Voltarsi, perderti, per vivere ancora. Euridice di Roberto Vecchioni

di Adele Errico

Con furia e dolcezza nella voce, canterà finché non avrà più fiato in gola. Canterà per un’umanità che insegue la vita pur consapevole che non si può trattenerla, per creature mortali che, destinate a diventare barlumi di ricordo, altro non sono che lacrime nella pioggia.

Canterà per un amore che un dio infernale gli ha portato via, per un viso che ha perso e che non può più voltarsi a guardare.

È l’Orfeo di Roberto Vecchioni che, nella terza canzone dell’album Blumun, intitolata Euridice, dona la propria voce al mitico cantore della Tracia perché narri la sua catabasi.

È musica dentro la musica Euridice di Vecchioni, canto dentro la canzone, è il cantautore che racconta il cantore. Il mito di Orfeo e Euridice giunge in questa canzone attraversando i racconti che diversi autori ne hanno fatto, da Euripide a Platone, da Virgilio a Ovidio, da Rilke a Pavese. Vecchioni racconta di un Orfeo che muore di paura mentre inizia la sua discesa nel regno dei morti, che si lascia la luce del sole dietro le spalle tremanti per immergersi tra le schiere di anime che scorrono silenziose nel buio dell’antro infernale. Armato solo della sua cetra, incarnata nella sua mano come un ramo è attaccato all’albero, si avventura ad affrontare “il maledetto padrone del tempo che fugge” e sembra non riesca a smettere di cantare perché solo il canto riesce a dargli la forza necessaria per riportare in vita lei, Euridice. Euridice e i suoi occhi. Euridice e le sue mani. Euridice che è prigioniera degli dei degli Inferi e vaga e striscia in mezzo a quelle schiere di anime. Allora Orfeo canterà e suonerà la sua cetra più forte finché il re dei morti piangerà, perderà, scoppierà e le cederà Euridice che potrà tornare tra i vivi. Ai vivi appartiene Euridice e tra i morti non ci può stare. Perché sapeva amare, perché da quando lei è andata via i fiori non crescono più e aveva solo vent’anni quando un serpente l’ha uccisa.

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