«E quanto costa la prenotazione?»
«Quattro euro».
Perfetto. Faccio un cenno a mia moglie, che già aveva colto lo scopo del dialogo (del resto, la sera prima era stata proprio lei a insistere che andassi a visitare un museo). Poi la saluto. Buon convegno. Ed entro agli Uffizi in tempo zero (ripeto: zero). Ma non è tutto: salito subito al secondo piano, scopro di essere ancora quasi solo. Un’unica elegante visitatrice giapponese cammina dieci metri avanti a me. Il corridoio è magnifico. Altro che niente Uffizi. Se vi capita, andateci. Non avete diritto ad alcuna riduzione? Fatelo comunque, e se potete – ad esempio se non siete in gruppo, altrimenti il conto comincia a salire – pagate la prenotazione perché abbatte davvero il tempo di attesa. Vale anche per chi non è appassionato d’arte, per chi non sente l’esigenza di aggiornarsi (e per cosa, poi? Quanto valgono gli Uffizi oggi in una conversazione al bar? Tre minuti di attenzione? Secondo me molto meno). Io non sono lì solo per il «Tondo Doni», o per uno degli ultimi autoritratti di Rembrandt. Sono entrato anche per osservare la gente dietro di me, che in breve arriva. I primi sono i membri di una comitiva orientale con guida: fotografano ogni quadro ma, quasi incomprensibilmente, non la didascalia con la descrizione e la contestualizzazione storica bilingue, in italiano e in inglese. E dall’atteggiamento non mi sembrano storici dell’arte: guardano i quadri come se si trattasse di mere evidenze materiali. Sì, lo so, la foto costituisce il loro attestato di partecipazione, forse anche una certificazione della loro esistenza, ma penso che la guida, conoscendo i suoi connazionali, farebbe un buon servizio a dirlo col tono cordiale che dedica al commento di poche opere. Preso da un incomprensibile impulso pedagogico – che mi scatta davanti alle testimonianze di tanto ingegno – per tentare di far capire la cosa, do il buon esempio, di fronte all’Annunciazione di Simone Martini. Due di loro mi seguono e scattano la foto con curiosità, poi mi guardano con gratitudine; gli altri, via di corsa. Compreranno il catalogo? Internet basterà? Mah. Insomma, gli Uffizi valgono sempre la pena. Ma niente sindrome di Stendhal e suggestioni simili. Andateci. Tutta quella gloria dice semplicemente che l’arte è una pratica, e che è ancora possibile.
All’uscita, sul retro della Galleria, ho di nuovo in mano il progetto della giornata: mi rendo conto, però, di avere impiegato (bene) più di due ore. Così ritorno al proposito iniziale, ossia quello di un giro alternativo, ma sono ancora scosso, non posso impegnarmici subito. Scendo invece sul Lungarno a osservare il fiume, prendere un po’ di sole e guardare, in alto, la chiesa romanica di San Miniato al Monte che mi piace e a cui non potrò permettermi di salire. L’intonaco ocra è la nota dominante delle case, il contrassegno della veduta che si abbraccia sul Lungarno. Mi fermo a osservare i passanti: spagnoli, asiatici, qualche americano, anche tre italiane con un’amica bruna che porta in testa un velo da sposa (sono lì per il suo addio al nubilato). Le foto sono tante, ovviamente, ma i selfie mi sembrano in calo, lo erano anche al museo. Dico sul serio.
Ritorno sui miei passi per risalire verso il B&B e qui, andando di poco oltre, seguendo i consigli imbocco sulla destra, parallela alla strada del nostro alloggio, Via Borgo degli Albizi (con l’accento sulla “A”, mi dicono). Non che ci sia tanto da vedere, ma dopo un po’ si fa strada un’impressione di normalità cittadina che in centro a Firenze è rara e che qui si scopre in alcuni negozi (di scarpe e di pelletteria, naturalmente, che sono ovunque ma che qui mi sembrano più a misura d’uomo che di turista). Arrivo in Piazza di San Pier Maggiore, una piccola piazza dall’apparenza quasi ordinaria, non fosse che per i resti della chiesa che le ha dato il nome e che campeggia davanti a me: tre archi, due dei quali chiusi dalle case, il terzo – la navata centrale – divenuto un vicolo. Anche qui, negli esercizi – un bar, una macelleria – fingendo di interessarmi ai dettagli mi fermo invece a osservare il lavoro, lo sforzo quotidiano che la gente fa per cercare di star meglio. Un che di onesto e per questo di autentico (per una volta l’ordine è questo). Certo, pensare che questa piazza sia un’immagine perfetta della felicità, come sostiene l’amico, è un’invenzione strepitosamente inverosimile. Ma l’atmosfera conta: chissà quanti tesori è possibile scoprire in questa materia, mi dico, seguendo le varie fughe nelle lastre della pavimentazione. In effetti, una pasticceria pochi metri più avanti, anche questa segnalata, a tale proposito risulta quasi decisiva. Dai dettagli esterni, una vecchia porta degli anni Ottanta, un’insegna anonima, poco lascerebbe intuire la qualità fuori del comune che invece dentro si può assaggiare. Prendo un budino di riso (lo scopo era quello di provarlo per mandare al diavolo il mio amico e i suoi consigli: ma qui non ci riesco).
Allora proseguo in questa perlustrazione che mi allontana dal centro, fra l’orribile edificio delle poste e altre case, fino a sbucare poco dopo in un’apertura a destra davvero inattesa, una loggia intonacata con i colori ocra chiaro e mattone, e davanti un piazzale, quasi un piccolo parco. Una decina di persone sedute sui gradini. Davanti, un chiosco di libri usati, con molti libri d’arte, una sezione dedicata alla collana Harmony – sotto una ventina di volumi dei fratelli Delly – e a fianco un’altra con la scritta «libri a prezzi vari». Più avanti ancora, a destra, finisco nel consigliatissimo mercato di Sant’Ambrogio, non molto affollato. Le bancarelle esterne all’edificio coperto non colpiscono, se non per un’Ape car parcheggiata di traverso, poco dietro a quello che sembra un sedile di automobile divelto e lasciato momentaneamente a terra. Due dettagli che danno un tocco di esotico. C’è un po’ di gente, ma ci si muove con facilità: il mercato è vivo, con pochi turisti. Così faccio un giro, mi fermo a guardare i banchi della frutta con «l’angolo della mela» e quello del pane cotto a legna; un altro, più grande, è coperto interamente di arance. Seguo anche le persone che entrano ed escono dall’edificio del mercato coperto. Ma è tardi, devo rinviare la visita all’edificio e tornare indietro in modo da arrivare all’appuntamento del pranzo. Taglio quindi a sinistra: Santa Croce è lì a due passi.
Ci si arriva in pochi minuti. E penso che sia comunque il caso di andarci, non per le urne dei forti (sì, anche per quelle), ma soprattutto per la piazza, splendida se inquadrata con la chiesa alle spalle, stando in fondo ai gradini e con poche persone davanti. Verso sera, o la mattina presto, la pulizia delle facciate mostra riflessi inediti. Una volta ci sono arrivato poco dopo una leggera nevicata, pieno di aspettative, come sempre, ma non per cercare una conferma, più che altro per capire la persistenza nel tempo di qualcosa di riuscito, per cercare di strappare un’interpretazione al luogo comune. Farò qualche foto, mi dico, sperando che non ci sia troppa gente. Ma di colpo capisco che il problema non è la gente: la piazza è occupata quasi per intero dai nuovi autobus blu con motore ibrido dell’Ataf – l’azienda di trasporto urbano – disposti a spina di pesce: siamo all’inaugurazione. In un angolo, palco, maxischermo, un centinaio di persone e autorità impegnate nei discorsi di rito. Salgo i gradini della chiesa e mi metto sotto il monumento a Dante. Seguo un po’ l’evento, che non deroga al protocollo abituale se non per effetto del vento, che rende i discorsi a tratti incomprensibili. Gli autobus presenti saranno almeno una ventina. Vorrei sedermi un attimo, ma poi non mi sembra il caso.
Pur sapendo che ci potrò restare poco, entro in Santa Croce dopo aver pagato una cifra non indifferente (Euro 8,00, niente riduzioni), che considero un’offerta di buon augurio. Mi siedo e osservo le capriate della chiesa, che in quel momento ha pochi visitatori. Un tempo i luoghi di culto servivano ai fedeli anche a questo, ossia a riposare, a imporre una tregua alle fatiche quotidiane. Un giro alle tombe e agli affreschi di Giotto, poi esco verso la Cappella Pazzi davanti alla quale rimango in silenzio.
Poco dopo, prendendo a sinistra, costeggio l’edificio della Biblioteca Nazionale fino alla facciata, all’ingresso principale. Dato che ho ancora qualche minuto, decido di entrare e chiedere un duplicato della tessera che ho smarrito a Trento. Appena dentro vorrei andare a destra, verso l’ufficio accoglienza, ma una donna mi dice con tono dispiaciuto che, essendo sabato, l’ufficio ha già chiuso (alle 12:30 per l’esattezza). Lei mi sembra singolarmente immobile: sul suo viso compare a poco a poco un misto di cortesia e di una particolare forma di soddisfazione più umile e quotidiana, simile a quella che si prova dopo aver mangiato un budino di riso come il mio. Solo che lei non sta mangiando un budino di riso. E sono le 12:31. Resto così un istante a osservare l’atrio e la guardiola. Poi fiero, per così dire, di queste constatazioni, esco e mi siedo sui gradini, di fronte all’Arno e al sole. Sopra di me, lo striscione della mostra E tutto sembrava possibile. Il ‘68 in Italia fra realtà e utopie, di cui per fortuna non mi ero neanche accorto. No, Firenze è un posto da riscoprire in termini di nuove esperienze, più che la meta di un pellegrinaggio laico per chi ha concluso ogni ordine di scuola. Basta fare una scoperta, non di tipo erudito, un’intuizione sensibile, una delle tante che si possono fare a ogni metro anche solo camminando sul selciato sconnesso.
Ad esempio, un ambulante mi viene incontro cercando di vendermi, fra le altre cose, un piccolo ombrello pieghevole. È qui che riconosco la grandezza: non c’è una nuvola in cielo. Sarebbe troppo facile limitarsi agli accendini o al bastone per i selfie. In questo suo azzardo, totalmente incongruo e per questo grande, si mostra qualcosa dell’essere al mondo. Attenzione, non sta tentando di vendermi la Fontana di Trevi, come nella celebre gag – e il prezzo dell’ombrello è quello corrente, perfino meno caro che nei negozi di souvenir – ma, ripeto, non c’è una sola nuvola. Per questo il suo gesto merita una ricompensa, perché dice qualcosa del modo in cui tiriamo avanti.
Seduta a due metri da me una ragazza bruna mangia un panino tenendo in mano il cellulare. Ho fame anch’io: guardo il telefono, ma non ho ancora ricevuto risposta. Nel frattempo, leggo uno dei giornali che ho comprato. Poi sfoglio anche l’altro e l’inserto allegato. Al riparo, potrebbe dirsi una bella giornata. Arriva infine anche la risposta: il convegno va per le lunghe.
Mi fermo ancora un po’ perché vorrei arrivare fino a Palazzo Pitti sotto il sole (ecco l’unico giro a cui ho costretto mia moglie la sera precedente), ma alla fine vince la fame, cedo ai consigli e torno sui miei passi. In circa un quarto d’ora sono di nuovo al mercato di Sant’Ambrogio. Entro nell’edificio ben conservato, ma un po’ piccolo (niente a che vedere, ad esempio, col mercato di Padova). Osservo soprattutto le salumerie, e al centro una sorta di trattoria stipata di persone a cui si legge in faccia l’orgoglio di chi è riuscito a trovare posto. Mangiano di gusto, il clima è rilassato. Esito un po’, fra l’altro noto che in giro qualcuno sta cominciando a pulire il banco. Fra mezz’ora si chiude.
Lo so che il mio posto è questo. Eppure, nonostante il mercato sia accogliente, non ce la faccio a restare: sì, certo, stanno chiudendo, ma la ragione è che da solo ho troppo poca forza per entrare in sintonia con i presenti. Fra tanta cordialità, mi sembra difficile custodire l’isolamento che mi permette di conservare il malumore a cui da qualche giorno tengo aggrappato il mio equilibrio, perciò esco e comincio a guardarmi attorno sul perimetro esterno, meglio di quanto non abbia fatto in precedenza. Qui, al di là di un ristorante di prestigio e di un bistrot, mi colpisce soprattutto un locale piccolissimo dall’insegna in latino, con una decina di clienti in piedi in strada: a dire il vero, mi colpiscono loro. Che ci sia un casting? Occhiali da sole, cappotti – non ce n’è uno che porti un giubbotto – barbe e vino rosso in grandi calici da degustazione. Donne con gonna pantalone al polpaccio e scialle avvolto sopra il cappotto. Ogni dettaglio mi sembra studiatamente convenzionale. Discutono – per me in modo allarmante – di cinema e di libri: mi guardano, quando passo loro davanti con giaccone blu, zaino, borsa piena di giornali, occhiali da sole, sciarpa e berretto in testa. Ma va bene così. Per fortuna dalla stessa parte, trenta metri più avanti, trovo un panificio-pizza-al-taglio dove posso finalmente prendere una focaccia farcita. Mangio in piedi, appoggiato alle transenne poco fuori del negozio. Vicino a me, due studenti spagnoli si sono presi tre tranci di pizza a testa. Li vedo contenti nel discutere della loro normalità universitaria.
Mi trovo a mio agio, ma rifiuto la convinzione che l’autenticità stia tutta da questa parte. Lo sforzo per migliorare, a cui pensavo in San Pier Maggiore, frequentemente accarezza soprattutto un miraggio privato. Una coppia incrociata poco prima: lui con scarpe da ginnastica da duecento euro, lei che parla dei sandali di Jimmy Choo (del resto, «Sono sempre un investimento», come dice un’amica di mia moglie). Cercavano la loro BMW, più che la frase giusta. Così torno di nuovo verso il Lungarno. Il vento si è alzato, ora dà proprio fastidio. Mi rifugio fra le colonne della sede della Camera di Commercio e aspetto. Quando mia moglie finalmente esce, proseguiamo a destra per camminare lungo il portico che passa sotto il corridoio vasariano: la sua regolarità è perfino commovente ma, arrivati al Ponte Vecchio, giriamo dall’altra parte, ossia ancora a destra, per risalire.
Ammetto poi di averla portata: in piazza Santa Maria Novella di sera, per rinnovare una vecchia impressione: verificata. In un ristorante nei pressi di piazza degli Ottaviani, niente male. La mattina dopo, di nuovo in piazza San Pier Maggiore, perché anche lei voleva vederci chiaro: siamo d’accordo. Fa ancora freddo, perciò niente avventure fino a piazzale Michelangelo e dintorni, peraltro già perlustrati in altre occasioni. Uscendo dal B&B ho l’impressione che anche l’immagine rinascimentale, divenuta per il turista interscambiabile con mille altre immagini e quindi irrilevante, non costituisca più una testimonianza storica di paralizzante forza monumentale. C’è questo, di buono, almeno per me: resta un incoraggiante esempio di misura.