Una lunga fedeltà

Diciotto anni dopo, Antonio Prete ci ha poi dato Finitudine e infinito (1998). Leopardi aveva detto: “L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario” (Zibaldone, 171). Prete chiosava: “l’indefinito ha una funzione vicaria nei confronti dell’infinito, è in un certo senso il suo illusorio addomesticamento, la sua terrestre pronunciabilità. Figura di una prossimità visibile-invisibile, laddove l’infinito è figura dell’assoluta lontananza e dell’inimmaginabile.” (Finitudine e infinito, p. 38-39). Sono questi passaggi, rapidi come meteore luminose, che rendono prezioso uno scrittore, perché in poche righe ti riassume una questione e te la chiarisce e non la dimentichi più.

Oggi ho sotto gli occhi Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (2004), edito dall’editore Donzelli. Prete vi raccoglie scritti, interventi, relazioni già editi in varie sedi dal 1998 al oggi, chiudendoli tra una breve Premessa, nella quale dichiara la sua lunga fedeltà a Leopardi (“Leopardi è presenza costante nei miei studi, nella mia vita” p. IX) e una Postilla conclusiva, nella quale l’indagine si sposta in quella zona di confine dello Zibaldone che si apre dopo il 14 ottobre 1827, data in cui Leopardi conclude la stesura degli Indici del suo Zibaldone, a ridosso dell’ultima grande stagione poetica.

Entro questi confini, e sempre rimanendo fedele all’assunto principale del primo libro, Il pensiero poetante, Prete ci dà numerosi squarci della migliore esegesi leopardiana, laddove analizza lo stilema ridenti e fuggitivi del celeberrimo verso Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi(A Silvia), di cui egli non ritrova l’eguale in tutta la letteratura italiana ed europea (e sì che si avvale del magistero di Letterature comparate). Nei due aggettivi rinviene “l’annuncio del bagliore e l’ombra del declino” (p. 11), “la leggerezza del sorriso e l’ombra della transitorietà” (p. 15). Sono pagine di una bellezza incomparabile, dove rifulge il significato più profondo della poesia leopardiana nelle metafore della primavera (“quegli occhi sono di Primavera” (p. 21), del giardino, dei fiori recisi, del fiore dal deserto, immagini di una felicità impossibile e tuttavia sempre perseguita,  con l’ostinazione di chi non si arrende, ma al nulla oppone la pienezza corporea dell’essere, al deserto il profumo di un fiore (la Ginestra).

Prete indugia poi sulle Operette morali e riflette sul suo particolare rapporto con questo libro: “Qualche volta un libro, nella vita di un lettore, diventa una presenza insieme discreta e costante, e dalle sue figure, dai suoi pensieri, muove la meditazione sull’esistenza dei singoli e dell’universo, sull’orizzonte di senso, o sul vuoto di senso, che costituisce tutto quello che chiamiamo vivente. E tuttavia, allo stesso tempo, ad ogni nuova lettura, quel libro, pur nella sopravvenuta familiarità e prossimità, mostra una crescente resistenza nel dispiegarsi, quasi una ineludibile opacità: dietro il ventaglio delle forme e delle idee, si intravede, ogni volta, un paese per così dire ombroso, chiuso nelle sue iridescenti e negate lontananze. Questo libro dalla presenza assidua e avvolgente ha, per me, il titolo di Operette morali.” (p. 27).

Sebbene le Operette siano un’opera che non si lascia facilmente afferrare e rinchiudere in una definizione, Prete dà prova di come una lunga fedeltà possa suggerire definizioni illuminanti: nelle Operette morali agisce “un  pensiero interrogativo, che pone domande ultime” (p. 28), in esse è “una gaia scienza che ha come anima il dolore del vivente” (p. 29); “ogni operetta è una passaggio verso questa immersione dell’esistenza – del singolo, degli uomini, della terra – in una lontananza che non è solo frantumazione dell’antropocentrismo, ma è anche, e soprattutto, sconfinata apertura sull’enigma” (p. 32). Indimenticabile la definizione di Tristano, “cavaliere del nulla, un cavaliere che (…) non ha né stendardi né corazze, e non ha neppure una meta: attraversa infatti un deserto che è privo anche di miraggi” (p. 42); il deserto: “sarà da questo momento in poi l’orizzonte dell’interrogazione poetica leopardiana” (p. 44).

Dichiaro la mia predilezione per le pagine dedicate allo Zibaldone, laddove, citando la lettera di Leopardi a Carlo Lebreton di fine giugno 1836 (“…je n’ai jamais fait d’ouvrage, j’ai fait seulement des essais en comptant toujours préluder…”), Prete definisce i confini dello Zibaldone, “figura del pensiero leopardiano” (p. 50), nella quale “davvero è messa in questione (…) l’idea compiuta, omogenea, restaurativa di opera” (p. 50). Lo Zibaldone riunisce la forma-essai (narrazione, critica, esegesi, indagine morale, curiositas, ironia, journal intime, teoresi, erudizione, meditazione, eccetera) con la forma del preludio, che “invita a guardare dalla soglia della parzialità e del non compimento le sconfinate regioni dell’inconoscibile” (p. 55). Ritrovo qui alcune pagine che Prete ci ha donato qualche tempo fa per il n. 2 di “Zibaldoni e altre meraviglie” (prima serie) e argomenti che aveva esposto a braccio in un suo intervento a Frascati il 31 gennaio scorso, durante il primo convegno della rivista. Ripenso al suo arrivo trafelato all’ingresso delle Scuderie Aldobrandini, dove ci eravamo dati appuntamento per le 10.00. Alle 10.30 non era ancora arrivato, e allora decidemmo di mandare qualcuno in albergo per svegliarlo: si era attardato a letto per smaltire il sonno perso la sera prima nelle lunghe conversazioni con gli amici. Ma Prete fu il primo a parlare e ci disse molte cose che ora rileggo con piacere.

Belle sono anche le pagine sulla Filologia fantastica e sulla traduzione e, infine, tutta la seconda parte del libro intitolata Nella selva meravigliosa dello Zibaldone, che raccoglie le sei prefazioni agli altrettanti volumi dell’edizione tematica dello Zibaldone curata da Fabiana Cacciapuoti  (Donzelli, Roma 1997-2003); sulla quale ci sarebbe da chiedersi se non sia anti-zibaldoniana un’operazione che unifica nella forma del Trattato o del Manuale o della Teorica quanto Leopardi aveva raccolto sotto i suoi Indici senza poi dar luogo a nessuna di queste opere, pur avendo tutto il tempo per farlo. Egli sapeva che la forza del suo “smisurato manoscritto” risiede proprio nel non essere un’opera, nel non poter essere ridotto a opera/e. Ma queste prefazioni di Prete, così accostate, servono bene allo scopo di segnalare all’interno dello Zibaldone dei lunghi sentieri: sono il Trattato delle passioni, il Manuale di filosofia pratica, Della natura degli uomini e delle cose, Teorica delle arti, lettere ec. Parte speculativa, Teorica delle arti, lettere, ec. Parte prastica, storica ec., Memorie della mia vita. Non c’è spazio per diffondersi sugli innumerevoli incontri che si possono fare seguendo i percorsi all’ombra dello Zibaldone. Ed è certo che la compagnia di Prete che ci guida per questi sentieri è impagabile. Leopardi fa dire a Eleandro nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, che “se alcuno libro morale potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i poetici: dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente”. Ebbene, da questo punto di vista il libro di Prete è un libro poetico; e questo spiega non solo la lunga fedeltà di Prete a Leopardi, ma anche la mia a Prete.

[Recensione a Antonio Prete, Finitudine e infinito, Feltrinelli, Milano, 1998 e ad Antonio Prete, Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi, Donzelli, Roma, 2004), pubblicata dapprima in www.zibaldoni.it, seconda serie; poi ne “Il Galatino” di venerdì 12 novembre 2004, p. 3.]

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