di Gianluca Virgilio
A Melfi, durante una gita. Ho toccato il sarcofago di Emilia Sauro, custodito in una sala del castello, ci ho passato sopra la mano fino a sentirne l’estrema levigatezza, la politezza del marmo; una materia immateriale, un corpo solido quasi diafano, che acquista il significato di una figura ossimorica, per mezzo della quale l’uomo antico raffigurava il suo desiderio di conservare un corpo amato, il sepolcro di una donna che il marmo avrebbe accarezzato, blandito per l’eternità. Dentro il sarcofago, il cadavere decomposto in materia inerte, sopra il sarcofago, la donna recubans, di una materia sublime, fatta per dare l’illusione di una speciale immortalità. Una figura priva d’ogni passione, immota da duemila anni. Dice la guida che solo un miliardario dell’epoca poteva permettersi un sarcofago del genere per la donna amata. L’arte degli scultori, dunque, ha lavorato per rispondere a questa richiesta, per confermare questa illusione. Ed io stesso rimarrei per sempre legato a questa illusione, se non mi fosse chiaro che da tempo questa è già fuggita dal buco praticato sul lato destro del sarcofago dai bramosi contadini che un giorno, arando un campo, lo ritrovarono, e credettero di trovare un tesoro.
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“Come l’opera effimera del mio
Miraggio, dilegueranno le torri
Che salgono su alle nubi, gli splendidi
Palazzi, i templi solenni, la terra
Immensa e quello che contiene; e come
La labile finzione, lentamente
Ora svanita, non lasceranno orma.
Noi siamo di natura uguali ai sogni,
La breve vita è nel giro d’un sonno
Conchiusa.”
W. Shakespeare, La tempesta, IV, I vv. 151-156 (trad. di S. Quasimodo).