di Paolo Maria Mariano
L’Esposizione Universale, EXPO 2015, è stata inaugurata a Milano ed è stata pubblicizzata in maniere molteplici da eventi fausti e infausti, i primi spesso di non trascurabile garbo, gli altri emersi forse dal senso di potere che dà la devastazione e la fuga dalla responsabilità su di essa. Servizi televisivi sui vari padiglioni sono frequenti. Tutti cercano di evidenziare i modi con cui i vari paesi hanno inteso il tema dell’esposizione: la distribuzione e la tutela delle risorse alimentari. Quando mi capita di intravederne qualcuno mi soffermo con sincera curiosità. La visione genera interesse e motivi di riflessione. Una volta, però, ha provocato (almeno in me e per quello che può valere) un qualche sussulto, improvviso, lieve, un aggrottare di ciglia. La telecamera stringeva su un’immagine non particolarmente estesa nello spazio: un muro incompleto, costruito con pietrisco inserito tra due reti metalliche, un modo di interpretare con le conoscenze di oggi l’idea dell’opus incertum dell’architettura imperiale romana. Una signora animata da sincero entusiasmo, convinta del proprio lavoro, illustrava quella piccola porzione di padiglione evidenziando la versatilità di quella tecnica costruttiva utile per interventi d’emergenza, per così dire, nei paesi in via di sviluppo. A un tratto, forse pensando d’aumentare l’interesse degli spettatori per quell’istallazione, la signora, gradevole nell’eloquio fin lì, chiese d’un tratto all’intervistatrice se riuscisse a percepire quello strano odore che c’era in quel luogo. “Sa! Si tratta dell’odore della guerra. L’abbiamo inserito per far percepire la situazione ai visitatori.” Cosa?! Che cosa, di grazia, voleva intendere quella signora fin lì apparentemente consapevole?
Mi chiedo, cioè, che cosa intendesse per “odore della guerra”. Che sia l’odore della salsedine a Salamina, o quello del sudore dei cavalli e dei soldati in armatura di un tempo, o quello dell’olio bollente che cadeva dagli spalti, o l’odore del sangue, delle viscere e degli escrementi nelle città d’Europa durante la guerra dei trent’anni?
Qual è, di grazia, l’odore della guerra? Può essere l’odore del fango del sangue e della neve sulla frontiera del Piave, quello del vomito dopo un assalto alla baionetta, quello della nafta dei carri armati nel deserto ai tempi di Rommel e di Montgomery o a quelli dell’Iraq? Che sia l’odore dei forni a gas dei campi nazisti? Ma quel gas aveva odore? E se non l’aveva c’era l’odore della paura. E che odore ha la paura?