L’odore della guerra

Qual è l’odore della guerra? Si tratta dell’odore del napalm nel primo mattino? O forse è quello della polvere che si posava a Hiroshima dopo la caduta di quell’unica bomba? O è quello di quell’altra polvere che si posava su Varsavia distrutta, sui fuscelli che cercavano di ricrescere qua e là tra le pietre, sul cappotto dell’uomo barcollante che avanza lungo una strada spazzata dal vento, attonito tra le rovine che a stento emergono dal suolo? È un’immagine sempre riproposta nel filmato d’epoca che proiettano a Varsavia nell’ufficio dei ricordi della distruzione, poco lontano dal Palazzo Reale, ricostruito, dove la domenica si suona musica classica e in maggioranza sono gli adolescenti che vanno a sentire. Non è lo stesso tipo di polvere: la prima era radioattiva, l’altra no, ma era sempre il residuo di distruzione e di uccisione.

Se si riuscisse a individuare in qualche modo a me ignoto un “odore della guerra”, potrebbe quest’ultimo “far percepire la situazione”, come diceva pressappoco la signora a chi la intervistava? Potrebbe, in altri termini, farci sapere del dolore, della disperazione, della perdita della ragione, del tradimento, dell’omicidio e del suicidio, della bramosia di guadagno, del delirio di potere, del sacrificio, dell’impeto ideale, della perdita dell’ideale, della malattia e della morte, della cecità, della perdita dell’udito, della riduzione a brandelli? Potrebbe parlarci dell’immagine di Robert Capa che ritrae il soldato che muore, dell’attesa, dell’onore e della mancanza di onore, del rispetto, dell’omicidio, della psicopatologia quotidiana, della volontà di sottomettere gli altri, del rumore assordante delle bombe, della pazzia? Potrebbe un odore farci percepire gli occhi sbarrati dei bambini mentre le case cadono e intorno a loro avanza la morte? Potrebbe, mi chiedo, riuscire mai a “far percepire” proprio la guerra?

Talvolta si dicono frasi enfatiche su temi essenziali, sulle cose ultime. Paiono frutto dell’illusione, dell’aver soltanto orecchiato qualcosa, senza il minimo approfondimento, senza la riflessione e lo studio necessari. Talvolta qualcuno scrive anche questo tipo di frasi nell’ebbrezza che porta attirare l’attenzione o, forse più spesso, in una pronunciata incoscienza.  E si crede che basti poco per mettersi in vista, inseguendo un’illusione di preminenza, una prova di personale esistenza, lasciando talvolta declinare anche la dignità, come una falena che presto si spegne.

[“Il Galatino” anno XLVIII n. 9 del 15 maggio 2015]

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