- Altri economisti ritengono che l’Unione sperimenti un problema di squilibri commerciali, ovvero che – data la diversa struttura produttiva fra Paesi del Nord (Germania e Olanda innanzitutto) e Paesi periferici – questi ultimi fanno registrare sistematici disavanzi delle partite correnti: ovvero importano più di quanto esportano. La tesi fa riferimento a questa sequenza di eventi: i Paesi del Sud Europa sperimentano tassi di inflazione più alti dei Paesi centrali (per effetto della maggiore crescita dei salari monetari rispetto al tasso di crescita della produttività del lavoro); da ciò segue il deterioramento della competitività delle loro esportazioni, dunque minore crescita, minore entrate fiscali, maggiori interessi sui titoli per finanziare il debito e un più alto rapporto debito pubblico/Pil.
L’evidenza empirica sembra smentire questa tesi, almeno per quanto riguarda il confronto Italia-Germania: non si è sempre registrata maggiore inflazione nei Paesi periferici – Italia in questo caso. La minoreinflazione nei Paesi periferici – in particolare a partire dal 2012 – è fondamentalmente dovuta a maggiore moderazione salariale, anche a fronte di un più basso tasso di crescita della produttività del lavoro. I più bassi salari nei Paesi del Sud si spiegano con diversi fattori, fra i quali le più accelerate politiche di precarizzazione del lavoro, la più elevata tassazione sul lavoro dipendente, la maggiore restrizione del credito (e dunque i minori investimenti privati) e la maggiore presenza di imprese di piccole dimensioni (di norma, le piccole imprese pagano salari più bassi ai loro dipendenti rispetto alle imprese di più grandi dimensioni).
Va poi rilevato che il dato risente dei divari regionali italiani. L’andamento dei salari al Sud è notevolmente più basso di quello che si registra nelle regioni del Nord, le quali, soprattutto a partire dal 2014 (anno nel quale si avvia una modesta ripresa della crescita in Europa, trainata da un aumento delle esportazioni), sono, in larga misura, strutturalmente legate – attraverso rapporti di subfornitura e catene globali del valore – al grande capitale tedesco e dei Paesi satelliti. Si calcola, a riguardo, che gli indici della produzione industriale di Italia e Germania sono correlati per oltre l’80%, definendo, di fatto, un’area economica pienamente integrata che comprende l’industria tedesca e i distretti produttivi (anche) dell’arco alpino italiano. In tal senso, quella che viene definita crisi dell’Eurozona è semmai crisi dei Paesi periferici e, nel nostro caso, soprattutto del Mezzogiorno. Le imprese italiane più grandi localizzate al Nord hanno tassi di crescita della produttività superiori a quelli delle imprese tedesche e sono legate al capitale del Nord Europa in modo strutturale, configurando l’esistenza di una macroregione alpina nella quale sono presenti le imprese maggiormente innovative e più competitive sui mercati internazionali. Sul piano formale, occorre ricordare che la macroregione alpina esiste dal 2013, a seguito dell’accordo di Grenoble e che, per l’Italia, ne fanno parte la Provincia autonoma di Bolzano, il Friuli Venezia-Giulia, la Ligugia, la Lombardia, il Veneto, il Piemonte, la Valle d’Aosta e la Provincia autonoma di Trento. L’accordo di Grenoble formalizza l’esistenza di un nuovo soggetto istituzionale inter-statale (con Austria, Francia, Germania Liechtenstein e Slovenia) che, per quanto attiene all’Italia, si pone il duplice obiettivo di acquisire maggiori finanziamenti europei soprattutto per il settore della formazione e di rivedere la Costituzione italiana in funzione della creazione di Macroregioni autonome.
Si può, dunque, provare a spiegare la crescita delle divergenze nell’Eurozona facendo riferimento a questi nessi.
- La maggiore moderazione salariale nell’Europa del Sud genera minore inflazione; la minore inflazione produce riduzione del Pil nominale e un aumento dei tassi di interesse realisui titoli di Stato, generando crescita del debito/Pil.
- La maggiore moderazione salariale non ha avuto effetti apprezzabili sulle esportazioni per l’operare di meccanismi di competitività non di prezzoo anche per il cosiddetto effetto Veblen. In altri termini, data la nostra specializzazione produttiva basata su settori tecnologicamente maturi (al netto del residuo comparto dei macchinari, della chimica, farmaceutica e componentistica auto), i prodotti italiani sono acquistati all’estero o per la loro migliore qualità – effettiva o percepita (si pensi ai beni alimentari) – o per il loro prezzo elevato (per i beni di lusso, un prezzo alto è un segnale di esclusività del prodotto).
- La maggiore moderazione salariale ha drammaticamente ridotto la domanda interna, penalizzando soprattutto la gran parte delle imprese meridionali che vende su mercati locali. Il capitale del Nord ha reagito accelerando la spinta secessionista legandosi alle aree economicamente più dinamiche del continente.
Seguono due conclusioni. In primo luogo, è semmai la maggiore moderazione salariale italiana (non quella tedesca) all’origine del modesto andamento delle nostre esportazioni. In secondo luogo, è la forte moderazione salariale italiana una delle principali cause dell’aumento del nostro debito.
E’ vero che l’architettura istituzionale europea è disegnata in modo da tener bassi i salari, ma è anche vero che la politica economica italiana dei trascorsi decenni (e ben prima dell’adozione dell’euro) ha fatto molto più, molto più incisivamente e molto peggio rispetto a quanto fatto in altri Paesi europei per quanto riguarda le politiche del lavoro. E purtroppo questi processi sono in larga misura irreversibili.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 27 aprile 2019]