sta esaurendo.
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Dice F. Nietzsche a Carl Fuchs da Torino il 14 aprile 1888, in Epistolario 1018, cit. p. 603: “Come tutto fugge via! Come tutto si sgretola! Come si fa silenziosa la vita!”.
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Festa dei 18 anni in un frantoio seicentesco, una vera e propria nave, lunga cinquanta metri e larga quindici, con la volta a botte che scarica il suo peso su muraglioni laterali larghi due metri. Luci soffuse e musica a tutto volume: Michael Jackson e Madonna. Mentre tutti ballavano, vedo i fantasmi del passato aggirarsi tra i muraglioni, lu nachiru con la ciurma dei trappitari unti di olio, asini ciechi spingere grosse mole di pietra, ecc. Ho pensato che per noi moderni è tanto rassicurante festeggiare i diciotto anni di un adolescente in un frantoio restaurato; inscrivere una festa in un luogo antico dà l’illusione di partecipare di una continuità storica, di non essere soli a questo mondo, ma parti di un tutto che si dispiega nel tempo, l’illusione di venire da lontano con l’ambizione di andare lontano. L’aspetto celebrativo della festa si sposava benissimo con la location. Allora ho capito che questo è l’unico senso dell’antico che i moderni riescono a concepire, l’antico come un tempo remoto, piuttosto imprecisato quanto alla cronologia, che però rimane a fondamento della nostra vita poiché le dà un senso, una prospettiva, un significato, una certa importanza.
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Scrive Hans Magnus Enzensberger, Considerazioni del signor Zeta, Einaudi, Torino 2015, p. 101: “L’infinito esercita un’irresistibile forza di attrazione sui filosofi, sui teologi e sui matematici; anche i bambini più svegli, però, allenano la loro fantasia con l’idea che esista qualcosa che non finisce mai. Ma perché è più facile abituarsi all’infinito che alla finitezza? Perché sono pochissime le persone che accettano volentieri il fatto di essere mortali.”
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Ripenso all’ultimo incontro col mio vecchio professore di ginnastica, incontro avvenuto davanti a casa sua. La guardava contento dell’opera, come fosse la cosa più importante della sua vita, e mi parlava dei figli lontani, che avevano comparto casa altrove e non sarebbero più tornati. “A chi andrà questa casa?”, mi diceva preoccupato. Gli ho risposto: “Ora pensa a godertela!”. “Ma che dici?”, mi ha detto, guardando il cielo “io sono più di là che di qua”. E intanto Billi tirava il guinzaglio perché voleva proseguire la sua passeggiata nel quartiere. E allora ci siamo salutati.
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Gita sul litorale adriatico, tra Porto Badisco e Porto Miggiano, in compagnia di un geologo, ovvero come guardare le cose del mondo in modo diverso. Il geologo ti mostra le rocce e non ti parla di anni, di decenni, di secoli, ma di immense ere geologiche che durano milioni di anni, di eventi accaduti quando l’uomo non esisteva ancora sulla faccia della Terra; e tu capisci di essere un niente perché sei fatto di un tempo infinitamente piccolo rispetto a quello di cui ti parla il geologo. Allora, tutti i tuoi desideri, le tue pretese, le tue presunzioni cadono, il tuo io diventa un pugno di sabbia che non riesci a tenere in mano.
Questa considerazione non mi procura alcuno sgomento, tutt’altro, mi fa sentire più leggero, avendomi liberato dal peso della mia supponenza. Forse la geologia rimane un sapere specialistico, poco diffuso tra le persone, ed anche le pubbliche autorità dimostrano di non apprezzarlo molto, perché ci fa sentire la nostra insignificanza, la nostra scarsa importanza, e questo la maggior parte delle persone, e tanto più chi si considera potente, non lo tollera.
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Ricordo dei pomeriggi d’estate quando, per combattere la calura, mio padre sollevava la cornetta del telefono – magia della tecnologia – e chiamava Salvatore Ascalone, detto lu Totu, che subito inviava a casa nostra in apposito frigorifero portatile, a mezzo di garzone (lu vagnone), due spumoni, che mia madre divideva in quattro parti, una per ciascuno di noi. Questo avveniva di tanto in tanto durante l’estate della fine degli anni Sessanta, inizio dei Settanta. Grande contentezza di noi bambini nella camera da letto che si affacciava in Via Luce, dove trascorrevamo i pomeriggi senza dormire.
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La potenza dell’erba, contro la quale ha sempre lottato il contadino. Essa ha colonizzato la Terra molto prima di noi e crescerà sulle fosse dell’uomo quando l’uomo non ci sarà più. In campagna, un fazzoletto di dieci metri quadri di terra, dove era bruciata un catasta di legna, sprigionando una temperatura altissima. Non passano neppure quindici giorni, ed ecco che, dopo una pioggia, tra la cenere di quel fazzoletto di terra, rispunta l’erba, che il fuoco non aveva saputo distruggere.
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A proposito del mio nome. Pietro è il mio secondo nome, il nome del nonno paterno, che poi è anche il nome antico della città in cui sono nato, San Pietro in Galatina. A differenza, dunque, del mio primo nome, Gianluca, un composto tutto moderno con rarissime o nulle attestazioni antiche, Pietro è un nome con precisi riscontri genealogici e topografici. Eppure, quando una quindicina di anni fa mi convocarono all’ufficio anagrafe del Comune per propormi di rinunciare al mio secondo nome, in nome della semplificazione anagrafica, io rinunciai e quindi da allora la mia firma è semplificata: Gianluca Virgilio.
Ebbene, a dispetto di tutto questo, io considero ancora il giorno di S. Pietro (29 giugno) come il giorno del mio onomastico. Non che dia luogo a particolari festeggiamenti, ma certo ci faccio caso, mentre passa per me inosservato il giorno di San Giovanni e quello di San Luca. Che cosa vuol dire tutto questo? Che i nomi hanno una loro potenza evocativa, che prescinde dall’anagrafe. Il nome di una persona non è mai arbitrario, ma è legato a circostanze che gli conferiscono un preciso significato. Anche il nome Gianluca ha un senso: come ho detto, è un nome moderno, insolito, inusuale; è un nome col quale i miei genitori hanno voluto tagliare definitivamente le radici contadine delle loro famiglie proiettando il loro figlio nel futuro. Pertanto, se in Gianluca v’era il desiderio di un futuro migliore, in Pietro vi era il passato; e dunque la mia rinuncia al secondo nome è chiaramente interpretabile come l’ultimo, postremo taglio delle mie radici contadine.
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La baia di Gallipoli davanti a me, col mare increspato dal vento di sud-ovest, dietro di me la pineta coi suoi alberi curvi e sbilenchi, piegati dal vento. Il sole sta tramontando ed io penso che questo è stato per lunghi periodi il teatro della mia giovinezza, col mare illimitato, che, allora come oggi, poteva significare tante cose. Davanti a questo scenario, mi viene in mente che quello che noi chiamiamo amore altro non sia che un anelito verso l’impossibile, l’illimitato, una tensione ad infinitum, della quale nessun vivente può fare a meno. Forse esso coincide con il desiderio di vivere e di prolungare la propria vita al di là di noi stessi. Per questo l’amore non ha la natura pratica delle altre operazioni umane, ma giace silente nei corpi degli uomini, e solo qualche volta erompe improvviso e allora sembra che finalmente l’impossibile abbia luogo, inarrestabile e distruttivo come lava di vulcano che scorre nella pianura coltivata.
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Bisogna sempre ricordarsi del vaso di terracotta di Jacques Lacan, un vaso plasmato intorno al vuoto, immagine esemplare del nostro lavoro.
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Alla fine del mio zibaldone, potrei riportare quanto scrive Thomas Mann, Doctor Faust, Mondadori, Milano 1995 (traduzione di Ervino Pocar), p. 616: “Il mio racconto si avvia alla fine – come tutte le cose. Tutto precipita verso la fine; il mondo è sotto il segno della fine…”.
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Dal fornaio qualche volta incontro un signore, di una decina d’anni più anziano di me, il quale, quando avevo meno di quindici anni, mi restituì il portafoglio che avevo smarrito. Mi chiese: “Quanti soldi hai perso e quali banconote conservavi?”. Gli risposi sicuro, come fa il ragazzo che ha i soldi contati: “Tremila lire in sei banconote da cinquecento lire”. Mi sorrise e mi ridiede il portafoglio, raccomandandomi in futuro di fare attenzione a non perderlo ancora. Sono passati quarant’anni, ma ogni volta che rivedo quell’uomo, provo un senso di simpatia e di gratitudine e subito mi riconcilio con l’umanità.
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A proposito delle parole, ecco cosa scrive Virginia Woolf, Il mestiere delle parole, in Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello, Il Saggiatore, Milano 2011, p. 478: “Allora, forse, uno dei motivi per cui oggi non abbiamo grandi poeti, grandi romanzieri o grandi critici è che neghiamo alle parole la loro libertà. Le inchiodiamo a un unico significato, al loro significato utile; a quello che ci fa prendere un treno e che ci fa superare gli esami. E quando le parole vengono inchiodate a un unico significato, ripiegano le loro ali e muoiono.”