Voltarsi, perderti, per vivere ancora. Euridice di Roberto Vecchioni

Comincia la risalita. E Orfeo è il primo dei tre. Dietro di lui Euridice insieme a Ermes, il messaggero degli dèi, che è lì per controllare che Orfeo mantenga il patto che ha fatto con il dio dei morti, che non si volti indietro se non dopo essere uscito dal lugubre antro pieno di ombre. Orfeo procede e i suoi sensi sono divisi: “mentre l’occhio in avanti correva come un cane” – scrive Rilke nella sua versione del mito – l’udito è rivolto ai passi che crede di percepire dietro di sé, i passi dei due che sono proprio lì (devono essere lì), pochi metri indietro. Si illude di sentirli, ma forse è solo il fruscio del vento. E se nessuno lo stesse seguendo? Cosa darebbe per potersi voltare solo un momento, solo per avere la certezza che Euridice stia risalendo con lui in superficie. Nella versione tradizionale del mito, Orfeo si volta perché la curiosità lo uccide, perché è tormentato dal dubbio e, anche se dal buco infernale si intravedono i primi raggi del sole e mancherebbe veramente poco per conoscere la verità, il suo istinto gli dice di voltarsi. Ma proprio nell’istante in cui si volta, Euridice è perduta. Questa volta per sempre. Non ci sarà più canto che commuoverà il dio dell’Oltretomba. Nell’esatto istante in cui Orfeo si volta, Euridice inverte il suo passo, torna là dov’è il suo posto, tra le ombre.

Ma è stato davvero per istinto che Orfeo si è voltato? Secondo Vecchioni, quella di Orfeo è una scelta consapevole. Si volta perché, mentre mette un piede dietro l’altro, ha il tempo di pensare che, anche se Euridice dovesse tornare tra i vivi, nulla sarà più come era prima. Perché lei è morta e il nero della morte contrasta con i colori che ci sono fuori, il calore del sole contrasta con il gelo che le ha preso la vita. Basterebbe voltarsi per cancellare lo sforzo di aver trionfato sul sovrano del sottosuolo. E Orfeo si volta. Compiendo un atto di volontà, sceglie deliberatamente di abbandonare la sua sposa negli Inferi. Dal Regno dei morti riemerge un nuovo Orfeo, non più vittima di un istinto o di una debolezza ma fruitore consapevole della propria facoltà di riflettere e del proprio libero arbitrio. Per questa conclusione, Vecchioni si ispira alla versione del mito data da Pavese in Dialoghi con Leucò: “Orfeo: E’ andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani il Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscio del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò che è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima ; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò che è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi: “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolio, come d’un topo che si salva.”

È un momento. Il tempo di quella decisione dura il lampo di uno sguardo. Tutto finisce per volontà di Orfeo che sa che non basterà il sole per scaldare il corpo ormai gelido della sua Euridice la quale, come un topo che si rifugia nel sicuro fetore della sua tana, torna laggiù, tra le ombre. In seguito Orfeo, nei Dialoghi, rivela a Bacca: “L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore”: insieme ad Euridice, Orfeo cercava negli Inferi la giovinezza. Però, si rende conto che quello che si è perduto non può più tornare.

Nel testo di Vecchioni Euridice viene lasciata nell’aldilà perché il ritorno non comporterebbe meno sofferenza della perdita. Ritornare non significherebbe rivivere, perché Euridice non è già più.

“Tutto quello che si piange/ non è amore” canta Orfeo: non sta abbandonando la sua sposa, non la sta uccidendo ma sta solo rifiutando un’ulteriore sofferenza. Se la riporta in vita dovrà comunque perderla un’altra volta, perché Euridice – e anche lui – dovrà tornarci ancora nell’Ade, quel posto appartiene a lei come a tutti gli esseri effimeri e mortali. Quello di Orfeo è un dolore destinato a rimanere inconsolabile, come è inconsolabile il dolore delle madri che compaiono nei primi versi della canzone, che guardano i propri figli allontanarsi e li sanno già morti nel momento in cui li lasciano andare. Non appena li perdono, si imprime nei loro occhi l’immagine delle navi dalle vele nere sulle quali torneranno cadaveri. Quello che accomuna Orfeo a queste madri è l’amore che spinge a lasciare andare chi si ama per permettere che si compia un destino. Voltandosi, Orfeo sceglie di non sottrarre la sposa amata al Fato. Nel soffio d’aria provocato da una testa che si volta, Orfeo accompagna Euridice lontano da lui. Trattenerla sarebbe un atto di egoismo, come quello delle madri che trattengono disperatamente a sé i figli.

Nell’atto di voltarsi, Orfeo sceglie l’inizio di una nuova vita, fatta di gioie che non ha ancora assaporato, una vita che lo attende fuori, della quale inizia a sognare non appena intravede il “primo barlume di cielo”.

[“Clinamen” n. 7, aprile 2019]

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