di Paolo Maria Mariano
Il gesso tracciava formule sulla lavagna. L’aula era abbastanza piena. L’inverno scorreva verso la primavera. Per fare una pausa chiesi se qualcuno leggesse narrativa con qualche non trascurabile frequenza. Si alzarono solo due mani.
Immagino – e spero di sbagliarmi – che se fosse stato un corso di letteratura e avessi chiesto quanti tra gli studenti avevano nozioni di meccanica teorica, la risposta sarebbe stata analoga, o forse avrei visto meno mani alzate.
È la questione delle “due culture”, della separazione cui siamo portati da impressioni superficiali, dal desiderio di difendere il territorio, di controllare la vertigine provocata dall’ampiezza della conoscenza e, soprattutto, dal sentore della vastità delle terre ancora incognite. Tendiamo a chiuderci, a restringere lo sguardo solo a un giardino noto e ai sentieri che da lì si biforcano, per sentirci sicuri di quanto valiamo o della posizione che occupiamo.
Gli scopi degli studi umanistici e di quelli scientifici (e qui mi riferisco soprattutto alla costruzione di modelli matematici della natura) ci appaiono differenti, almeno nella loro percezione ingenua. Così sono diversi gli stilemi. Differente è la tipologia dei risultati. Quelli che definiamo scientifici hanno duplice natura, qualitativa e quantitativa; da essi ci si sforza di ottenere previsioni verificabili. Gli altri hanno carattere eminentemente qualitativo: riguardano l’essere umano nella sua interazione emozionale con il mondo e nella definizione della sua dignità.
Se insistiamo, però, a soffermarci solo sulla separazione tra i due ambiti, rischiamo di trascurare le loro connessioni, dovute alla natura della creatività e del processo di conoscenza in se stesso.