di Rosario Coluccia
Alla fine dell’ultimo numero della serie estiva ho preso l’impegno di rispondere ai quesiti dei lettori, se non a tutti almeno a quelli più stimolanti e di interesse generale. Ne scelgo uno che viene dal prof. Giovanni Bernardini di Monteroni, ultranovantenne; il professore scrive a mano, con una grafia nitida e ordinata. Più che una domanda è un’osservazione: «Quanto al regresso del congiuntivo, forse è accettabile nel parlato, ma mi sembra che impoverisca lo scritto, salvo rare eccezioni. Condivide?».
Condivido, e aggiungo qualche riflessione. La questione è importante, ne trattano spesso i giornali, ne discutono alcune grammatiche, con posizioni diverse. Gli osservatori più pessimisti arrivano a dichiarare che il congiuntivo sta scomparendo, soprattutto nel parlato. Sarebbe questo il motivo: ai parlanti il congiuntivo appare difficile da gestire (i linguisti dicono che è poco economico) e quindi viene sostituito con l’indicativo.
Negli anni novanta del secolo scorso ebbero molto successo un libro e un film che decretavano fin dal titolo «Io speriamo che me la cavo», invece di «Speriamo che me la cavi» (o, più correttamente, «Speriamo di cavarcela»). In quella frasetta l’indicativo la faceva da padrone e c’era pure un mancato accordo tra soggetto («io») e verbo («speriamo»). Insomma, un tipo di italiano che segnalava le difficoltà linguistiche che incontrava quel simpatico gruppo di ragazzi napoletani. Ma il fenomeno è generale. Nella lingua di oggi non sono infrequenti frasi come «credo che non hai capito», «non voglio che fai storie» (sarebbe meglio dire, e soprattutto scrivere: «credo che tu non abbia capito», «non voglio che tu faccia storie»). Il regresso del congiuntivo è evidente, anche in soggetti dotati di buona cultura; oltre che nelle oggettive (come abbiamo appena visto), si manifesta in particolare nelle interrogative indirette: «non so se questo è vero», e nelle ipotetiche dell’irrealtà: «se venivi prima, ti dicevo tutto».