Esistono davvero vocazioni ‘naturali’ dei territori?

I problemi del turismo nel Mezzogiorno sono fondamentalmente i seguenti:

  1. con le dovute eccezioni, è il settore – insieme a quello agricolo – nel quale maggiormente si concentra il lavoro nero, la disoccupazione nascosta (fenomeno per il quale, soprattutto nelle imprese a gestione familiare, esistono unità di lavoro formalmente occupate ma con produttività nulla), la sottoccupazione intellettuale, che riguarda numerosi studenti universitari – o laureati – che, non trovando in loco un’occupazione conforme alle conoscenze acquisite o in via di acquisizione nelle aule universitarie ottengono (bassi) redditi lavorando in strutture ricettive. In più, anche in considerazione delle piccole dimensioni delle unità produttive è un settore nel quale è alta l’elusione e l’evasione fiscale. 
  2. La carenza di infrastrutture, soprattutto ma non solo di trasporti, che si è accentuata, in termini relativi, negli ultimi anni, soprattutto a seguito della drammatica riduzione degli investimenti pubblici al Sud.
  3. E’ poco presente, nel Mezzogiorno, il turismo congressuale e ciò è imputabile al maggiore definanziamento delle sedi universitarie del Sud, per le quali è evidentemente più difficile (anche per la carenza di finanziamenti privati) organizzare convegni con ospiti non italiani.
  4. La bassa qualità dell’offerta, che dipende, in larga misura, dal fatto che in numerosi casi gli imprenditori turistici non hanno specifiche competenze nella gestione e nell’organizzazione delle strutture ricettive (si pensi alla conoscenza di lingue straniere). Ciò dipende da numerosi fattori, non da ultimo il continuo aumento del tasso di disoccupazione e la caduta dei redditi nel Mezzogiorno, che incentiva trasferimenti dall’agricoltura (o da altri settori) al turismo, ritenuto più redditizio. Si tratta di mobilità intersettoriale del lavoro che, di norma, coinvolge unità familiari, in gestioni ad alta intensità di lavoro, ma con bassa produttività. Il turismo è, in altri termini un settore ‘maturo’, nel quale le innovazioni – di processo o di prodotto – si rendono pressoché impossibili e ancora più difficili in unità produttive di piccole dimensioni e a gestione familiare.

Poiché le dinamiche turistiche risentono di effetti di apprendimento e di imitazione (coloro che per primi visitano un’area a vocazione turistica stabiliscono la sua qualità, trainando o disincentivando ulteriori visitatori), la bassa attrattività del Mezzogiorno – o la sua attrattività sempre più limitata a fasce di reddito medio-basse – rischia di generare fenomeni cumulativi, per i quali dopo un’iniziale massa consistente di arrivi segue una fuga altrettanto generalizzata. Un’ulteriore criticità – messa in evidenza, con riferimento al Salento, dalla Camera di commercio di Lecce – consiste nella forte stagionalità dei flussi turistici.

L’adagiarsi sulla convinzione che il Mezzogiorno possa crescere tramite attrazione di flussi turistici ha fatto perdere l’attenzione rispetto a potenzialità di sviluppo ben più promettenti, rispetto alle quali sarebbe stato opportuno agire tempestivamente. Ci si riferisce, in particolare, alla cosiddetta nuova via della seta, un progetto del Governo cinese – avviato nel 2013 – per il finanziamento di infrastrutture di trasporto e logistica che rendano più rapidi gli sbocchi commerciali in Europa delle produzioni cinesi. Trieste e Genova sono, i porti che l’attuale Governo italiano ha selezionato per questa operazione. Sul piano tecnico, la motivazione è in buona misura inoppugnabile: si tratta di scali con retroporti sufficientemente attrezzati per una rapida immissione delle merci nel mercato. Sul piano politico, si tratta di un’ennesima sconfitta delle classi dirigenti meridionali, che non hanno visto (o non hanno voluto o potuto vedere) che il potenziamento della logistica al Sud – per esempio mediante l’ammodernamento delle infrastrutture di trasporto che collegano i porti di Bari, Brindisi, Taranto ai mercati di sbocco delle produzioni orientali proprio nella fase della loro massima espansione – è un fondamentale fattore di crescita economica e dell’occupazione.

Ridimensionare la tesi dominante per la quale il Mezzogiorno può crescere solo assecondando le sue vocazioni ‘naturali, e riproporre una strategia di lungo periodo di aumento degli investimenti pubblici configurerebbe una radicale inversione di tendenza. Nel 2009 gli investimenti pubblici al Sud ammontavano a circa 21 miliardi; nel 2019 a circa 10 miliardi: una decurtazione di oltre il 50% in un decennio, in una macroregione nella quale vive il 34% dei residenti in Italia. L’ultima Legge di Bilancio ha introdotto la clausola per la quale il 34% della spesa per investimenti deve essere realizzata nelle regioni meridionali. Si tratta, al momento, di poco più che una promessa e non è chiaro quali debbano essere le priorità.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 21 maggio 2019]

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