Che si sa di certo allora di Domenico Lopresti? Che era nato a Pizzo di Catanzaro nel 1816 (cinque anni quindi dopo Castromediano) e che venne condannato a trent’anni di ferri dalla Gran Corte Speciale dell’Aquila il 14 giugno 1851 per attività antiborbonica. Dal 1851 al 1859 scontò la condanna nei Bagni penali di Procida, Montefusco e Montesarchio, gli stessi dove, negli stessi anni, fu recluso anche il patriota salentino. Nel 1859 la pena residuale gli fu commutata nell’esilio perpetuo dal Regno e successivamente gli venne condonata. Dopo la liberazione, durante un viaggio in vapore, rischiò di cadere nelle mani della polizia papale a Civitavecchia ma riuscì a raggiungere Livorno, minacciando di buttarsi in mare. Nel 1860 venne inviato in Calabria per stringere accordi con i comitati insurrezionali sorti per facilitare la marcia di Garibaldi. Lopresti morì a Torino, dopo essere stato direttore di dogana, il 3 maggio 1887.
Fin qui i dati biografici forniti da Attilio Monaco[7]. A questi e ai pochi altri segnalati dalla Nozzoli si possono aggiungere quelli contenuti in un libro di memorie di un altro patriota meridionale, Nicola Palermo, intitolato Raffinamento della tirannide borbonica, ossia I carcerati in Montefusco[8], derivante da una serie di articoli apparsi su “La Nazione” di Firenze e ben conosciuto anche da Castromediano che lo cita nel Proemio alle sue Memorie[9]. L’autore è stato uno dei detenuti nelle carceri borboniche insieme al duca di Cavallino, a Lopresti, Carlo Poerio, Nicola Nisco, Michele Pironti, Cesare Braico e a tanti altri. Ebbene, Palermo, oltre a menzionarlo un paio di volte, così ne parla in un brano del libro: “Sventura maggiore spettò all’infelice Domenico Lopresti. Egli, graziato, non poté godere di sua libertà. Or ridotto all’estrema miseria geme in un Criminale della prefettura, e presso a perdere, ahimè! la vista. Invano protesta: invano implora d’esser curato in uno ospedale: nulla ottiene; nulla pietà è per lui”[10].
Ai dati biografici reali la Banti aggiunge ovviamente tutto il resto, facendo di Lopresti un indomito cospiratore che, ormai avanti negli anni e malato, ripensa agli episodi fondamentali della sua vita manifestando profonda delusione per la sconfitta degli ideali per i quali, lui e quelli della sua generazione, avevano combattuto. Si è già detto, a questo proposito, che il romanzo si inserisce nel filone narrativo del Risorgimento tradito che conta, fra gli altri, sui nomi illustri di Verga, De Roberto e Pirandello, nonché in quello della memorialistica risorgimentale (da Settembrini a De Sanctis fino appunto a Castromediano, Palermo, Braico, ecc.)[11].
Altri elementi per la caratterizzazione del protagonista aggiunti probabilmente dall’autrice sono, ad esempio: l’affiliazione, da giovane, alla setta dei “Figlioli della Giovane Italia” fondata da Benedetto Musolino e la partecipazione alla disfatta garibaldina dell’Aspromonte. Insomma una figura di “rivoluzionario impenitente”[12], come si definisce lo stesso Domenico nel libro, repubblicano e “sincero democratico”[13], una sorta di Che Guevara dell’Ottocento insomma – potremmo dire – tanto per citare uno dei più famosi rivoluzionari dei nostri tempi (ucciso, guarda caso, proprio nel 1967, l’anno di pubblicazione del romanzo!).
In una intervista rilasciata a Grazia Livi, la Banti confessò che per la ricostruzione della vita di questo suo antenato si era basata sulle lettere da lui inviate, le quali peraltro non sono mai state rintracciate[14]. Quello che è certo è che, come scrive la Nozzoli, “la principale fonte storica, almeno per le parti relative alla prigionia del protagonista”[15] è rappresentata dalle Memorie del duca di Cavallino, menzionate nel romanzo e delle quali la scrittrice – ci informa sempre questa studiosa – annota gli estremi bibliografici in una copia delle Ricordanze del Settembrini, conservata nella sua biblioteca presso la Fondazione Roberto Longhi[16].
In effetti, nell’opera di Castromediano, il nome di Domenico Lopresti ricorre in quattro occasioni: nell’elenco dei prigionieri che provenivano dal Bagno di Procida, dove viene definito “benestante, pure calabrese”[17]; in un altro elenco dei trenta detenuti che vengono trasferiti a Montesarchio[18] ; in un brano in cui, col nome sbagliato di Antonio, si informa che era rimasto nel carcere di Campobasso[19] e infine nel passo seguente nel quale si danno ulteriori informazioni che coincidono, grosso modo, con quelle date da Palermo, citate poc’anzi:
E sarebbe anche una colpa non fare almeno un cenno fugace di Domenico Lopresti, giovine anch’egli ben educato, colto e distinto. Uscito di galera, fu ritenuto altri sette mesi nelle più malsane ed oscure prigioni di Napoli, tra gli stenti e le privazioni, e corse pericolo di perdervi gli occhi, senza che gli arrecassero soccorso: malattia che lo aveva minacciato anche a Montefusco[20].
Ma se Lopresti ha un ruolo tutto sommato trascurabile nelle Memorie e il suo nome non compare nemmeno una volta nelle lettere di Castromediano[21], quest’ultimo invece assume una posizione centrale nella narrazione della Banti, al punto che si può considerare una sorta di deuteragonista del romanzo almeno in quella parte riguardante gli anni di detenzione di Domenico e dei suoi compagni nelle carceri borboniche. E proprio la figura di Castromediano mi propongo di analizzare nel presente contributo per vedere in che modo questa figura sia stata rielaborata dalla Banti in Noi credevamo e che funzione essa svolga da un punto di vista narratologico.
S’è detto che le Memorie costituiscono la fonte principale della scrittrice, almeno relativamente agli anni della prigionia. Nessuno però finora ha messo a confronto quest’opera col romanzo. Ebbene la Banti segue passo passo la narrazione del patriota salentino a partire dalla detenzione nel bagno penale di Procida fino al trasferimento prima a Montefusco e poi a Montesarchio, riprendendo vicende, episodi accaduti dentro e fuori queste carceri, a volte anche minimi e trascurabili, descrizioni di luoghi, di fenomeni atmosferici (ad esempio un temporale, un terremoto), riflessioni di carattere politico, ma rielaborando il tutto in maniera originale e funzionale alla rappresentazione del protagonista. Ma su questo confronto mi riprometto di ritornare in un’altra occasione. Ora soffermiamoci sul romanzo e sulla figura del duca di Cavallino (o Caballino, come preferisce scrivere la Banti sulla stessa sua scia).
Il primo accenno a Castromediano riguarda proprio l’intenzione da lui manifestata già in carcere di stendere le proprie memorie, che secondo Lopresti è, in generale, un compito assai difficile, in quanto, a suo avviso, il memorialista non può esser sincero fino in fondo:
Esser stato testimone e vittima di soprusi e tirannie non libera da una magari inconscia auto compiacenza e dalla tentazione di tacere le debolezze, le meschinità che ogni uomo, in ogni condizione, inevitabilmente commette. Chi racconta la propria vita non dovrebbe, secondo me, mirare che al proprio meticoloso e spietato ritratto, per riconoscersi e non scendere nella tomba ignoto a se stesso come fu nascendo: deve dunque esser capace di rintracciare minuto per minuto le sue azioni e le reazioni degli altri. È un compito difficile, forse impossibile[22].
E proprio questo egli confessa apertamente al duca durante un colloquio, dal quale emerge il primo lieve dissenso tra i due:
Non mi son mai creduto un tipo fuor del comune, ma sospetto di essere sempre stato una persona imbarazzante e persino irritante. Temo di esserlo stato anche in carcere e rammento l’impaccio del buon Castromediano quando gli dissi che per parlare di Montefusco e Montesarchio, bisognava raccontar tutto, e non tacere le cose meno onorevoli per noi. Anche lui intendeva scrivere le sue memorie e forse l’ha fatto, sebbene non ne abbia più notizia. Mi chiedeva di aiutarlo a ricordare certe circostanze della comune e disumana cattività: e io gli dichiarai come la pensavo. Chi di noi, aggiunsi, può vantarsi di non aver commesso piccole viltà? Io come gli altri… M’interruppe scuotendo la testa e cambiò discorso[23].
Ma più avanti Lopresti-Banti delinea il ritratto, fisico e spirituale del duca di Cavallino esemplato, come suggerisce la Nozzoli[24], sulle pagine di Paul Bourget, che figurano in calce alle Memorie, ma anche, a mio avviso, su quelle di Nicola Palermo, che forse è un’altra fonte per la scrittrice[25]. Ed è quando si trovano ancora nel Bagno di Procida, la prima tappa del loro lungo peregrinare nelle galere borboniche:
Usciti all’aperto sulla terrazza del castello ci fu comandato di sostare e fu allora che lo sguardo mi cadde su Sigismondo Castromediano. Durante i grigi mesi di Procida lo avevo appena avvicinato, ma non per i motivi che mi distaccavano dagli altri politici. L’antichissimo prestigio della sua casata, l’autenticità del suo titolo, peraltro portato con modesta dignità, mi facevano temere di notare in lui qualche pregiudizio nobiliare che, in un uomo integro, troppo mi sarebbe spiaciuto. Non gli rimproveravo le sue idee di moderato e monarchico: le rispettavo ed ero convinto che, comunque la pensasse, il suo animo era aperto alla più larga giustizia. Ma non osavo di assicurarmene.
Mi è di gran conforto rievocare il suo volto chiaro e deciso, leggermente aquilino, gli occhi pensosi, la bocca sigillata in un interiore discorso. Era la faccia più leale e onesta che mai avessi incontrata, spesso sorridente: adesso era soffusa di una desolata malinconia. Scambiammo un battito di ciglia, e mi bastò per esser certo che nessuno di noi aveva tradito, che tutto quel vociare di libertà e di perdono era un trucco, una beffa. Respirai. Seppi più tardi che il mio amico – tale egli divenne in seguito – era stato avvertito di quel che ci aspettava: gli antri di Montefusco. Di quel segreto avviso aveva fatto cenno a chi gli stava più vicino, ma nessuno gli aveva creduto, quel carcere medioevale era stato chiuso nel ’45 come troppo disumano anche per un Borbone[26].
Già in questo brano emergono i tratti distintivi del personaggio Castromediano così come lo rappresenta la Banti nel romanzo: da un lato la sua onestà, la lealtà, la rettitudine, la generosità, messe sempre in rilievo da Lopresti; dall’altro, le sue idee di moderato e di monarchico che lo dividono da lui e che da un punto di vista narratologico sono funzionali a sottolineare ancora di più, attraverso questa contrapposizione ideologica, la figura del protagonista, strenuo rivoluzionario, come s’è detto, di idee democratiche e repubblicane.
Il duca di Cavallino però, nonostante questa sostanziale diversità di vedute sulla lotta risorgimentale, diventa fin dall’inizio dell’esperienza carceraria, l’amico più caro e fidato di Domenico, il compagno di prigionia a lui più vicino. E qui si potrebbero citare diversi episodi. Sulla “Rondine”, la nave che li porta da Procida a Napoli per essere tradotti poi nel Bagno di Montefusco, Castromediano, passando il braccio sotto il suo, lo conduce a salutare Carlo Poerio, il “ministro costituzionale” di Ferdinando II di Borbone, che era stato prelevato a Ischia.
Sulla Rondine tutti gli si affollavano intorno – racconta Domenico – ma io non osavo mescolarmi al gruppo: fu Castromediano, rimasto anche lui in disparte, che passando il braccio sotto il mio, mi ci condusse. Più che dall’accoglienza di Poerio fui commosso da quel gesto di amicizia che annullava la costrizione dei ferri e stabiliva un contatto spontaneo, una libera scelta[27].
All’alba, dopo la prima notte passata a Montefusco, lo assiste premurosamente mentre è in preda alla febbre e al delirio:
Mi svegliarono i brividi, tremavo come una foglia, Castromediano mi sollevava per le spalle chiamandomi a nome. La torcia era consumata e dalle alte feritoie entrava una luce beffarda. L’eterno giorno di Montefusco era incominciato[28].
Diventa il suo confidente, premuroso e generoso, e solo a lui Domenico rivela la malattia agli occhi di cui soffriva:
Pure non mutai la decisione di non rivelare la mia infermità. Era superbia? Non credo, mi sapeva male aggiungere la mia miseria alle tante che ci affliggevano. Solo a Castromediano me ne aprii, col patto di conservarmi il segreto. Non mancò: ma era così ansioso e sconsolato che stentava a trattenersi e le mille premure di cui mi circondava talvolta mi irritavano. “Ho un cattivo carattere” gli dicevo poi, scusandomi di qualche scatto: una sua stretta di mano era la generosa risposta[29].
Lo invita ripetutamente a pranzare con lui e con i suoi nobili amici (Poerio, Nisco, Palermo), anche se Lopresti accetta una sola volta:
Io mi ero allogato avendo a compagni artigiani costumati ma poverissimi, giacché povero anch’io, pochi conforti potevo procurarmi. Come loro mi contentavo dunque del rancio carcerario, ed era una dura lotta quella che sostenevo per ricusare cortesemente gli inviti a mensa di Castromediano, sprovvisto com’ero dei mezzi per contribuire alle spese. Dopo aver molto insistito, a malincuore cedeva e si ritirava coi suoi a consumare semplici ma costosi pasti […]. Una sola volta accettai il loro invito e lo ricordo perché fu origine di un episodio grottescamente odioso[30].
Lo va a visitare nell’infermeria del carcere quando si ammala di bronchite:
Più tardi, durante la bronchite che mi buscai per la mia bravata, spiavo l’occasione di spiegare l’animo mio a Castromediano che rimaneva per me il paragone della dirittura morale. Almeno lui mi avrebbe capito. Venne infatti al mio letto, nell’infermeria dove mi avevano trasportato di autorità: lo accompagnava Poerio e ambedue dividevano le loro premure fra me e il paziente Pironti. Cordiale, fraterno, ma soprattutto indulgente, mi trattava come un bambino irrequieto e capriccioso[31].
Ma questo stretto rapporto di amicizia tra i due – occorre chiarire – nasce non perché Lopresti gradisca particolarmente la compagnia degli aristocratici, alla quale pure apparteneva per nascita – come fa capire in un brano[32] – ma proprio per le qualità umane del duca che sono sottolineate, come abbiamo visto, in varie occasioni. Il suo spirito sinceramente democratico anzi gli fa stigmatizzare quella divisione in classi tra i cinquanta detenuti che si protrae anche in carcere, a Procida come a Montefusco e a Montesarchio, come fa notare nei seguenti brani dal tono fortemente polemico:
Pochi erano, fra noi, i sinceri democratici, quelli per cui la rivoluzione non aveva senso quando non riuscisse a liberare il popolo dalla miseria e dalla ignoranza. Più numerosi i moderati che, pur fraternizzando nell’azione con la minuta gente, a Procida non tardarono ad appartarsi in conventicole esclusive, e, per esempio, a brigare per dividere i ceppi con un compagno scelto nel loro stesso ceto sociale. Se non ci riuscivano, se rimanevano appaiati con un poveraccio, poco nascondevano il loro fastidio e lo dissimulavano sotto una benignità padronale[33];
E tuttavia mai avvenne che per l’assidua convivenza cadessero le barriere della disuguaglianza sociale fra i cinquanta condannati: che appartenevano a classi diverse, dalla più modesta alla più cospicua. Sembrava, al contrario, che esse si rafforzassero in virtù di una familiarità da un lato rispettosa, dall’altro benevolmente protettiva. Non eravamo più incatenati a coppia come a Procida, ma via via che la nostra vita infelice si andava organizzando, quella comunità forzosa si divideva, come già s’era visto a Procida, in padroni e servi[34].
D’altra parte, gli altri componenti di questo “gruppo privilegiato”[35], a parte Carlo Poerio, “un nome universalmente amato e spesso venerato”[36], non gli ispirano particolare simpatia. Il barone Nisco è definito “altezzoso”[37], e in un altro brano, sempre riferendosi a lui, confessa esplicitamente: “d’altronde non era un segreto che non corresse fra noi nessuna simpatia”[38]. Un altro, ancora, che preferisce non nominare (“scriverne il nome mi è penoso”[39], afferma) viene addirittura schiaffeggiato da Lopresti, che per questo gesto impulsivo viene rampognato proprio dal duca di Cavallino, quando costui prospetta l’ipotesi di chiedere in comune la grazia al sovrano.
Nonostante però l’amicizia sincera che si stabilisce tra Lopresti e Castromediano, permangono le differenze ideologiche tra i due, che costituiscono, come s’è detto, l’altro motivo caratterizzante delle pagine del romanzo dedicate all’esperienza carceraria. Domenico e Sigismondo hanno una visione diversa della lotta antiborbonica. Il primo, fervente repubblicano e democratico, vorrebbe che il movimento d’indipendenza fosse legato a un programma di rivoluzione sociale: per questo si sente vicino non tanto alle idee di Mazzini quanto a quelle, più radicali ed estreme, di Musolino e di Pisacane, ha a cuore il “riscatto” delle “plebi del sud”[40], tanto è vero che ritiene le idee sue e quelle dei democratici del ’48 e del ’60 non dissimili da quelle di una “nuova setta (o partito – come oggi la chiamano)”[41], quella dei socialisti. “Che si voleva, in sostanza? – commenta il protagonista – Lavoro e pane per tutti, istruzione al popolo basso, distribuzione delle terre ai contadini: e non ci parevano cose ingiuste, anzi accettabili da qualunque patriota, per moderato che fosse”[42].
Castromediano, monarchico e moderato, apprezza invece l’azione di Cavour e ha fiducia nell’alleanza di Napoleone III contro l’Austria. Respinge ovviamente le idee mazziniane al punto che a Londra rifiuta di incontrare Mazzini, “scandalizzando” Domenico quando questi lo viene a sapere[43], e resta fedele ai Savoia.
Ma così lo stesso Lopresti in un brano riassume le differenze con lui:
Parlargli delle mie convinzioni, delle cose in cui credevo, discutere la sua fede in un progresso che lasciasse intatti i privilegi di sangue, mi parve inutile e persino crudele. A confortarmi egli si diffondeva nelle solite lodi sull’abilità di Cavour, riuscito ad allearsi con Napoleone, in vista di una prossima guerra con l’Austria. Perché turbarlo rivelandogli quanto dissentissi dalle sue speranze? Scoraggiato riflettevo che di me non conosceva che la mia costanza di liberale e patriota e la mia partecipazione ai fatti del ’48: non me la sentivo di rinunziare alla sua amicizia. I francesi, dopotutto, erano ancora quelli dell’89, chissà che dalla loro alleanza non scaturisse per tutti un nuovo impeto rivoluzionario. Cullandomi in tali illusioni, mi limitavo a stringere quella sua mano asciutta di aristocratico e nelle insonnie della febbre, farneticavo di convertirlo, un giorno, alla mia causa[44].
Entrambi gli elementi principali di questa parte del libro emergono nell’episodio centrale del libro, uno dei più riusciti ed emozionanti del romanzo della Banti, come d’altra parte delle Memorie di Castromediano: l’episodio relativo alla richiesta di grazia da parte di sei detenuti in cui è coinvolto direttamente e involontariamente il duca, che parla di esso come dell’”ora più perigliosa della sua vita”[45]. Questa vicenda è ben nota agli studiosi ma qui la riassumo sinteticamente.
Nel carcere di Montefusco nell’agosto del 1855 si infiltrano degli agenti provocatori che cercano di convincere i detenuti a chiedere la grazia al sovrano. Sei popolani accettano, ma ben presto, in mezzo allo stupore generale, tra quelli che avevano chiesto clemenza al re, si diffonde pure il nome del duca. Questi protesta la sua estraneità a simile richiesta ma viene condotto ugualmente a Napoli con gli altri sei. Un mese dopo però, avendo confermato il suo proposito di rifiutare la grazia, egli ritorna tra i suoi compagni nel carcere.
Nell’invenzione romanzesca della Banti, anche in questa occasione Domenico è colui che resta più vicino a Castromediano. Infatti, nonostante i sospetti che si addensano sul duca da parte degli altri detenuti, continua ad avere piena fiducia in lui e a manifestargli la sua amicizia e solidarietà. Al tempo stesso però – ecco l’altro motivo che scorre sempre parallelamente in queste pagine del romanzo – non può fare a meno di notare il suo atteggiamento di condanna netta e senza appello nei confronti dei sei popolani che invece egli cerca di giustificare. Così si legge infatti in un brano del romanzo: “Eppure, fu proprio il Castromediano, così saggio e temperato, a bollare inesorabilmente col marchio dei traditori i pochi popolani che in seguito cedettero alle lusinghe delle spie”[46]. E in effetti nelle Memorie l’autore usa proprio il termine di “traditori” riferendosi ad essi[47].
Da qui nasce il dissenso di Domenico col “più degno”, col “più leale” tra loro, dissenso riguardante proprio il loro “diverso modo di concepire l’ordine sociale”[48]. Per questo, pur “avvilito e schifato per quella defezione”, cerca di mettersi “nei panni dei disgraziati” e si persuade che, in fondo, “non era umano coprirli di un disprezzo così assoluto”[49]. E nel seguente, intenso brano del libro riflette proprio su ciò che significa il carcere per un popolano e su ciò che significa per un aristocratico o un borghese:
La mia pena maggiore fu, in quella occasione, scoprire la differenza che mi divideva dal più degno, dal più leale fra noi; e insomma cosa significasse per me la fede democratica e per don Sigismondo il pensiero moderato e monarchico. Mai ci saremmo intesi, la nostra simpatia reciproca non avrebbe resistito di fronte al nostro diverso modo di concepire l’ordine sociale. Erano, i “traditori”, poverissimi uomini ignoranti, incapaci di soffrire più a lungo nel loro corpo e nel pensiero assillante delle famiglie in miseria. Avevano creduto nella nostra rivoluzione fidando in un riscatto del proprio stato. Adesso, dopo anni di fame e di busse, non capivano più nulla e risorgeva in loro l’antico prestigio del monarca benigno, protettore del povero e nemico del barone prepotente. L’artigiano, il bracciante, il contadino lavorano più all’aperto che al chiuso, la privazione di aria sole e moto contano il doppio per loro, il loro ozio è mortale. Frugando nella memoria noi potevamo ritrovare il conforto di remote letture, la compagnia di grandi poeti e pensatori: per loro, invece, i ricordi della vita libera si restringevano a un campo, alla famiglia perduta, al lavoro irrecuperabile. La tentazione di riottenerli era stata troppo forte per la loro disperazione. Li avevamo veduti occupati per ore e ore a filare la canapa dei carcerati per qualche fagiolo in più nella minestra e non avevamo pensato a spartire con loro un po’ dei nostri beni gelosi, quelli del pensiero. Come potevamo adesso condannarli?[50].
Subito dopo però arriva la notizia che un altro prigioniero avrebbe accompagnato i sei e stavolta “si trattava, nientemeno, del duca di Caballino”. “Il più sbigottito fu lui, povero amico. – continua – Protestò, chiese imperiosamente di veder il comandante: per la prima volta lo vidi sul punto di perdere il controllo di sé”[51]. Immediatamente si diffondono sospetti su di lui non soltanto da parte dei popolani ma anche dei “galantuomini”. Domenico è sicuro invece dell’amico e pensa subito a una trappola, ma prova anche il gusto della rivincita in quanto vede in questa ambigua situazione “una specie di condanna della sua intransigenza nei confronti dei sei disgraziati” e così commenta:
Vedi, avrei voluto dirgli, com’è difficile leggere nell’animo altrui. La tua fama di patriota inflessibile e di uomo superiore non ti ha salvato dai sospetti di chi pur ti ammirava. Ma tu, per primo, hai rifiutato di penetrare nel cuore solitario e affamato dei nostri compagni più deboli. E chi può asserire che essi non abbiano, nella loro miseria, qualche giustificazione?[52]
Anche qui dunque la Banti sottolinea questa sostanziale differenza tra i due per caratterizzare ancora meglio la figura di Domenico Lopresti, il quale è animato da una sensibilità di natura sociale che manca invece a Castromediano.
Ma, come s’è detto, accanto al motivo della diversità ideologica, anche in queste pagine c’è sempre quello dell’amicizia, del rispetto da parte del protagonista del romanzo che non viene mai meno, nemmeno in una circostanza ambigua e “perigliosa” come questa. Nella finzione narrativa della scrittrice, che non ha alcun riscontro nelle Memorie, Lopresti infatti trascorre tutta la notte prima della partenza del duca per Napoli accanto a lui e lo assiste, insieme a Poerio, mentre si agita e smania nel sonno. All’alba, Sigismondo vuole che sia proprio Domenico ad accompagnarlo all’uscita dal carcere e anzi lo rincuora sorridendo lievemente e dicendogli: “Non fate quella faccia, amico mio, ci rivedremo presto”[53]. E infatti, come s’è detto, dopo un mese Castromediano fa il suo rientro nel bagno penale di Montefusco, accolto festosamente dagli altri detenuti che fanno un brindisi, con grande sofferenza di Domenico che pure vi partecipa, al Piemonte e a Vittorio Emanuele.
L’ultima volta che Lopresti vede Castromediano in carcere è quando questi lo informa della sfortunata impresa di Carlo Pisacane a Sapri e ancora una volta emergono i contrasti ideologici tra i due, perché mentre il duca se la prende con “l’eterno Mazzini, fautore e complice di ogni inutile sacrificio”, Domenico dà un’altra lettura del sacrificio di Pisacane, ritenendo invece che egli, “stanco di prudenti riserve, di contrasti dottrinali, di alterne indecisioni, convinto di esser rimasto solo, […] aveva organizzato un suicidio che scuotesse gli animi torpidi. Esser riuscito a scomparire – continua – era sempre un successo, per lui”[54].
Ma c’è ancora un altro, memorabile brano del romanzo che non posso non citare per terminare ed è quello relativo a un incontro tra i due a Torino, l’ultimo narrato nel libro. Nel capoluogo piemontese, che in quel periodo era anche la capitale d’Italia, vivevano sia Lopresti, dopo essersi sposato, che Castromediano il quale era deputato al Parlamento. E qui ancora una volta ricompaiono gli elementi principali del rapporto tra questi due personaggi del romanzo: l’amicizia, la stima da un lato e, ancora una volta, la differenza ideologica. Ma qui c’è anche qualcosa di diverso e di nuovo rispetto a prima:
Quando c’incontrammo a Torino (lui usciva dal Parlamento) il suo volto, sotto la capigliatura candidissima, era segnato, più che dalla vecchiezza, da un fiero disgusto. “Torno a casa” mi disse “nulla più mi trattiene quassù.” E fu allora che, annunciandomi il proposito di scrivere le sue memorie carcerarie, mi pregò di aiutarlo: al che risposi come di sopra ho notato, scoraggiandolo con acri osservazioni. Ero, in quel tempo, angustiato all’eccesso, senza futuro e il passato mi ripugnava. Non so se egli conoscesse o intuisse le mie ragioni: ma della mia asprezza non ho mai finito di pentirmi. Così ci lasciammo. Vive ancora, il nobile amico, e lo immagino nel suo progetto, in fondo assai simile al vano sfogo che mi sto permettendo. Questa circostanza mi commuove, ma temo che, purtroppo, solo la nostra tristezza si assomigli [55].
Entrambi ormai, per motivi diversi, sono profondamente delusi dal corso degli avvenimenti succedutisi all’Unità d’Italia. Gli ideali, ai quali avevano fortemente creduto (“Noi credevamo”), per i quali avevano combattuto e sofferto, sono in buona parte crollati e al loro posto c’è una realtà assai lontana da quelli. Il sogno di un’Italia diversa è ormai irrimediabilmente tramontato.
[1] Su questa riedizione cfr. S. Pent, I rivoluzionari senza gloria, in “La Stampa – Tuttolibri”, 6 novembre 2010, p. III.
[2] Cfr, a questo proposito, M. Martone, Una guerra che non è finita.” Noi credevamo” di Anna Banti dal libro al film, in “Paragone”, a. LX, terza seria, n. 81-82-83, febbraio-giugno 2009, pp. 44-51.
[3] Sul romanzo cfr. E. Biagini, Anna Banti, Milano, Mursia, 1978, pp. 137-141; M. Forti, Lo storico presente di Anna Banti, in Id., Prosatori e narratori nel Novecento italiano, Milano, Mursia, 1984, pp. 89-97; A. Nozzoli, Anna Banti e il Risorgimento senza eroi, in Ead., Voci di un secolo. Da D’Annunzio a Cristina Campo, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 385-402; C. Garboli, Anna Banti e il tempo, in Id., Pianura proibita, Milano, Adelphi, 2002, pp. 79-95.
[4] S. Castromediano, Carceri e galere politiche. Memorie, Lecce, R. Tipografia Salentina, 1895-96.
[5] Cfr. A. Nozzoli, Anna Banti e il Risorgimento senza eroi, cit., pp. 394-396.
[6] Ivi, p. 395.
[7] Cfr. ivi, p. 397.
[8] Reggio [Calabria], Tipografia Adamo D’Andrea, 1862.
[9] Cfr. S. Castromediano, Memorie, cit., pp. 13-14.
[10] N. Palermo, Raffinamento della tirannide borbonica ossia i carcerati in Montefusco, cit., p. 182.
[11] Su questo aspetto cfr. E. Biagini, Anna Banti, cit., p. 138.
[12] A. Banti, Noi credevamo, Milano, Mondadori, 1967, p. 428.
[13] Ivi, p. 71.
[14] Cfr. A. Nozzoli, Anna Banti e il Risorgimento senza eroi, cit., p. 391.
[15] Ivi, p.395.
[16] Ibid.
[17] S. Castromediano, Memorie, vol. I, cit., p. 285.
[18] Ivi, vol. II, p. 73.
[19] Ivi, vol. II, p. 119.
[20] Ivi, vol. I, p. 351.
[21] Cfr. S. Castromediano, Lettere dal carcere, a cura di G. Barletta e M. Paone, con prefazioni di G. Gorgoni e L. Ria, Galatina, Editrice Salentina, 1995 e F. D’Astore, “Mi scriva, mi scriva sempre…”. Regesto delle lettere edite ed inedite di Sigismondo Castromediano, Lecce, Edizioni Pensa MultiMedia, 1998.
[22] A. Banti, Noi credevamo, cit., p. 51.
[23] Ivi, p. 61.
[24] Cfr. A. Nozzoli, Anna Banti e il Risorgimento senza eroi, cit., pp. 399-340.
[25] Cfr.: “Ed in vero: dalla nobile e distinta fisonomia e da’ gentili modi del duca di Caballino tal dolce natura si legge, che colui il quale non sia veramente conoscitore d’uomini, scambiala per pieghevole ed anche debole; ma quella melanconica tinta di che va cosparso il suo gentile aspetto è piuttosto segno di dignità” (N. Palermo, Raffinamento della tirannide borbonica ossia i carcerati in Montefusco, cit., p. 112).
[26] A. Banti, Noi credevamo, cit., p. 124.
[27] Ivi, p. 125.
[28] Ivi, p. 135.
[29] Ivi, p. 149.
[30] Ivi, p. 153.
[31] Ivi, p. 190.
[32] Cfr: “Non appartenevo al popolo e neppure alla borghesia dei medici e degli avvocati. Era sottinteso ch’io fossi un ‘galantuomo’, come si dice da noi, ma della mia famiglia non mi piaceva parlare e raramente ne ricevevo lettere: avevo studiato privatamente, non avevo lauree o attestati. Al titolo che si dava generalmente a mia madre mi guardavo bene dal pretendere, sebbene i miei fratelli lo facessero senza alcuno scrupolo”, ivi, p. 152.
[33] Ivi, p. 71.
[34] Ivi, p. 150.
[35] Ivi, p. 152.
[36] Ivi, p. 125.
[37] Ivi, p. 152.
[38] Ivi, p. 189.
[39] Ivi, p. 159.
[40] Ivi, p. 208.
[41] Ivi, p. 97.
[42] Ivi, p. 98.
[43] “Non ero mazziniano, ma via, che a Londra Poerio e Castromediano avessero rifiutato di incontrare Mazzini, mi scandalizzava. Il partito preso li aveva accecati, i fatti avrebbero dimostrato il loro errore”, ivi, p. 238.
[44] Ivi, p. 190.
[45] L’ora più perigliosa della mia vita è appunto il titolo del capitolo XXIII delle Memorie di Castromediano, vol. II, cit., pp. 39-66.
[46] A. Banti, Noi credevamo, cit., p. 159.
[47] “Il connubio tra la polizia e i sei traditori, l’impegno assunto dai secondi, di rendersi cioè benemeriti col disonore, si spinsero agli eccessi, procurando così, a noi loro vittime, nuove ambasce, nuove ristrettezze ed una sequela di visite improvvise, insidiose, ributtanti, moleste ed assai più aspre delle antecedenti”. (S. Castromediano, Memorie, cit., vol. II, p. 44).
[48] A. Banti, Noi credevamo, cit., p. 160.
[49] Ivi, p. 159.
[50] Ivi, p. 160.
[51] Ivi, p. 161.
[52] Ivi, p. 163.
[53] Ivi, p. 167.
[54] Ivi, p. 193.
[55] Ivi, p. 170.
La Banti in Noi Credevamo, racconta del viaggio di Domenico Lo Presti in Calabria per vedere la madre, che raggiunge nella tenuta di proprietà dell’atro prigioniero di Montesarchio, don Pasquale Staglianò, che era nato e cresciuto a Chiaravalle . Racconta dell’arrivo alla Villa , trovandola deserta; che all’indomani sa da un pastore che la donna vive nella canonica di un suo nipote prete e raggiunge il paese lasciando il cavallo a pascolare, mentre lui sale al paese e trova la donna. Vi rimane per poco e poi ritorna per ricongiungersi con i garibaldini. Eppure Anna Banti doveva sapere che i suoi avi non erano di Chiaravalle Centrale, ma di Pizzo.
Signor Gulli, ci può dire che cosa vuole dimostrare?
Voglio dimostrare che la Banti , nel suo romanzo “Noi Credevamo”, descrive un improbabile viaggio di Domenico Lo Presti a Chiaravalle per trovare e salutare la madre che invece viveva a Pizzo Calabro. A Chiaravalle viveva la madre di Pasquale Staglianò anche lui prigioniero politico nelle carceri Irpine. E’ evidente che la scrittrice si avvale degli scritti Castromediano (anche lui prigioniero politici in Irpinia) nei quali racconta la vita di carcerati e parla ampiamente sia Di Pasquale Staglianò che di Lopresti. Ma confonde alquanto i luoghi.
Don Pasquale trascorse gli ultimi anni di vita a combattere la malattia che aveva contratto durante la sua prigionia e che lo condusse a morte il 20 maggio del 1896. Figura nobile di uomo, di padre, di cristiano e di eroe, di Lui rimarrà memoria ben lontana.
Chiaravalle non fu particolarmente riconoscente verso questo suo illustre figlio: unico atto a ricordo di don Pasquale fu l’intitolazione di una stradina periferica, ma non la Gran Via sul cui snodo sorge la casa avita nella quale egli nacque. Sulla sua figura di combattente per la libertà della Patria e su quella dell’altro Vitaliano Staglianò, condannato a morte e impiccato in Piazza mercato a Napoli dopo la fine della Repubblica Partenopea per medesimi ideali di libertà, gli stessi “familiari borbonici benpensanti” stesero, nel tempo, un velo di silenzio: si erano comportati da briganti tradendo la benevolenza del Re e compromettendo, con le loro azioni, l’amicizia di tutta la famiglia con i Borbone.
Da allora, venne tramandata la figura dei due Staglianò, una come traditore della generosa munificenza Reale e l’altra come brigante per gli atti di ribellione svolti; entrambi rei di aver disonorato la famiglia e reso il Re ostile verso di essa. Nè la “nuova Italia” si ricordò dei due eroi.
Ricordò, invece, entrambi nel romanzo “NOI NOI CREDEVAMO” la scrittrice Anna Banti (Lo Presti Lucia 1895-1950) accumunando suo nonno, Domenico Lo Presti a Pasquale Staglianò, ma nei luoghi e negli affetti che appartenevano a don Pasquale.
Ed infatti la figura di don Pasquale Staglianò che ritorna prepotentemente nel racconto di Domenico Lopresti, suo compagno di galera, personaggio del romanzo “Noi Credevamo,” quando si sovrappone (e agisce) come fosse il chiaravallese don Pasquale, gli ambienti di contrada Madonna e con gli affetti che gli appartengono.
Domenico Lopresti era un personaggio realmente esistito nato a Pizzo Calabro nel 1816 ed era il nonno della scrittice Lucia Lopresti (Anna Banti), autrice del romanzo.
La sua era una famiglia di proprietari terrieri decaduti per colpa del padre di Domenico, ardente carbonaro, seguace di Gioacchino Murat e fautore della Repubblica Napoletana, che aveva anteposto gli ideali della setta di appartenenza al bene della famiglia e del figlio e che era morto per mano dei soldati borbonici.
Lopresti junior, settario come il padre, girò il Reame per comunicare ordini e direttive e partecipò ai moti insurrezionali del 1848. Per tale delitto, come Pasquale Staglianò, fu arrestato e il 14 giugno del 1851 condannato dalla Gran Corte Speciale dell’Aquila a 30 anni di ferri per attività antiborbonica. Dal 1851 al 1859 scontò parte della condanna nei bagni penali di Procida, Montefusco e Montesarchio assieme a Pasquale Staglianò e a Castromediano che nel suo libro parla diffusamente dei suoi compagni di sventura . Di Lopresti racconta che la pena residuale gli venne commutata nell’esilio perpetuo dal Regno e, successivamente, condonata anche se fu trattenuto altri sette mesi nelle malsane e oscure prigioni irpine dove, tra gli stenti e le privazioni, si ammalò e corse il pericolo di perdere la vista.
Gentile signor Gulli, mi fa piacere che lei abbia ricordato la figura di Pasquale Staglianò, un patriota condannato dai Borbone per motivi politici insieme a tanti altri, che viene citato varie volte nelle Memorie di Castromediano. La ringrazio anche per le sue osservazioni che stanno a confermare in fondo che Noi credevamo è un’opera di carattere creativo nella quale la realtà si mescola all’invenzione letteraria e non un saggio storico. Non c’è da stupirsi quindi delle “confusioni” o delle “sovrapposizioni” presenti nel romanzo, da lei notate. La figura del protagonista Lopresti, infatti, è ricalcata su quella di altri patrioti meridionali tra i quali, a mio avviso, c’è anche il brindisino Cesare Braico. Anche lo stesso Castromediano, d’altra parte, nelle sue Memorie, che pure rappresentano una delle fonti di Anna Banti, cita qualche volta Lopresti senza però accennare a un rapporto particolarmente intenso con lui come invece emerge dal romanzo.
Antonio Lucio Giannone
LE TRASCRIVO TUTTO IL CAPITOLO DEL MIO LIBRO UOMNI E TERRE NELLA DEL BELTRAME E DELL’ANCINALE CHE RICORDA LE FIGURE DELLA BANTI, DI PASQUALE STAGLIANO’, DI LOPRESTI ecc.
“DON PASQUALE
GLI ANNI DEL CARCERE DURO
LA “RINASCITA” SOCIALE.
LA CADUTA DEI BORBONE
Don Pasquale Staglianò nato il 28 febbraio 1828, morì il 19 maggio 1896 ad Avellino dove furono celebrati i suoi funerali nel Duomo in mezzo al quale era stato “costruito” un catafalco a forma di peristilio corinzio, sormontato da una statua che rappresentava la religione. Al centro era stato posto il ritratto dell’estinto “cinto da ceri disposti in grandi candelabri alternati a corone di fiori.” Davanti e dietro il piedistallo erano poste le epigrafi: PREGATE// PER L’ANIMA DI PASQUALE STAGLIANÒ// PER INTEGRITÀ DI CARATTERE// RARISSIMO.// PER POLITICHE VICENDE// FRA LE CATENE E I PERICOLI E LE ARMI// EQUANIME// ALLA SPOSA ED AI FIGLI INCONSOLABILI// LASCIÒ INVIDIABILE RETAGGIO// DI CRISTIANE E CIVILI VIRTÙ. Rendevano il servizio d’onore gli uscieri del Municipio e le guardie municipali e daziarie in alta uniforme. In prima fila sedevano la moglie, i figli e i parenti dell’estinto e, poi, il Prefetto della Provincia di Avellino, Comm. Plutino; il deputato Achille Vetroni, fratello della moglie di Don Pasquale; il Maggiore dei RR. Carabinieri, Torquato Olivi; le rappresentanze del Municipio, della Prefettura, dell’Intendenza delle Finanze, del Tribunale Civile e Correzionale, del Circolo sociale, delle diverse Società Operaie, del Comizio Agrario, nonché una larga rappresentanza di avvocati del Foro di Avellino e i personaggi più rappresentativi della cittadinanza. Intorno al catafalco siedevano le suore delle “Figlie della Carità”e le alunne del proprio Istituto; gli orfanatrofi maschile e femminile; il Padre Generale dell’Ordine dei Cappuccini.
La messa fu celebrata dal Vescovo Mons. Francesco Gallo, assistito dal Capitolo, dal Clero e dal seminario. Pronunciò l’elogio funebre Monsignor Modestino Ottaviani, esaltando l’amore per la Patria che lo spinse a combattere contro i tiranni per la sua libertà, unità e grandezza e per cui i tribunali del tempo condannarono a morte, pena in seguito commutata a 25 anni di ferri in quanto minorenne. Monsignore Modestino, quindi, ne descrisse le doti di sposo affettuoso e padre tenerissimo, esaltando al tempo stesso l’uomo pieno di spirito, dedito a fare il bene e a porgere sollievo alle sventure umane. Salutò don Pasquale Staglianò, uomo amato e stimato, una folla di popolo venuta anche dai paesi limitrofi.
Assente Don Giuseppe morto giovane, era presente la madre, la nobildonna Francesca Paola Francica di Mileto che seguì figli prima nella crescita spirituale, fisica, intellettuale e dopo il 1848, seguì Pasquale sulla via della Croce in Irpinia.
Il piccolo Pasquale, a sette anni (nel 1835 o nel 1837?), entrò nel collegio di Mileto. I professori, vedendolo studioso e sveglio, lo seguirono con grande amore sperando nel meglio e non li deluse. Ma sopravvennero tempi nuovi e, ovunque, “risuonarono voci di amor di Patria, di libertà, di una nuova civiltà. I Figli della Vedova,” nella sacralità dei Templi (e delle Vendite) indicavano la via giusta per liberare l’Italia, “l’Alma parens di Virgilio, che appariva allo sguardo degli eroi serva Italia di dolore ostello (Dante), regina infelice che, perso il diadema, beveva nel calice del dolore anche l’insulto.” Così, per vendicare l’oppressione dispotica della Patria, uomini liberi e di buoni costumi si unirono “giurando morte o libertà.”
Don Pasquale non fu nè cospiratore, nè settario. Fu uomo d’azione e, quando se ne presentò l’occasione e ne percepì l’importanza, guidò gli uomini della Guardia Civica di Chiaravalle sottoposti al suo comando a combattere contro l’esercito borbonico schierato all’Angitola.
Non si sa se il giovanissimo Don Pasquale sia stato iniziato alla Massoneria. Se sì, il suo impegno in Loggia durò poco per gli eventi che lo hanno portato in carcere a scontare una condanna a 25 anni. Il 1848 fu l’anno dei grandi cambiamenti.
Fino ad allora i pensieri e i discorsi di don Pasquale e degli amici furono sempre rivolti ai dolori […] della Patria, questa volta non scevri di speranze per le notizie che provenivano da lontano e che annunciavano cambiamenti liberali nel Reame, ma anche nello Stato Pontificio dove il Papa Pio IX prometteva la concessione della costituzione.
I patrioti calabresi e siciliani poi, desiderosi di ottenere le libertà costituzionali, erano pronti a sollevarsi contro il tiranno sulla scia degli echi di riforme concesse in ogni angolo d’Italia e che rappresentavano “il soffio di un lieto avvenire.”
La sera Pasquale e gli amici fidati, passeggiando per le stradine di Chiaravalle, commentavano le notizie che arrivavano da Napoli alle quali si stentava a credere: la promessa anche da parte del Re Borbone della concessione di uno Statuto, dell’elezione di rappresentanti del popolo al Parlamento, della successiva formazione di un nuovo governo.
Il 10 febbraio del 1848 Ferdinando II promulgò lo Statuto con il quale concesse ai popoli del suo Regno Costituzione e privilegi sociali; le concessioni coronarono i lunghi anni di lotta e di sangue.
Il 18 aprile 1848, i sudditi del Reame furono chiamati alle urne per eleggere i propri rappresentanti da inviare al Parlamento di Napoli. Nelle tre Circoscrizioni calabresi, furono eletti 27 deputati in rappresentanza di 1.111.325 abitanti. Ma la gioia dei patrioti durò poco perchè le concessioni liberali e gli atti formali assunti dal Re “furono gettati alle ortiche” dopo solo tre mesi. Il 15 maggio del 1848 i patrioti sentirono “più acerbo il dolore per l’inganno subito perché i fatti che si susseguirono dimostravano che il Re non fosse mantenitor di fede e […] esser la sua parola pretta menzogna […]”.
I giornali, infatti, invece di raccontare dell’apertura del Parlamento, del discorso della Corona e delle feste organizzate per inaugurare il grande evento, scrissero che i patrioti di Napoli avevano alzato le barricate per le vie per protestare contro il Re spergiuro che, ignorando la Costituzione da poco concessa, aveva impedito ai ministri costituzionali di entrare nella Corte e ai deputati eletti l’ingresso al palazzo di Monte Oliveto per l’insediamento. La ribellione che seguì fu repressa duramente e, ancora una volta, le strade di Napoli “eran state lorde del sangue cittadino.”
La Calabria ha sempre dato alla Patria uomini illustri nelle armi, nella toga, nelle umane lettere “i quali illustrarono e l’antico regno e la nuova Italia ed ebbero larga parte nella rigenerazione nazionale”.
Pasquale Staglianò non fu da meno. Egli coltivò e conservò sempre l’amore per la Patria ed esultò ad ogni occasione fino a quando le speranze di libertà e di indipendenza (sopite dopo le infelici campagne di Lombardia, dopo i disastri di Carlo Alberto, dopo i tanti tumulti della Toscana, delle Romagne e di altre regioni d’Italia) furono rinverdite dalla concessione di riforme e di Statuti e dalla guerra contro l’Austria che avevano fatto presagire una possibile liberazione del suolo d’Italia.
Ben presto il Re di Napoli aveva ritirato la Costituzione, revocato i diritti giurati al popolo, sciolto il parlamento appena eletto e represso in un bagno di sangue i moti di protesta scoppiati a Napoli e, successivamente, in Calabria e a Messina.
I 25 deputati calabresi, legittimamente eletti al Parlamento di Napoli, si rifugiarono ognuno nelle terre natali o emigrarono in terre ospitali e, per nulla disposti a cedere, presentarono una vibrata protesta contro il tradimento di Ferdinando II: chiamarono il popolo alla rivolta, formarono un governo provvisorio a Cosenza la cui presidenza fu affidata a Giuseppe Ricciardi mentre Benedetto Musolino ricoprì la carica di esperto negli affari di guerra. Dalle barricate di Napoli, la rivolta si era spostata nella Calabria: i 33 giorni dimostrarono al mondo con quale entusiasmo e passione i calabresi seppero lottare per l’indipendenza con il piccolo esercito di due colonne mobile, una schierata a Spezzano Albanese (CS) e l’altra, composta da seicento uomini, nella piana di Filadelfia (CZ) al fine di controllare il passo del fiume Angitola.
Il sei giugno 1848 una squadra navale regia approdava a Pizzo Calabro e sbarcava una colonna di oltre 2.000 uomini al comando del generale Nunziante, che installava il suo quartiere generale a Monteleone (Vibo Valentia). La forza regia, che con i rinforzi assommava a 5.000 uomini, attaccò i rivoltosi all’alba del 27 giugno 1848. Ma il vero fatto d’armi ebbe luogo lungo la sponda nord del fiume Angitola dove le forze regie affrontarono i 450 rivoluzionari al comando di Francesco Stocco che si comportò da eroe, “ma non da acuto condottiero”.
Nelle prime fasi, le sorti dello scontro furono favorevoli ai rivoltosi e solo per pura sfortuna non uccisero Nunziante che si salvò travestendosi da semplice soldato e nascondendosi in mezzo alla truppa, che lo credette per lungo tempo morto. In seguito egli, unitamente ai generali Bisaccia e Lanza al comando delle rispettive truppe, più disciplinate e meglio armate, ebbero ragione dei rivoltosi. Né valse la resistenza dei patrioti calabresi congiunti a quelli siciliani comandati dal Generale Ribotti, a respingere la forza regia, contro cui combatterono strenuamente e caddero con le armi in pugno e la fede nel cuore, o furono fatti prigionieri.
Al diciottenne Pasquale Staglianò era stato affidato il comando della Guardia Nazionale di Chiaravalle. Doveva obbedienza al re Borbone in cambio del grado di comandante attribuitogli dai Reggitori dell’università. Ma in quei giorni convulsi egli schierò i suoi uomini con i patrioti; un comportamento che fu delitto di Lesa Maestà.
Don Pasquale fu arrestato e il comandante delle Calabrie, Maresciallo di campo Mosè Nunziante, spedì al segretario di Stato di Grazia e Giustizia un dispaccio “[…] perché si compiaccia rimanerne inteso che l’Ill/mo signor don Pasquale Staglianò, ricercato perché accusato di reato politico contro la sicurezza interna dello Stato, era stato arrestato.”
Il processo contro i patrioti calabresi fu celebrato dalla Real Corte Speciale della Calabria Ulteriore, che comminò pesanti condanne; a don Pasquale Staglianò la pena capitale, poi scalata di due gradi (corrispondenti a 25 anni di ferri) perché quando aveva commesso il delitto non aveva ancora raggiunto la maggiore età (21 anni). Ebbe inizio per lui il calvario: i bagni penali di Montefusco, Procida, Nisida e Montesarchio l’ospitarono fino al 1860.
La madre gli fu vicino ed è facile immaginare, più che descrivere, le cure per questo figlio e i suoi interventi a corte per commuovere il cuore della Regina. Da fervente cristiana, donna Francesca rivolse le sue preghiere alla Madonna della Pietra, a San Biagio e a San Francesco da Paola perché intercedessero in favore del figlio.
Proprio in questo periodo la nobil donna, arricchì la Parrocchiale di Chiaravalle di due altari ancora oggi esistenti. Cercava, anche con l’aiuto dei Santi, di alleviare le sofferenze del figlio dall’inferno di quelle carceri per le criticità dei locali e le nequizie di guardie e comandanti; molto dure furono soprattutto le nequizie perpetrate nel bagno penale di Procida dal capitano Angelo Acuti distintosi per la sua ferocia.
I bagni penali erano “lager” creati allo scopo di abbrutire l’uomo: disciplina ferrea e inumana, locali inadeguati e antigienici, vitto scarso e fame. I carcerati erano […] accolti nel bagno di recezione dove venivano rasati, ferrati a coppie, forniti del vestiario e assegnati ai cameroni […]. Qui dovevano convivere con i delinquenti comuni, dormire sul pavimento avvolti nelle coperte, gli uni addossati agli altri, tormentati da topi e insetti, e costretti a sopportare il fetore che proveniva dai tini di legno, fracidi e senza coperchio, che servivano ai bisogni corporali. Pochi erano coloro che avevano la fortuna di riposare su tavole appoggiate su trespoli o, caso assai più raro, su materassi. Le condizioni igieniche delle carceri in cui anche don Pasquale trascorse un lungo periodo della sua giovine esistenza, erano miserevoli: pareti annerite e prive d’intonaco, il pavimento scomposto e una copertura […] tanto bassa che i meno alti […] la toccavano con le dita.
Dalle crepe uscivano tanti insetti, che durante la notte cadevano come pioggia sui corpi dei galeotti; dai buchi del pavimento topi, ragni, scarafaggi e altri insetti. La precarietà dei due stanzoni, che insieme sommavano appena a circa 45 metri quadrati, appariva in tutta la sua evidenza quando venivano sistemati i letti che risultavano attaccati l’uno all’altro e, per coricarsi, era necessario salire dalla parte dei piedi di ciascun materasso. Per potersi muovere durante la giornata, tavole e materassi si dovevano addossare al muro e assicurare con legacci. In estate, il caldo mutava quelle topaie in caldaie bollenti, e non vi si resisteva “anche a volersi spogliare e rimanere ignudi;” e diventavano fornaci se si accendeva il fuoco per cucinare qualcosa di diverso in sostituzione della solita broda. Comunque, malgrado le numerose criticità che presentavano, i bagni di Montefusco rimanevano tra i preferiti dai carcerati perché erano maggiormente illuminati e dalle finestre si potevano scorgere “monti e valli, alberi e pasture e uccelli vagare, e acque scorrere e, sebbene lontano lontano, casolari e paesi. […] La fantasia vagava tra quell’aperto dei campi e i prigionieri avvertivano […] una parvenza di libertà perché a contatto visivo con l’umanità e con la natura.”
A Montesarchio, la sistemazione dei prigionieri politici presentò, ai galeotti ivi trasferiti, miglioramenti importanti: vennero restituite le posate, parte dei libri requisiti a Montefusco; fu messa a disposizione una stanza di scrittura per comunicare con i propri cari; fu concesso l’uso del vaglio che consentiva di passeggiare qualche ora ogni giorno all’aria aperta; si potevano ricevere aiuti economici più consistenti per poter far fronte alle ingenti spese che si dovevano affrontare per avere cibi diversi; furono liberati dalla lunga e pesante catena condivisa con l’altro galeotto, sostituita da una più corta e più leggera che permetteva di muoversi autonomamente e, cosa importante, fu concesso di sottrarre pochi metri di terra al vaglio per realizzare un girdino.
La notizia di queste semplici concessioni fu amplificata e propagandata dai Borboni tanto da fare apparire “la nuova galera quasi un palagio di principi […] in cui i detenuti potevano persino godere della delizia di un giardino” oltre che di un nuovo bagno penale “meno opprimente dei precedenti con le pareti pitturate di bianco, pavimenti lisci, imposte […] dipinte, e ferri dei cancelli e delle finestre più sottili e dove anche il comportamento dei carcerieri appariva meno aspro e meno duro: dai loro volti era scomparso il cipiglio […] feroce, col quale avevano dominato i galeotti. “Ora il loro comportamento era […] più calmo e meno ostile, ma sempre finalizzato ad impedire ai prigionieri politici di relazionarsi fra di loro e con l’esterno.” Per cui le visite dei parenti, già rare negli altri bagni penali, a Montesarchio furono dilatate nel tempo e rese sempre più difficoltose e la vigilanza più stringente.
Si cominciò anche a insultare chiunque non avesse voluto rinunziarvi spontaneamente e si usò violenza nei confronti della moglie, figlie, sorelle e madre del detenuto Nisco, per indurle a rinunciare a vederlo. Ma esse “tutto sopportarono con altezza di animo, pur di giungere […] fino ai cancelli e vedere, fosse solo per un momento, il congiunto” .
Un trattamento anche peggiore ebbe al cavaliere Palermo, zio dei fratelli Schiavone: il vecchio, scarcerato da poco (era stato anche lui arrestato per fatti politici), appurò che i propri nipoti Nicola e Nicodemo erano detenuti uno a Procida e l’altro a Montefusco; decise allora di lasciare la Calabria e trasferirsi a Napoli per seguirne la sorte.
Quando poi ottenne il permesso, si portò prima a Procida dove gli fu concesso subito di vedere il nipote. A Montefusco invece lo fecero attendere tre giorni. Gli incontri durarono poco, ma ebbero conseguenze disastrose per il signor Palermo che tornato a Napoli nella sua camera d’albergo, fu fermato, ammanettato e rinchiuso alla Vicaria dove rimase per 15 giorni in isolamento senza che alcuno dei parenti ne sapesse qualcosa e senza neanche disporre del cambio della biancheria intima.
Anzi a suo carico fu istruito e celebrato un processo perché accusato di essere stato latore di “corrispondenza criminosa tra il bagno di Procida e quello di Montefusco”. Ma al processo venne assolto con la formula: Non consta. Malgrado l’assoluzione, egli fu trattenuto in carcere per altri sei mesi a conclusione dei quali fu rispedito in Calabria con obbligo di dimorare 40 chilometri lontano da Grotteria (CZ), il paese dove era nato e dove possedeva i propri beni.
L’8 febbraio del 1852 a Montesarchio furono trasferiti cinquanta detenuti politici tra cui: da Ischia, il barone Nisco di Avellino e il calabrese Poerio Carlo condannati rispettivamente a 30 e 24 anni di carcere; da Procida, i calabresi Lopresti Domenico, benestante di Pizzo, condannato a 30 anni, Palermo Nicola, benestante di Grotteria, a 23 anni, Perri Giuseppe, benestante, a 30 anni, Rottura Luigi, negoziante, condannato ad anni 30, Surace Stefano, benestante, condannato a 30 anni.
Da Nisida furono trasferiti: Gatto Saverio e Mangano Francesco, benestanti di Nicastro, e Staglianò Pasquale, benestante di Chiaravalle, tutti per scontare 25 anni di carcere.
Anche a donna Francesca Francica, che si era recata a Motefusco per vedere il figlio, in principio, fu negato il il permesso; quando le venne accordato e fu nella gabbia alla vista del figlio, “fu presa […] da una piena d’affetto e, ignara delle prescrizioni regolamentari, protese il braccio fra le spranghe del cancello, spinta dal desiderio di toccare, con la propria, la mano del suo diletto, il quale […] aveva fatto […] lo stesso dall’altro lato. Quelle mani per toccarsi rimaneva ancora lo spazio di un altro metro impossibile a superare; eppure quell’atto mise i brividi ai custodi che se ne spaventarono. Un grido d’allarme echeggiò e un gendarme saltò nella gabbia e si frappose fra le due mani, impotenti a stringersi. Così fu strappata la madre alla vista del figlio, e il figlio a quella della madre; e il meglio fu che non s’ebbero a deplorare tristi conseguenze. “
I prigionieri portarono con sé a Montesarchio le malattie, che avevano contratto nei bagni penali precedenti:
Carlo Poerio, una recrudescenza della sua bronchite cronica. Dono delirò per le febbri alte che lo tormentavano, Pasquale Staglianò per i reumi che diventarono insopportabili. Ma non potevano essere curati perchè, chi aveva avuto l’idea di dotare di un nuovo i detenuti politici, non aveva avuto l’accortezza di predisporvi spazi idonei per ricoverare gli infermi. Solo dopo molteplici proteste, fu fatto intervenire un medico che fece allestire un locale con otto letti per la degenza dei carcerati sofferenti.
L’ultimo ad essere ricoverato fu proprio Pasquale Staglianò, “assai distinto per educazione e censo, docile d’animo, affabile e bello,” il quale, non reggendosi in piedi, venne sorretto dai gendarmi e procedeva a stento e a passo lentissimo.
Non è documentato se, nel 1860, dopo essere stato rimesso in libertà a seguito degli sconvolgimenti di quegli anni, don Pasquale sia tornato a Chiaravalle per riabbracciare i familiari, né se abbia seguito i garibaldini che risalivano verso Napoli, come fecero molti dei detenuti politici del bagno penale di Montesarchio, in seguito chiamati dai governi a “dirigere pubblici Uffici di cui erano degni per aver lottato e sofferto per la Patria.”
È, forse, da escludersi che egli il 2 luglio del 1860, abbia offerto l’ultima prova del suo sacrificio unendosi alle camice rosse di Garibaldi e proseguendo a combattere per conquistare Napoli prima dell’arrivo delle truppe piemontesi guidate dal Re?
Vincitore, ma disilluso, don Pasquale non ebbe disegni ambiziosi, e non menò vanto delle pene sofferte per la sua Patria […]. Uomo d’azione, aveva operato e sofferto molto […] ma […], né brigò o mercanteggiò mettendo sul piatto della bilancia le pene sofferte per averle compensate con onori, potere, e denaro. Perchè soddisfatto del dovere compiuto, non chiese compensi. Nel 1861 accettò, comunque, la nomina di Ispettore delle Dogane e di Ricevitore delle Privative, incarico che esercitò per 36 anni con probità tanto da meritare le lodi dal Governo.
Nel 1875 si unì in matrimonio con donna Elena Vetroni, sorella del deputato Achille; il matrimonio fu allietato dalla nascita di sei figli: Giuseppe, Nazzareno, Adolfo, Bettina, Elvira e Francina che furono il suo orgoglio. Si legò alla nuova famiglia avellinese e non ebbe un attimo di esitazione a porgere il suo aiuto fornendo il contante necessario ai Vetroni quando la banca, fondata e gestita dal capostipite, presentò delle criticità finanziarie.
Nel 1884 don Pasquale fu eletto nel consiglio comunale di Avellino nel quale ricoprì la carica di assessore anziano. Nell’espletamento del suo mandato amministrativo egli si considerò sempre servitore del popolo che lo aveva eletto; fu solerte e contribuì a conseguire due importanti obiettivi: il pareggio del bilancio e la formazione di un fondo di decine di migliaia di lire in eccedenza di Cassa. E quando, in seguito, fu nominato membro del banco di Napoli, continuò a esercitare l’ufficio di Ispettore delle dogane e di Ricevitore delle Privative.
Nello stesso anno dell’elezione nel civico consesso, in Irpinia infuriò l’epidemia colerica che stroncò tante vite ed egli, dimenticando se stesso, soccorse e aiutò gli infelici, alleviò i dolori, confortò i tribolati e accolse, spesso, l’estremo anelito dei morenti. Anche nell’occasione non risparmiò né fatiche, né denari per aiutare e contribuire ad arrestare i danni del morbo. In premio del suo amore per gli altri ebbe dal Re la medaglia dell’Ordine della Corona. Si ritirò, poi, a vita privata disilluso da come venne affrontato il problema determinato dalla ripresa del brigantaggio: il governo lontano e senza esperienza dei luoghi e delle esigenze della gente del sud, risolse il problema mandando allo sbaraglio militari mal comandati e sprovvisti dei mezzi necessari alla guerriglia.
Dalla cruenta repressione, i capi banda si salvarono fuggendo, mentre i poveri bifolchi, che avevavo sperato di ottenere la disponibilità di un “fazzoletto” di terra da coltivare, pagarono con la vita o con la libertà.
La repressione post unitaria, nella maggior parte dei casi, colpì persone bisognose di terra e di lavoro e non persone selvagge e delinquenti.
Don Pasquale trascorse gli ultimi anni di vita a combattere la malattia che aveva contratto durante la sua prigionia e che lo condusse a morte il 20 maggio del 1896. Figura nobile di uomo, di padre, di cristiano e di eroe, di Lui rimarrà memoria ben lontana.
Chiaravalle non fu particolarmente riconoscente verso questo suo illustre figlio: unico atto a ricordo di don Pasquale fu l’intitolazione di una stradina periferica, ma non la Gran Via sul cui snodo sorge la casa avita nella quale egli nacque. Sulla sua figura di combattente per la libertà della Patria e su quella dell’altro Vitaliano Staglianò, condannato a morte e impiccato in Piazza mercato a Napoli dopo la fine della Repubblica Partenopea per medesimi ideali di libertà, gli stessi “familiari borbonici benpensanti” stesero, nel tempo, un velo di silenzio: si erano comportati da briganti tradendo la benevolenza del Re e compromettendo, con le loro azioni, l’amicizia di tutta la famiglia con i Borbone. Da allora, venne tramandata la figura dei due Staglianò, una come traditore della generosa munificenza Reale e l’altra come brigante per gli atti di ribellione svolti; entrambi rei di aver disonorato la famiglia e reso il Re ostile verso di essa. Nè la “nuova Italia” si ricordò dei due eroi.
Ricordò, invece, entrambi nel romanzo “NOI NOI CREDEVAMO” la scrittrice Anna Banti (Lo Presti Lucia 1895-1950) accumunando suo nonno, Domenico Lo Presti a Pasquale Staglianò, ma nei luoghi e negli affetti che appartenevano a don Pasquale.
Ed infatti è la figura di don Pasquale Staglianò che ritorna prepotentemente nel racconto di Domenico Lopresti, suo compagno di galera, personaggio del romanzo “Noi Credevamo,” quando si sovrappone (e agisce) come fosse il chiaravallese don Pasquale, gli ambienti di contrada Madonna e con gli affetti che gli appartengono.
Domenico Lopresti era un personaggio realmente esistito nato a Pizzo Calabro nel 1816 ed era il nonno della scrittice Lucia Lopresti (Anna Banti), autrice del romanzo.
La sua era una famiglia di proprietari terrieri decaduti per colpa del padre di Domenico, ardente carbonaro, seguace di Gioacchino Murat e fautore della Repubblica Napoletana, che aveva anteposto gli ideali della setta di appartenenza al bene della famiglia e del figlio e che era morto per mano dei soldati borbonici.
Lopresti junior, settario come il padre, girò il Reame per comunicare ordini e direttive e partecipò ai moti insurrezionali del 1848. Per tale delitto, come Pasquale Staglianò, fu arrestato e il 14 giugno del 1851 condannato dalla Gran Corte Speciale dell’Aquila a 30 anni di ferri per attività antiborbonica. Dal 1851 al 1859 scontò parte della condanna nei bagni penali di Procida, Montefusco e Montesarchio assieme a Pasquale Staglianò e a Castromediano che nel suo libro parla diffusamente dei suoi compagni di sventura . Di Lopresti racconta che la pena residuale gli venne commutata nell’esilio perpetuo dal Regno e, successivamente, condonata anche se fu trattenuto altri sette mesi nelle malsane e oscure prigioni irpine dove, tra gli stenti e le privazioni, si ammalò e corse il pericolo di perdere la vista.
Giovine […] ben educato, colto e distinto, del tutto ignaro di quanto era capitato a suo padre e delle ragioni che lo avevano portato alla morte, si era avvicinato alla fede dei Fratelli della Giovane Italia e aveva iniziato la sua militanza come corriere e cospiratore nelle regioni del Sud. Ciò fino alla partecipazione ai moti risorgimentali del 1848.
Ottenuta la libertà, riprese a svolgere i compiti propri del settario; venne inviato nuovamente in Calabria per stringere accordi con i comitati insurrezionali sorti per facilitare la marcia di Garibaldi; successivamente, operò per convincere i suoi conterranei a votare SÌ al plebiscito imposto dai Savoia.
La sua, così come quella di Pasquale Staglianò, fu una vita spesa per realizzare gli ideali repubblicani, di giustizia sociale e di riscatto del popolo dalla miseria, dall’ignoranza, dal malcostume. Aveva ammirato molto Garibaldi tanto che il suo primo pensiero, appena libero, fu di seguirlo nell’ultima impresa e nella triste avventura di Aspromonte durante la quale l’eroe rischiò la morte per fuoco amico. Egli visse quell’episodio come un tradimento delle idee per le quali aveva combattuto e speso gran parte della sua giovane esistenza.
Quando, da repubblicano, era stato costretto ad accettare il compromesso di un’Italia sotto la monarchia dei Savoia ritenuti peggiori dei Borbone, si era rassegnato a vivere la vita d’impiegato accettando l’incarico di Direttore delle dogane prima in Calabria con sede a Reggio e, poi, in Piemonte con sede a Torino. E non si oppose ai voleri dei Savoia neanche quando essi decisero di far svolgere i plebisciti per le annessioni accettando, “ab torto collo”, di diventare un apostolo di quel Plebiscito e convincere i cittadini a votare “Sì”.
Aveva superato i 30 anni quando egli sposò Marietta, che gli regalerà tre figli per i quali nutrirà un amore infinito, ma sofferto e carico di presagi negativi per il loro futuro in un paese guidato da governi ciechi e disinteressati a qualsiasi istanza di rinnovamento e di progresso sociale per la sua Calabria.
Su decisione di questi governi, Lopresti fu sradicato dagli affetti più cari e dalla sua terra, lontana, selvaggia, aspra e infelice, e venne trasferito a Torino in una sede che egli sentiva totalmente estranea. Nella città piemontese ripercorse il suo passato e i legami avuti con altri patrioti dei quali molti furono uccisi negli scontri insurrezionali dallo stesso esercito sabaudo divenuto italiano e altri che, dopo le imprese risorgimentali, avevano accettato cariche pubbliche o occupato posti di potere, al governo o al Parlamento, dimenticati, disillusi e sfiancati da tutto quello per cui avevano consumato invano anni di galera.
Egli ricordava con estrema chiarezza le differenze politiche che dividevano i patrioti: liberali, monarchici, repubblicani, mazziniani, insurrezionalisti, rivoluzionari, giacobini e carbonari; riviveva i forti contrasti e i conflitti di quegli anni per spiegarsi e spiegare da quale complessità e varietà di idee e di disparità economiche, sociali e politiche fosse nata la nuova Italia, quella strappata ai Borbone, ma consegnata ai Savoia che ignorarono i sacrifici e le aspettative di quanti avevano lottato immaginandoLa diversa. Lo stesso Garibaldi era solito dire: “Io ho molti nemici e i Borbone non sono i peggiori.”
Era presente nei ricordi di don Domenico l’analisi del rapporto tra il popolo e i gruppi di insorti, la partecipazione popolare all’impresa garibaldina e i legami del brigantaggio con il potere prima borbonico e poi sabaudo.
Domenico Lopresti (o Vitaliano Staglianò?) “appare come un eroe romantico, carico di contraddizioni, di ripensamenti, di critiche e di rimpianti, portatore di idee nuove e progressiste.” Nelle parole finali del romanzo la Banti parla dell’eroe (eroi) come di uomo//uomini disilluso//disillusi e amareggiato//i, ma che vede nelle idee per cui ha//hanno lottato l’unica salvezza.
Ciò che maggiormente colpisce del romanzo della Banti è la “sovrapposizione” di Domenico Lopresti che (alter ego o ombra di Pasquale Staglianò), raggiunge e si muove in luoghi che non gli appartengono, parla con un prete che non è suo fratello, e con con una donna che non è sua mamma; e descrive luoghi, oggetti ed arredi che non gli sono familiari.
É vero, invece, che i due fossero giovani insurrezionalisti e con ruoli diversi, rinchiusi per anni nelle stesse carceri borboniche dell’Irpinia per la loro fede politica e per la partecipazione attiva ai moti insurrezionali di quegli anni convulsi e ricchi di fede e azione. Ma nel romanzo sono due vite che corrono parallele e sovrapposte, che si incontrano e si intrecciano nel credo politico e nell’azione; personalità e azioni diventano “una sola” così che, quando i patimenti stanno per finire e sta per ricominciare una nuova vita, don Domenico incarna e agisce come fosse (o è?) don Pasquale.
Entrambi sanno di non essere né borghesi, né aristocratici; entrambi hanno la certezza di non appartenere al popolo, ma neppure alla borghesia dei medici e degli avvocati; entrambi danno per scontato di essere dei “galantuomini”, cui però non interessa fregiarsi del titolo nobiliare delle loro mamme di cui, invece, andavano fieri i fratelli. Entrambi avevano a malapena conosciuto i loro padri, morti quando erano in tenera età.
Domenico Lopresti, da fanciullo, aveva fantasticato troppo sul padre, ma, non avendo mai raggiunto una certezza, aveva deciso che non ne valeva la pena porsi tante domande: s’immaginava fosse venuto dalla Sicilia e che fosse ricco e, sapere ciò, gli era sufficiente.
Ma le cose stavano veramente così?
Chi poteva vantare una presenza familiare in Sicilia era don Pasquale Staglianò il cui cognome a Sant’Angelo di Brolo (ME) contrassegna ancora oggi un fitotopònimo e un borgo (rispettivamente Bosco, Angre e Borgo Staglianò) e annoverava terreni conosciuti con nomi uguali a quelli esistenti nel territorio di Chiaravalle che furono proprietà di questa famiglia.
Quando uscirono dalla prigione, Staglianò e Lopresti furono nominati entrambi ispettori delle dogane (Lopresti a Reggio Calabria e poi a Torino e don Pasquale in Irpinia). Tutti e due trascorsero il resto dei loro giorni lontani dalla loro terra d’origine non per propria scelta, ma perché costretti dalle circostanze e per fare cadere nell’oblio il torto perpetrato nei confronti dei rispettivi familiari quando avevano anteposto i propri ideali agli interessi della famiglia. É, invece, la madre, donna Francesca Francica a partire per Avellino, dove morirà confortata dall’affetto dei cinque nipoti e di quel figliolo sventurato, ‘u briganti abbandonato da tanti per non perdere i benefici del Re Borbone, ma in tempi diversi mostrato come l’eroe della famiglia ai Savoia.
Questa è la storia vera; ma la Banti va oltre nell’invenzione letteraria: racconta l’ipotetico viaggio del nonno verso la Calabria per unirsi a Garibaldi e, (sorpresa), la decisione di raggiungere Chiaravalle (e non Pizzo) per abbracciare la vecchia mamma che troverà non già nella villa (dipinta di colore roseo) di contrada Madonna, ma nella canonica annessa alla chiesa baraccata, ospite del nipote prete dichiaratamente borbonico. E qui, tra finzione e realtà, viene descritto un incontro quasi surreale con una donna fragile e fuori di testa per l’età.
I luoghi presentati sono quelli di Contrada Madonna e la chiesa è localizzata al limite della Piazza di Sopra, verso il grosso del paese, nelle cui vicinanze vi era la casa avita che conservava la statua della Madonna delle Sette Spade (l’Addolorata) vestita di seta nera ricamata d’argento; la madre di don Pasquale, infatti, la teneva sul cassettone nella sua camera ed era ancora presente in tempi non lontani nella casa dei Castiglione Morelli di via Ghidoni abitata da don Vitaliano e poi dalla famiglia di Kaba Staglianò e ora è nella chiesa matrice di Chiaravalle.
I luoghi, gli oggetti, l’ubicazione delle case e della villa rappresentati dalla Banti e ora raccontati da Lopresti sono quelli appartenenti alla famiglia di don Pasquale.
Per la Banti, però, è suo nonno che a piedi, in carrozza o a cavallo, dopo aver coinvolto, assoldandoli lungo il tragitto altri sbandati, arriva a Cosenza, da dove devia per Catanzaro e da qui decide di raggiungere Chiaravalle per abbracciare la sua vecchia mamma perché gli erano venute in mente le terre dei suoi, forse confiscate per colpa sua (chi sa da chi ora possedute e magari incolte).
Il dato sicuro è che la famiglia dei Lopresti non possedeva terre a Chiaravalle ed é da escludere che don Domenico vi potesse trovare sua madre che aveva sempre vissuto a Pizzo; e, a ben pensare, le terre di Chiaravalle non potevano essere state confiscate perché don Pasquale non era il primogenito dei coniugi Staglianò-Francica.
La Banti scrive: “La decisione di partire […] fu improvvisa e perentoria […]. L’immagine della madre emergeva dalle brume del passato, e pareva lo chiamasse. […]. Il suo pensiero prevalse: devo rivederla, si diceva, è il mio dovere. “
Raggiunse Chiaravalle a notte fonda senza badare che “[…] un viaggiatore solitario, di notte, rischia una schioppettata anche in tempo di pace […].[…] prese la carrozzabile […] scorrevole che permetteva un più ampio sguardo sulla vallata. Infatti dopo un buon tratto, distinse laggiù profili di tetti e, in fondo, la massa biancastra di […] Chiaravalle. Dalle case […] non trapelava lume, perché i villani, rientrati dal lavoro, usavano rintanarsi e andare a letto al buio. All’improvviso […] un furioso abbaiar di cani lo fece trasalire. Fu a quel punto che si trovò al cancello di casa. Fermato il cavallo e sceso, andava tastando i muretti che cingevano il giardino e l’agrumeto […] (un agrumeto a Chiaravalle! …). Alla cieca le mani del viaggiatore incontrarono la catena che reggeva il campanello, le maglie oblunghe, il cerchio dell’impugnatura ancora spezzato e riparato alla meglio da un fil di ferro, che se non si faceva attenzione, graffiava la mano .
All’abbaiare e al ringhiare dei cani, rammentò che la madre (infatti donna Francesca non amava quegli animali) e, quindi, non era possibile abitasse più in quella villa “dove si respirava l’alito salino del mare” ( “alito salino di mare” a Chiaravalle?!).
Quella, ora, non doveva essere più la sua casa,” pensa Lo Presti né fu sorpreso il mattino dopo di apprendere da un pastorello che il casino apparteneva a tal don Tiburzio “forse un gabellotto arricchito, pensò, magari una spia che aveva approfittato delle disgrazie della famiglia per appropriarsi delle terre. Ma, aggiunse il pastorello, prima, ci stava una signora di Pizzo vecchia e adesso sta con il parrocchiano che è suo nipote.”
Nella famiglia di don Pasquale non erano mai mancati i sacerdoti che avevano contribuito a dare importanza sociale alla casata e accresciuto sempre più il patrimonio familiare. Ed ora si fa apparire il curato di Chiaravalle, che abita in una casa posta nei pressi della piazza, nelle vicinanze della chiesa parrocchiale distrutta nuovamente dal terremoto.
Lopresti lasciò il cavallo libero a rifocillarsi in quel campo e si avviò a piedi sulla strada che menava al paese.
Ricordava che la parrocchiale distava dalla villa poco più di un miglio, localizzata in una piazzetta dopo le prime case.
La chiesa più vicina al roseo fabbricato della villa di contrada Madonna era quella di Spirito Santo o di San Nicola? Era una di queste due quella più vicina alla villa affidata alle cure di Don Gioacchino?
Comunque, scrive la Banti, era una chiesetta povera, ma antica, di gran pregio, […] stucchi grossolani, appiccicati alle pareti di pietra grigia, fiori di carta, merletti finissimi delle tovaglie, lavoro e dono di mia madre. “[…]
Per tutto il percorso il viaggiatore non incontra che un paio di contadini sul loro asino. Arrivato alla piazzetta, cerca invano la vecchia chiesa: al suo posto di notte vede mura sgretolate e cieche, mucchi di pietre frantumate. Conseguenza del terremoto del 1854 […] che aveva fenduto le mura di Montefusco (al tempo in cui don Pasquale e Lopresti erano rinchiusi in quelle carceri); si era abbattuto anche a Chiaravalle o riferimenti al terremoto del 1783?.”
Al limite della piazzetta, verso il grosso del paese, vide un fabbricato rozzo quasi una stalla, sormontato da una croce di ferro. Non c’era campanile e la porta di legno grezzo aveva i battenti accostati, che a una leggera spinta, cedettero. Comunque […] era una chiesa, la più semplice che avessi mai veduto. Le pareti erano scialbate grossolanamente. Ciò malgrado, l’unico altare un paio di candelieri ben lustri, due carte gloria e, a destra, un messale non ancora aperto. […] Il pavimento di terra battuta come nelle più misere capanne […]: a fianco dell’altare una sola séggiola impagliata col suo inginocchiatoio.
Aveva il cuore pesante e se lo sentiva in gola quando gli cadde l’occhio sulla Madonna dalle Sette Spade […] vestita di seta nera ricamata d’argento […], era l’Addolorata che la madre di don Pasquale teneva nella camera del palazzo baronale (di via Ghidoni a Chiaravalle). Ed ecco che […] una campanella prese a suonare qualche rintocco, si avvertì uno strascicare di piedi; e subito dopo vide sorgere da dietro l’altare una figura femminile, piccola, il volto seminascosto da un fazzoletto nero. Recava in mano una pertica col lucignolo in cima che andò avvicinando, con tremula esitazione, all’uno e all’altro candeliere e ogni volta s’inginocchiava al Ciborio. Accese le candele, strisciò il palmo della mano sul piano della mensa, come a lisciarla. Era il gesto compiaciuto della mamma quando si accertava che la tovaglia spiegata sulla tavola non facesse una grinza; era sua quella mano bruna e piccolina. Lo Presti racconta: dell’incontro che seguì conservo un ricordo penoso, avvilito. […] All’Ite missa est il prete si volta e io mi faccio avanti. […] Faccio il mio nome e lui mi fissa con una ostilità che si mescola alla meraviglia e rimane un buon momento immobile, il piede sospeso sul gradino che stava scendendo. Anche la vecchina […] si è voltata […] vorrebbe muoversi e parlare, ma le forze le mancano; […] ricerco invano la compostezza della fiera donna (Giuseppa?) che ne ha vedute tante e mai perdeva il contegno. La bocca le si storce nel pianto come quella di un bambino punito. Micuccio! mormora e poi rivolgendosi al nipote prete, nei cui occhi neri non si è spenta una scintilla di diffidenza, dice riferendosi a me: Gioacchino , vedi come è sparuto, deve dormire, deve mangiare. Il pranzo. Corre, la poverina; a passetti infila l’uscio della sacrestia.
Il prete scuote la testa: è svanita, poco capisce,… la vecchiaia!….
Don Gioacchino senza i paramenti sacri non sembrava un prete: sotto la tonaca indossava pantaloni di fustagno e una camicia di tela rustica di lino. Sembrava un contadino che torna dai campi stanco e affamato, che racconta i suoi guai, la sua povertà dovuta ai tempi incerti e alla “miscredenza” diffusa e di questo Garibaldi che non guarda in faccia nessuno, non ha timor di Dio, ci tirerà addosso i villani affamati, quelli che ci fanno la pelle come è già successo, un massacro.
A Don Gioacchino non interessavano le idee del congiunto per le quali aveva fatto la galera; non condivideva la sua intenzione di raggiungere e unirsi ai garibaldini per chiudere la partita con il Borbone; il prete, in cuor suo, si augurava l’arrivo di un altro Cardinale Ruffo per risistemare l’ordine nel Regno. Durante il pranzo il prelato continuò a informarlo delle disgrazie familiari conseguenti anche alla confisca dei beni per causa sua e sarebbe andato avanti chissà per quanto se non fosse stato chiamato da un ragazzino per accorrere al capezzale del nonno moribondo cui impartire la sacra unzione.
Rimasti soli, la mamma si estraniò: tirò fuori il rosario e cominciò a borbottare le sue Avemarie quasi immemore della presenza del figlio.
Fu insopportabile vederla ridotta come una donnuccia del volgo, lei così poco bigotta, così ardente nel difendere la libertà di coscienza da rischiare, presso i compaesani, la fama di eretica socialista, o quanto meno di testa stramba. Quando poi una contadina, entrata per rigovernare, aveva cominciato a sistemare piatti e stoviglie, quel figlio si alzò per salutarla e andar via: Ci vediamo, mamma. Ella sorrise così teneramente da sembrare ringiovanita. Le staccò la mano dalla corona e si chinò a baciargliela; le sue labbra si posarono lievi sulla sua fronte: Dio ti benedica, figlio mio. La donna non proferì più parola al figlio.
Lopresti (o Pasquale?) aveva deciso di lasciare Chiaravalle e ritornare verso Cosenza per unirsi alle camicie Rosse e seguire Garibaldi sino a Napoli. Fu una fuga: uscì dalla canonica e, in un baleno, raggiunse la piazza; era impaziente di allontanarsi da sua madre, ormai vecchia, ospitata per pietà dal nipote in una casa misera.
Rammentò di aver raggiunto il paese a piedi lasciando il cavallo libero alla pastura e sperava comunque di ritrovalo già rifocillato e pronto per la partenza.
La gente che incontrava lungo il tragitto lo guardava come se non lo riconoscesse. E non si meravigliava né s’infastidiva di essere osservato ben sapendo che le notizie, anche se non divulgate, nel paese si diffondevano in un baleno. Tutti sapevano tutto. Scendeva a passo spedito verso la valle da cui era partito all’alba: c’era animazione sulla strada quando si trovò a costeggiare l’antica proprietà.
Adesso che il cancello era spalancato, […] riconobbe il viale delle sue corse di ragazzo e il palazzo dalle mura dipinte di roseo. Rivide il cavallo lasciato la mattina ancora lì nel prato, pronto per riprendere la strada del ritorno alla ricerca dell’armata del generale Garibaldi che, lasciata la Sicilia, marciava verso Napoli. Il visitatore (don Domenico o don Pasquale?) salutò Chiaravalle, abbeverò il cavallo, vi montò e lo lanciò al galoppo; i ricordi del passato correvano con gli uliveti, i castagneti, le casupole e i pagliai.
Non provava nessuna nostalgia: libero dagli affetti familiari; padrone di se stesso, non si curava, come il giorno precedente, di evitare le vie scoperte. Viaggiò tutta la notte e al mattino, mentre si riteneva fortunato di non avere fatto brutti incontri, intravide uomini armati che cantavano con una freschezza e un impeto mai posseduti da soldati regolari. Senza indugiare un istante spronò il cavallo per raggiungere quelle che riteneva fossero le avanguardie garibaldine. Ne incontrò una di volontari che l’otto agosto si erano imbarcati e avevano attraversato il mare al comando di Benedetto Musolino. Garibaldi stava per raggiungere Monteleone.
L’avanguardia era formata quasi esclusivamente da calabresi pratici dei luoghi i quali precedevano e spianavano la strada ai garibaldini. Si unì ad essa, ma la sua stagione militare fu breve e intensa. Assistito dalla fortuna, aveva avuto la ventura di incontrare compaesani, democratici e repubblicani, tutti giovani: dunque le sue idee avevano conquistato le nuove generazioni. Ogni giornata era un’avventurosa scommessa: si mangiava quando ce n’era, si dormiva come si poteva, in una situazione di strapazzi resi inebrianti con cui si recuperava la giovinezza perduta.
Gli uomini dell’avanguardia possedevano armi scadenti, comunque sufficienti per scompaginare le poche pattuglie fedeli ai Borbone che si incontravano. Negli scontri vi furono solo alcuni feriti. Nei paesi attraversati si era accolti con trofei di alloro, tripudi, bevute; il nome di Garibaldi operava miracoli persino sui contadini.
Trovarono Garibaldi a Cosenza prima che egli ripartisse; (Lopresti – don Pasquale ?) si ripromise di far di tutto per incontrarlo. Missori l’introdusse nella stanzetta terragna dove il Generale stava cenando a pane e fichi.
In umiltà contrita, egli raccontò la sua discesa da Napoli e gli palesò la sua amarezza di aver dovuto constatare che la repubblica era morta e che non aveva saputo parlare in suo nome. Garibaldi posò la sua piccola mano sul tavolo e allontanò il piatto dei fichi, rimanendo un attimo pensieroso e rispose: Amico, […] ricordatevi: gli uomini della consorteria non possono perdonare alla rivoluzione di essere la rivoluzione. Tocca a noi democratici […] evitare il peggio, questa terra scotta e più scotterà in futuro quando mi si accuserà di non aver mantenuto ciò che ho promesso al popolo. Se potessi dare un ordine, […] io comanderei di non seguirmi al nord: siete del paese e avete il prestigio del martirio, uomini come voi debbono tener viva la fede in un avvenire di vera giustizia per tutti. Il tempo non conta e non sempre avremo le mani legate. Io ho troppi nemici e i borbonici non sono i peggiori. Qualcuno bussò alla porta: era un ufficiale con una carta topografica in mano; l’ex galeotto patriota (Domenico o Pasquale?) si congedò da Garibaldi e uscì nella notte fonda.