di Antonio Lucio Giannone
Noi credevamo è il titolo di un romanzo di Anna Banti pubblicato nel 1967 presso Mondadori e ristampato tre volte, almeno fino a pochissimo tempo fa: lo stesso anno presso il Club degli Editori; nel 1969, sempre con Mondadori, insieme ad Artemisia, l’opera più nota della scrittrice, col titolo complessivo di Due storie e con una introduzione di Enzo Siciliano; e nel 1978, da solo, negli “Oscar” Mondadori con una prefazione di Giulio Cattaneo. Proprio negli ultimi mesi del 2010 però Noi credevamo è ricomparso sempre in questa collana con la postfazione del compianto Siciliano[1], essendo ritornato improvvisamente d’attualità in seguito alla realizzazione del film omonimo che il regista napoletano Mario Martone ha tratto recentemente dal romanzo. In realtà, il film di Martone, che è stato presentato alla 67° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed è stato proiettato in anteprima nazionale, lo scorso 19 settembre, presso il Teatro Ducale di Cavallino di Lecce, è liberamente, assai liberamente, ispirato all’opera della Banti ed è perciò solo in minima parte riconducibile ad essa[2].
Noi credevamo è la storia di Domenico Lopresti, un avo dell’autrice (il cui vero nome era appunto Lucia Lopresti), il quale narra in prima persona gli episodi salienti della propria vita, tutta consacrata alla causa risorgimentale[3]. Si tratta insomma di una sorta di autobiografia apocrifa, in quanto ovviamente è la stessa Banti che, alternando la finzione alla realtà, delinea il profilo di questo indomito patriota, sul quale peraltro è assai scarna la documentazione storica. Di Lopresti infatti, oltre alle citazioni contenute nelle Memorie di Sigismondo Castromediano[4], di cui parleremo più avanti, esistono come fa notare Anna Nozzoli in un saggio dedicato al romanzo, solo pochi riferimenti nei libri di alcuni storici[5]. In particolare, questa studiosa segnala la scheda biografica contenuta nel volume di Attilio Monaco, I galeotti politici napoletani dopo il Quarantotto, edito da Treves-Treccani-Tumminelli nel 1932, che è servita verosimilmente alla scrittrice “per l’intelaiatura storica del romanzo”[6].
La Banti in Noi Credevamo, racconta del viaggio di Domenico Lo Presti in Calabria per vedere la madre, che raggiunge nella tenuta di proprietà dell’atro prigioniero di Montesarchio, don Pasquale Staglianò, che era nato e cresciuto a Chiaravalle . Racconta dell’arrivo alla Villa , trovandola deserta; che all’indomani sa da un pastore che la donna vive nella canonica di un suo nipote prete e raggiunge il paese lasciando il cavallo a pascolare, mentre lui sale al paese e trova la donna. Vi rimane per poco e poi ritorna per ricongiungersi con i garibaldini. Eppure Anna Banti doveva sapere che i suoi avi non erano di Chiaravalle Centrale, ma di Pizzo.
Signor Gulli, ci può dire che cosa vuole dimostrare?
Voglio dimostrare che la Banti , nel suo romanzo “Noi Credevamo”, descrive un improbabile viaggio di Domenico Lo Presti a Chiaravalle per trovare e salutare la madre che invece viveva a Pizzo Calabro. A Chiaravalle viveva la madre di Pasquale Staglianò anche lui prigioniero politico nelle carceri Irpine. E’ evidente che la scrittrice si avvale degli scritti Castromediano (anche lui prigioniero politici in Irpinia) nei quali racconta la vita di carcerati e parla ampiamente sia Di Pasquale Staglianò che di Lopresti. Ma confonde alquanto i luoghi.
Don Pasquale trascorse gli ultimi anni di vita a combattere la malattia che aveva contratto durante la sua prigionia e che lo condusse a morte il 20 maggio del 1896. Figura nobile di uomo, di padre, di cristiano e di eroe, di Lui rimarrà memoria ben lontana.
Chiaravalle non fu particolarmente riconoscente verso questo suo illustre figlio: unico atto a ricordo di don Pasquale fu l’intitolazione di una stradina periferica, ma non la Gran Via sul cui snodo sorge la casa avita nella quale egli nacque. Sulla sua figura di combattente per la libertà della Patria e su quella dell’altro Vitaliano Staglianò, condannato a morte e impiccato in Piazza mercato a Napoli dopo la fine della Repubblica Partenopea per medesimi ideali di libertà, gli stessi “familiari borbonici benpensanti” stesero, nel tempo, un velo di silenzio: si erano comportati da briganti tradendo la benevolenza del Re e compromettendo, con le loro azioni, l’amicizia di tutta la famiglia con i Borbone.
Da allora, venne tramandata la figura dei due Staglianò, una come traditore della generosa munificenza Reale e l’altra come brigante per gli atti di ribellione svolti; entrambi rei di aver disonorato la famiglia e reso il Re ostile verso di essa. Nè la “nuova Italia” si ricordò dei due eroi.
Ricordò, invece, entrambi nel romanzo “NOI NOI CREDEVAMO” la scrittrice Anna Banti (Lo Presti Lucia 1895-1950) accumunando suo nonno, Domenico Lo Presti a Pasquale Staglianò, ma nei luoghi e negli affetti che appartenevano a don Pasquale.
Ed infatti la figura di don Pasquale Staglianò che ritorna prepotentemente nel racconto di Domenico Lopresti, suo compagno di galera, personaggio del romanzo “Noi Credevamo,” quando si sovrappone (e agisce) come fosse il chiaravallese don Pasquale, gli ambienti di contrada Madonna e con gli affetti che gli appartengono.
Domenico Lopresti era un personaggio realmente esistito nato a Pizzo Calabro nel 1816 ed era il nonno della scrittice Lucia Lopresti (Anna Banti), autrice del romanzo.
La sua era una famiglia di proprietari terrieri decaduti per colpa del padre di Domenico, ardente carbonaro, seguace di Gioacchino Murat e fautore della Repubblica Napoletana, che aveva anteposto gli ideali della setta di appartenenza al bene della famiglia e del figlio e che era morto per mano dei soldati borbonici.
Lopresti junior, settario come il padre, girò il Reame per comunicare ordini e direttive e partecipò ai moti insurrezionali del 1848. Per tale delitto, come Pasquale Staglianò, fu arrestato e il 14 giugno del 1851 condannato dalla Gran Corte Speciale dell’Aquila a 30 anni di ferri per attività antiborbonica. Dal 1851 al 1859 scontò parte della condanna nei bagni penali di Procida, Montefusco e Montesarchio assieme a Pasquale Staglianò e a Castromediano che nel suo libro parla diffusamente dei suoi compagni di sventura . Di Lopresti racconta che la pena residuale gli venne commutata nell’esilio perpetuo dal Regno e, successivamente, condonata anche se fu trattenuto altri sette mesi nelle malsane e oscure prigioni irpine dove, tra gli stenti e le privazioni, si ammalò e corse il pericolo di perdere la vista.
Gentile signor Gulli, mi fa piacere che lei abbia ricordato la figura di Pasquale Staglianò, un patriota condannato dai Borbone per motivi politici insieme a tanti altri, che viene citato varie volte nelle Memorie di Castromediano. La ringrazio anche per le sue osservazioni che stanno a confermare in fondo che Noi credevamo è un’opera di carattere creativo nella quale la realtà si mescola all’invenzione letteraria e non un saggio storico. Non c’è da stupirsi quindi delle “confusioni” o delle “sovrapposizioni” presenti nel romanzo, da lei notate. La figura del protagonista Lopresti, infatti, è ricalcata su quella di altri patrioti meridionali tra i quali, a mio avviso, c’è anche il brindisino Cesare Braico. Anche lo stesso Castromediano, d’altra parte, nelle sue Memorie, che pure rappresentano una delle fonti di Anna Banti, cita qualche volta Lopresti senza però accennare a un rapporto particolarmente intenso con lui come invece emerge dal romanzo.
Antonio Lucio Giannone
LE TRASCRIVO TUTTO IL CAPITOLO DEL MIO LIBRO UOMNI E TERRE NELLA DEL BELTRAME E DELL’ANCINALE CHE RICORDA LE FIGURE DELLA BANTI, DI PASQUALE STAGLIANO’, DI LOPRESTI ecc.
“DON PASQUALE
GLI ANNI DEL CARCERE DURO
LA “RINASCITA” SOCIALE.
LA CADUTA DEI BORBONE
Don Pasquale Staglianò nato il 28 febbraio 1828, morì il 19 maggio 1896 ad Avellino dove furono celebrati i suoi funerali nel Duomo in mezzo al quale era stato “costruito” un catafalco a forma di peristilio corinzio, sormontato da una statua che rappresentava la religione. Al centro era stato posto il ritratto dell’estinto “cinto da ceri disposti in grandi candelabri alternati a corone di fiori.” Davanti e dietro il piedistallo erano poste le epigrafi: PREGATE// PER L’ANIMA DI PASQUALE STAGLIANÒ// PER INTEGRITÀ DI CARATTERE// RARISSIMO.// PER POLITICHE VICENDE// FRA LE CATENE E I PERICOLI E LE ARMI// EQUANIME// ALLA SPOSA ED AI FIGLI INCONSOLABILI// LASCIÒ INVIDIABILE RETAGGIO// DI CRISTIANE E CIVILI VIRTÙ. Rendevano il servizio d’onore gli uscieri del Municipio e le guardie municipali e daziarie in alta uniforme. In prima fila sedevano la moglie, i figli e i parenti dell’estinto e, poi, il Prefetto della Provincia di Avellino, Comm. Plutino; il deputato Achille Vetroni, fratello della moglie di Don Pasquale; il Maggiore dei RR. Carabinieri, Torquato Olivi; le rappresentanze del Municipio, della Prefettura, dell’Intendenza delle Finanze, del Tribunale Civile e Correzionale, del Circolo sociale, delle diverse Società Operaie, del Comizio Agrario, nonché una larga rappresentanza di avvocati del Foro di Avellino e i personaggi più rappresentativi della cittadinanza. Intorno al catafalco siedevano le suore delle “Figlie della Carità”e le alunne del proprio Istituto; gli orfanatrofi maschile e femminile; il Padre Generale dell’Ordine dei Cappuccini.
La messa fu celebrata dal Vescovo Mons. Francesco Gallo, assistito dal Capitolo, dal Clero e dal seminario. Pronunciò l’elogio funebre Monsignor Modestino Ottaviani, esaltando l’amore per la Patria che lo spinse a combattere contro i tiranni per la sua libertà, unità e grandezza e per cui i tribunali del tempo condannarono a morte, pena in seguito commutata a 25 anni di ferri in quanto minorenne. Monsignore Modestino, quindi, ne descrisse le doti di sposo affettuoso e padre tenerissimo, esaltando al tempo stesso l’uomo pieno di spirito, dedito a fare il bene e a porgere sollievo alle sventure umane. Salutò don Pasquale Staglianò, uomo amato e stimato, una folla di popolo venuta anche dai paesi limitrofi.
Assente Don Giuseppe morto giovane, era presente la madre, la nobildonna Francesca Paola Francica di Mileto che seguì figli prima nella crescita spirituale, fisica, intellettuale e dopo il 1848, seguì Pasquale sulla via della Croce in Irpinia.
Il piccolo Pasquale, a sette anni (nel 1835 o nel 1837?), entrò nel collegio di Mileto. I professori, vedendolo studioso e sveglio, lo seguirono con grande amore sperando nel meglio e non li deluse. Ma sopravvennero tempi nuovi e, ovunque, “risuonarono voci di amor di Patria, di libertà, di una nuova civiltà. I Figli della Vedova,” nella sacralità dei Templi (e delle Vendite) indicavano la via giusta per liberare l’Italia, “l’Alma parens di Virgilio, che appariva allo sguardo degli eroi serva Italia di dolore ostello (Dante), regina infelice che, perso il diadema, beveva nel calice del dolore anche l’insulto.” Così, per vendicare l’oppressione dispotica della Patria, uomini liberi e di buoni costumi si unirono “giurando morte o libertà.”
Don Pasquale non fu nè cospiratore, nè settario. Fu uomo d’azione e, quando se ne presentò l’occasione e ne percepì l’importanza, guidò gli uomini della Guardia Civica di Chiaravalle sottoposti al suo comando a combattere contro l’esercito borbonico schierato all’Angitola.
Non si sa se il giovanissimo Don Pasquale sia stato iniziato alla Massoneria. Se sì, il suo impegno in Loggia durò poco per gli eventi che lo hanno portato in carcere a scontare una condanna a 25 anni. Il 1848 fu l’anno dei grandi cambiamenti.
Fino ad allora i pensieri e i discorsi di don Pasquale e degli amici furono sempre rivolti ai dolori […] della Patria, questa volta non scevri di speranze per le notizie che provenivano da lontano e che annunciavano cambiamenti liberali nel Reame, ma anche nello Stato Pontificio dove il Papa Pio IX prometteva la concessione della costituzione.
I patrioti calabresi e siciliani poi, desiderosi di ottenere le libertà costituzionali, erano pronti a sollevarsi contro il tiranno sulla scia degli echi di riforme concesse in ogni angolo d’Italia e che rappresentavano “il soffio di un lieto avvenire.”
La sera Pasquale e gli amici fidati, passeggiando per le stradine di Chiaravalle, commentavano le notizie che arrivavano da Napoli alle quali si stentava a credere: la promessa anche da parte del Re Borbone della concessione di uno Statuto, dell’elezione di rappresentanti del popolo al Parlamento, della successiva formazione di un nuovo governo.
Il 10 febbraio del 1848 Ferdinando II promulgò lo Statuto con il quale concesse ai popoli del suo Regno Costituzione e privilegi sociali; le concessioni coronarono i lunghi anni di lotta e di sangue.
Il 18 aprile 1848, i sudditi del Reame furono chiamati alle urne per eleggere i propri rappresentanti da inviare al Parlamento di Napoli. Nelle tre Circoscrizioni calabresi, furono eletti 27 deputati in rappresentanza di 1.111.325 abitanti. Ma la gioia dei patrioti durò poco perchè le concessioni liberali e gli atti formali assunti dal Re “furono gettati alle ortiche” dopo solo tre mesi. Il 15 maggio del 1848 i patrioti sentirono “più acerbo il dolore per l’inganno subito perché i fatti che si susseguirono dimostravano che il Re non fosse mantenitor di fede e […] esser la sua parola pretta menzogna […]”.
I giornali, infatti, invece di raccontare dell’apertura del Parlamento, del discorso della Corona e delle feste organizzate per inaugurare il grande evento, scrissero che i patrioti di Napoli avevano alzato le barricate per le vie per protestare contro il Re spergiuro che, ignorando la Costituzione da poco concessa, aveva impedito ai ministri costituzionali di entrare nella Corte e ai deputati eletti l’ingresso al palazzo di Monte Oliveto per l’insediamento. La ribellione che seguì fu repressa duramente e, ancora una volta, le strade di Napoli “eran state lorde del sangue cittadino.”
La Calabria ha sempre dato alla Patria uomini illustri nelle armi, nella toga, nelle umane lettere “i quali illustrarono e l’antico regno e la nuova Italia ed ebbero larga parte nella rigenerazione nazionale”.
Pasquale Staglianò non fu da meno. Egli coltivò e conservò sempre l’amore per la Patria ed esultò ad ogni occasione fino a quando le speranze di libertà e di indipendenza (sopite dopo le infelici campagne di Lombardia, dopo i disastri di Carlo Alberto, dopo i tanti tumulti della Toscana, delle Romagne e di altre regioni d’Italia) furono rinverdite dalla concessione di riforme e di Statuti e dalla guerra contro l’Austria che avevano fatto presagire una possibile liberazione del suolo d’Italia.
Ben presto il Re di Napoli aveva ritirato la Costituzione, revocato i diritti giurati al popolo, sciolto il parlamento appena eletto e represso in un bagno di sangue i moti di protesta scoppiati a Napoli e, successivamente, in Calabria e a Messina.
I 25 deputati calabresi, legittimamente eletti al Parlamento di Napoli, si rifugiarono ognuno nelle terre natali o emigrarono in terre ospitali e, per nulla disposti a cedere, presentarono una vibrata protesta contro il tradimento di Ferdinando II: chiamarono il popolo alla rivolta, formarono un governo provvisorio a Cosenza la cui presidenza fu affidata a Giuseppe Ricciardi mentre Benedetto Musolino ricoprì la carica di esperto negli affari di guerra. Dalle barricate di Napoli, la rivolta si era spostata nella Calabria: i 33 giorni dimostrarono al mondo con quale entusiasmo e passione i calabresi seppero lottare per l’indipendenza con il piccolo esercito di due colonne mobile, una schierata a Spezzano Albanese (CS) e l’altra, composta da seicento uomini, nella piana di Filadelfia (CZ) al fine di controllare il passo del fiume Angitola.
Il sei giugno 1848 una squadra navale regia approdava a Pizzo Calabro e sbarcava una colonna di oltre 2.000 uomini al comando del generale Nunziante, che installava il suo quartiere generale a Monteleone (Vibo Valentia). La forza regia, che con i rinforzi assommava a 5.000 uomini, attaccò i rivoltosi all’alba del 27 giugno 1848. Ma il vero fatto d’armi ebbe luogo lungo la sponda nord del fiume Angitola dove le forze regie affrontarono i 450 rivoluzionari al comando di Francesco Stocco che si comportò da eroe, “ma non da acuto condottiero”.
Nelle prime fasi, le sorti dello scontro furono favorevoli ai rivoltosi e solo per pura sfortuna non uccisero Nunziante che si salvò travestendosi da semplice soldato e nascondendosi in mezzo alla truppa, che lo credette per lungo tempo morto. In seguito egli, unitamente ai generali Bisaccia e Lanza al comando delle rispettive truppe, più disciplinate e meglio armate, ebbero ragione dei rivoltosi. Né valse la resistenza dei patrioti calabresi congiunti a quelli siciliani comandati dal Generale Ribotti, a respingere la forza regia, contro cui combatterono strenuamente e caddero con le armi in pugno e la fede nel cuore, o furono fatti prigionieri.
Al diciottenne Pasquale Staglianò era stato affidato il comando della Guardia Nazionale di Chiaravalle. Doveva obbedienza al re Borbone in cambio del grado di comandante attribuitogli dai Reggitori dell’università. Ma in quei giorni convulsi egli schierò i suoi uomini con i patrioti; un comportamento che fu delitto di Lesa Maestà.
Don Pasquale fu arrestato e il comandante delle Calabrie, Maresciallo di campo Mosè Nunziante, spedì al segretario di Stato di Grazia e Giustizia un dispaccio “[…] perché si compiaccia rimanerne inteso che l’Ill/mo signor don Pasquale Staglianò, ricercato perché accusato di reato politico contro la sicurezza interna dello Stato, era stato arrestato.”
Il processo contro i patrioti calabresi fu celebrato dalla Real Corte Speciale della Calabria Ulteriore, che comminò pesanti condanne; a don Pasquale Staglianò la pena capitale, poi scalata di due gradi (corrispondenti a 25 anni di ferri) perché quando aveva commesso il delitto non aveva ancora raggiunto la maggiore età (21 anni). Ebbe inizio per lui il calvario: i bagni penali di Montefusco, Procida, Nisida e Montesarchio l’ospitarono fino al 1860.
La madre gli fu vicino ed è facile immaginare, più che descrivere, le cure per questo figlio e i suoi interventi a corte per commuovere il cuore della Regina. Da fervente cristiana, donna Francesca rivolse le sue preghiere alla Madonna della Pietra, a San Biagio e a San Francesco da Paola perché intercedessero in favore del figlio.
Proprio in questo periodo la nobil donna, arricchì la Parrocchiale di Chiaravalle di due altari ancora oggi esistenti. Cercava, anche con l’aiuto dei Santi, di alleviare le sofferenze del figlio dall’inferno di quelle carceri per le criticità dei locali e le nequizie di guardie e comandanti; molto dure furono soprattutto le nequizie perpetrate nel bagno penale di Procida dal capitano Angelo Acuti distintosi per la sua ferocia.
I bagni penali erano “lager” creati allo scopo di abbrutire l’uomo: disciplina ferrea e inumana, locali inadeguati e antigienici, vitto scarso e fame. I carcerati erano […] accolti nel bagno di recezione dove venivano rasati, ferrati a coppie, forniti del vestiario e assegnati ai cameroni […]. Qui dovevano convivere con i delinquenti comuni, dormire sul pavimento avvolti nelle coperte, gli uni addossati agli altri, tormentati da topi e insetti, e costretti a sopportare il fetore che proveniva dai tini di legno, fracidi e senza coperchio, che servivano ai bisogni corporali. Pochi erano coloro che avevano la fortuna di riposare su tavole appoggiate su trespoli o, caso assai più raro, su materassi. Le condizioni igieniche delle carceri in cui anche don Pasquale trascorse un lungo periodo della sua giovine esistenza, erano miserevoli: pareti annerite e prive d’intonaco, il pavimento scomposto e una copertura […] tanto bassa che i meno alti […] la toccavano con le dita.
Dalle crepe uscivano tanti insetti, che durante la notte cadevano come pioggia sui corpi dei galeotti; dai buchi del pavimento topi, ragni, scarafaggi e altri insetti. La precarietà dei due stanzoni, che insieme sommavano appena a circa 45 metri quadrati, appariva in tutta la sua evidenza quando venivano sistemati i letti che risultavano attaccati l’uno all’altro e, per coricarsi, era necessario salire dalla parte dei piedi di ciascun materasso. Per potersi muovere durante la giornata, tavole e materassi si dovevano addossare al muro e assicurare con legacci. In estate, il caldo mutava quelle topaie in caldaie bollenti, e non vi si resisteva “anche a volersi spogliare e rimanere ignudi;” e diventavano fornaci se si accendeva il fuoco per cucinare qualcosa di diverso in sostituzione della solita broda. Comunque, malgrado le numerose criticità che presentavano, i bagni di Montefusco rimanevano tra i preferiti dai carcerati perché erano maggiormente illuminati e dalle finestre si potevano scorgere “monti e valli, alberi e pasture e uccelli vagare, e acque scorrere e, sebbene lontano lontano, casolari e paesi. […] La fantasia vagava tra quell’aperto dei campi e i prigionieri avvertivano […] una parvenza di libertà perché a contatto visivo con l’umanità e con la natura.”
A Montesarchio, la sistemazione dei prigionieri politici presentò, ai galeotti ivi trasferiti, miglioramenti importanti: vennero restituite le posate, parte dei libri requisiti a Montefusco; fu messa a disposizione una stanza di scrittura per comunicare con i propri cari; fu concesso l’uso del vaglio che consentiva di passeggiare qualche ora ogni giorno all’aria aperta; si potevano ricevere aiuti economici più consistenti per poter far fronte alle ingenti spese che si dovevano affrontare per avere cibi diversi; furono liberati dalla lunga e pesante catena condivisa con l’altro galeotto, sostituita da una più corta e più leggera che permetteva di muoversi autonomamente e, cosa importante, fu concesso di sottrarre pochi metri di terra al vaglio per realizzare un girdino.
La notizia di queste semplici concessioni fu amplificata e propagandata dai Borboni tanto da fare apparire “la nuova galera quasi un palagio di principi […] in cui i detenuti potevano persino godere della delizia di un giardino” oltre che di un nuovo bagno penale “meno opprimente dei precedenti con le pareti pitturate di bianco, pavimenti lisci, imposte […] dipinte, e ferri dei cancelli e delle finestre più sottili e dove anche il comportamento dei carcerieri appariva meno aspro e meno duro: dai loro volti era scomparso il cipiglio […] feroce, col quale avevano dominato i galeotti. “Ora il loro comportamento era […] più calmo e meno ostile, ma sempre finalizzato ad impedire ai prigionieri politici di relazionarsi fra di loro e con l’esterno.” Per cui le visite dei parenti, già rare negli altri bagni penali, a Montesarchio furono dilatate nel tempo e rese sempre più difficoltose e la vigilanza più stringente.
Si cominciò anche a insultare chiunque non avesse voluto rinunziarvi spontaneamente e si usò violenza nei confronti della moglie, figlie, sorelle e madre del detenuto Nisco, per indurle a rinunciare a vederlo. Ma esse “tutto sopportarono con altezza di animo, pur di giungere […] fino ai cancelli e vedere, fosse solo per un momento, il congiunto” .
Un trattamento anche peggiore ebbe al cavaliere Palermo, zio dei fratelli Schiavone: il vecchio, scarcerato da poco (era stato anche lui arrestato per fatti politici), appurò che i propri nipoti Nicola e Nicodemo erano detenuti uno a Procida e l’altro a Montefusco; decise allora di lasciare la Calabria e trasferirsi a Napoli per seguirne la sorte.
Quando poi ottenne il permesso, si portò prima a Procida dove gli fu concesso subito di vedere il nipote. A Montefusco invece lo fecero attendere tre giorni. Gli incontri durarono poco, ma ebbero conseguenze disastrose per il signor Palermo che tornato a Napoli nella sua camera d’albergo, fu fermato, ammanettato e rinchiuso alla Vicaria dove rimase per 15 giorni in isolamento senza che alcuno dei parenti ne sapesse qualcosa e senza neanche disporre del cambio della biancheria intima.
Anzi a suo carico fu istruito e celebrato un processo perché accusato di essere stato latore di “corrispondenza criminosa tra il bagno di Procida e quello di Montefusco”. Ma al processo venne assolto con la formula: Non consta. Malgrado l’assoluzione, egli fu trattenuto in carcere per altri sei mesi a conclusione dei quali fu rispedito in Calabria con obbligo di dimorare 40 chilometri lontano da Grotteria (CZ), il paese dove era nato e dove possedeva i propri beni.
L’8 febbraio del 1852 a Montesarchio furono trasferiti cinquanta detenuti politici tra cui: da Ischia, il barone Nisco di Avellino e il calabrese Poerio Carlo condannati rispettivamente a 30 e 24 anni di carcere; da Procida, i calabresi Lopresti Domenico, benestante di Pizzo, condannato a 30 anni, Palermo Nicola, benestante di Grotteria, a 23 anni, Perri Giuseppe, benestante, a 30 anni, Rottura Luigi, negoziante, condannato ad anni 30, Surace Stefano, benestante, condannato a 30 anni.
Da Nisida furono trasferiti: Gatto Saverio e Mangano Francesco, benestanti di Nicastro, e Staglianò Pasquale, benestante di Chiaravalle, tutti per scontare 25 anni di carcere.
Anche a donna Francesca Francica, che si era recata a Motefusco per vedere il figlio, in principio, fu negato il il permesso; quando le venne accordato e fu nella gabbia alla vista del figlio, “fu presa […] da una piena d’affetto e, ignara delle prescrizioni regolamentari, protese il braccio fra le spranghe del cancello, spinta dal desiderio di toccare, con la propria, la mano del suo diletto, il quale […] aveva fatto […] lo stesso dall’altro lato. Quelle mani per toccarsi rimaneva ancora lo spazio di un altro metro impossibile a superare; eppure quell’atto mise i brividi ai custodi che se ne spaventarono. Un grido d’allarme echeggiò e un gendarme saltò nella gabbia e si frappose fra le due mani, impotenti a stringersi. Così fu strappata la madre alla vista del figlio, e il figlio a quella della madre; e il meglio fu che non s’ebbero a deplorare tristi conseguenze. “
I prigionieri portarono con sé a Montesarchio le malattie, che avevano contratto nei bagni penali precedenti:
Carlo Poerio, una recrudescenza della sua bronchite cronica. Dono delirò per le febbri alte che lo tormentavano, Pasquale Staglianò per i reumi che diventarono insopportabili. Ma non potevano essere curati perchè, chi aveva avuto l’idea di dotare di un nuovo i detenuti politici, non aveva avuto l’accortezza di predisporvi spazi idonei per ricoverare gli infermi. Solo dopo molteplici proteste, fu fatto intervenire un medico che fece allestire un locale con otto letti per la degenza dei carcerati sofferenti.
L’ultimo ad essere ricoverato fu proprio Pasquale Staglianò, “assai distinto per educazione e censo, docile d’animo, affabile e bello,” il quale, non reggendosi in piedi, venne sorretto dai gendarmi e procedeva a stento e a passo lentissimo.
Non è documentato se, nel 1860, dopo essere stato rimesso in libertà a seguito degli sconvolgimenti di quegli anni, don Pasquale sia tornato a Chiaravalle per riabbracciare i familiari, né se abbia seguito i garibaldini che risalivano verso Napoli, come fecero molti dei detenuti politici del bagno penale di Montesarchio, in seguito chiamati dai governi a “dirigere pubblici Uffici di cui erano degni per aver lottato e sofferto per la Patria.”
È, forse, da escludersi che egli il 2 luglio del 1860, abbia offerto l’ultima prova del suo sacrificio unendosi alle camice rosse di Garibaldi e proseguendo a combattere per conquistare Napoli prima dell’arrivo delle truppe piemontesi guidate dal Re?
Vincitore, ma disilluso, don Pasquale non ebbe disegni ambiziosi, e non menò vanto delle pene sofferte per la sua Patria […]. Uomo d’azione, aveva operato e sofferto molto […] ma […], né brigò o mercanteggiò mettendo sul piatto della bilancia le pene sofferte per averle compensate con onori, potere, e denaro. Perchè soddisfatto del dovere compiuto, non chiese compensi. Nel 1861 accettò, comunque, la nomina di Ispettore delle Dogane e di Ricevitore delle Privative, incarico che esercitò per 36 anni con probità tanto da meritare le lodi dal Governo.
Nel 1875 si unì in matrimonio con donna Elena Vetroni, sorella del deputato Achille; il matrimonio fu allietato dalla nascita di sei figli: Giuseppe, Nazzareno, Adolfo, Bettina, Elvira e Francina che furono il suo orgoglio. Si legò alla nuova famiglia avellinese e non ebbe un attimo di esitazione a porgere il suo aiuto fornendo il contante necessario ai Vetroni quando la banca, fondata e gestita dal capostipite, presentò delle criticità finanziarie.
Nel 1884 don Pasquale fu eletto nel consiglio comunale di Avellino nel quale ricoprì la carica di assessore anziano. Nell’espletamento del suo mandato amministrativo egli si considerò sempre servitore del popolo che lo aveva eletto; fu solerte e contribuì a conseguire due importanti obiettivi: il pareggio del bilancio e la formazione di un fondo di decine di migliaia di lire in eccedenza di Cassa. E quando, in seguito, fu nominato membro del banco di Napoli, continuò a esercitare l’ufficio di Ispettore delle dogane e di Ricevitore delle Privative.
Nello stesso anno dell’elezione nel civico consesso, in Irpinia infuriò l’epidemia colerica che stroncò tante vite ed egli, dimenticando se stesso, soccorse e aiutò gli infelici, alleviò i dolori, confortò i tribolati e accolse, spesso, l’estremo anelito dei morenti. Anche nell’occasione non risparmiò né fatiche, né denari per aiutare e contribuire ad arrestare i danni del morbo. In premio del suo amore per gli altri ebbe dal Re la medaglia dell’Ordine della Corona. Si ritirò, poi, a vita privata disilluso da come venne affrontato il problema determinato dalla ripresa del brigantaggio: il governo lontano e senza esperienza dei luoghi e delle esigenze della gente del sud, risolse il problema mandando allo sbaraglio militari mal comandati e sprovvisti dei mezzi necessari alla guerriglia.
Dalla cruenta repressione, i capi banda si salvarono fuggendo, mentre i poveri bifolchi, che avevavo sperato di ottenere la disponibilità di un “fazzoletto” di terra da coltivare, pagarono con la vita o con la libertà.
La repressione post unitaria, nella maggior parte dei casi, colpì persone bisognose di terra e di lavoro e non persone selvagge e delinquenti.
Don Pasquale trascorse gli ultimi anni di vita a combattere la malattia che aveva contratto durante la sua prigionia e che lo condusse a morte il 20 maggio del 1896. Figura nobile di uomo, di padre, di cristiano e di eroe, di Lui rimarrà memoria ben lontana.
Chiaravalle non fu particolarmente riconoscente verso questo suo illustre figlio: unico atto a ricordo di don Pasquale fu l’intitolazione di una stradina periferica, ma non la Gran Via sul cui snodo sorge la casa avita nella quale egli nacque. Sulla sua figura di combattente per la libertà della Patria e su quella dell’altro Vitaliano Staglianò, condannato a morte e impiccato in Piazza mercato a Napoli dopo la fine della Repubblica Partenopea per medesimi ideali di libertà, gli stessi “familiari borbonici benpensanti” stesero, nel tempo, un velo di silenzio: si erano comportati da briganti tradendo la benevolenza del Re e compromettendo, con le loro azioni, l’amicizia di tutta la famiglia con i Borbone. Da allora, venne tramandata la figura dei due Staglianò, una come traditore della generosa munificenza Reale e l’altra come brigante per gli atti di ribellione svolti; entrambi rei di aver disonorato la famiglia e reso il Re ostile verso di essa. Nè la “nuova Italia” si ricordò dei due eroi.
Ricordò, invece, entrambi nel romanzo “NOI NOI CREDEVAMO” la scrittrice Anna Banti (Lo Presti Lucia 1895-1950) accumunando suo nonno, Domenico Lo Presti a Pasquale Staglianò, ma nei luoghi e negli affetti che appartenevano a don Pasquale.
Ed infatti è la figura di don Pasquale Staglianò che ritorna prepotentemente nel racconto di Domenico Lopresti, suo compagno di galera, personaggio del romanzo “Noi Credevamo,” quando si sovrappone (e agisce) come fosse il chiaravallese don Pasquale, gli ambienti di contrada Madonna e con gli affetti che gli appartengono.
Domenico Lopresti era un personaggio realmente esistito nato a Pizzo Calabro nel 1816 ed era il nonno della scrittice Lucia Lopresti (Anna Banti), autrice del romanzo.
La sua era una famiglia di proprietari terrieri decaduti per colpa del padre di Domenico, ardente carbonaro, seguace di Gioacchino Murat e fautore della Repubblica Napoletana, che aveva anteposto gli ideali della setta di appartenenza al bene della famiglia e del figlio e che era morto per mano dei soldati borbonici.
Lopresti junior, settario come il padre, girò il Reame per comunicare ordini e direttive e partecipò ai moti insurrezionali del 1848. Per tale delitto, come Pasquale Staglianò, fu arrestato e il 14 giugno del 1851 condannato dalla Gran Corte Speciale dell’Aquila a 30 anni di ferri per attività antiborbonica. Dal 1851 al 1859 scontò parte della condanna nei bagni penali di Procida, Montefusco e Montesarchio assieme a Pasquale Staglianò e a Castromediano che nel suo libro parla diffusamente dei suoi compagni di sventura . Di Lopresti racconta che la pena residuale gli venne commutata nell’esilio perpetuo dal Regno e, successivamente, condonata anche se fu trattenuto altri sette mesi nelle malsane e oscure prigioni irpine dove, tra gli stenti e le privazioni, si ammalò e corse il pericolo di perdere la vista.
Giovine […] ben educato, colto e distinto, del tutto ignaro di quanto era capitato a suo padre e delle ragioni che lo avevano portato alla morte, si era avvicinato alla fede dei Fratelli della Giovane Italia e aveva iniziato la sua militanza come corriere e cospiratore nelle regioni del Sud. Ciò fino alla partecipazione ai moti risorgimentali del 1848.
Ottenuta la libertà, riprese a svolgere i compiti propri del settario; venne inviato nuovamente in Calabria per stringere accordi con i comitati insurrezionali sorti per facilitare la marcia di Garibaldi; successivamente, operò per convincere i suoi conterranei a votare SÌ al plebiscito imposto dai Savoia.
La sua, così come quella di Pasquale Staglianò, fu una vita spesa per realizzare gli ideali repubblicani, di giustizia sociale e di riscatto del popolo dalla miseria, dall’ignoranza, dal malcostume. Aveva ammirato molto Garibaldi tanto che il suo primo pensiero, appena libero, fu di seguirlo nell’ultima impresa e nella triste avventura di Aspromonte durante la quale l’eroe rischiò la morte per fuoco amico. Egli visse quell’episodio come un tradimento delle idee per le quali aveva combattuto e speso gran parte della sua giovane esistenza.
Quando, da repubblicano, era stato costretto ad accettare il compromesso di un’Italia sotto la monarchia dei Savoia ritenuti peggiori dei Borbone, si era rassegnato a vivere la vita d’impiegato accettando l’incarico di Direttore delle dogane prima in Calabria con sede a Reggio e, poi, in Piemonte con sede a Torino. E non si oppose ai voleri dei Savoia neanche quando essi decisero di far svolgere i plebisciti per le annessioni accettando, “ab torto collo”, di diventare un apostolo di quel Plebiscito e convincere i cittadini a votare “Sì”.
Aveva superato i 30 anni quando egli sposò Marietta, che gli regalerà tre figli per i quali nutrirà un amore infinito, ma sofferto e carico di presagi negativi per il loro futuro in un paese guidato da governi ciechi e disinteressati a qualsiasi istanza di rinnovamento e di progresso sociale per la sua Calabria.
Su decisione di questi governi, Lopresti fu sradicato dagli affetti più cari e dalla sua terra, lontana, selvaggia, aspra e infelice, e venne trasferito a Torino in una sede che egli sentiva totalmente estranea. Nella città piemontese ripercorse il suo passato e i legami avuti con altri patrioti dei quali molti furono uccisi negli scontri insurrezionali dallo stesso esercito sabaudo divenuto italiano e altri che, dopo le imprese risorgimentali, avevano accettato cariche pubbliche o occupato posti di potere, al governo o al Parlamento, dimenticati, disillusi e sfiancati da tutto quello per cui avevano consumato invano anni di galera.
Egli ricordava con estrema chiarezza le differenze politiche che dividevano i patrioti: liberali, monarchici, repubblicani, mazziniani, insurrezionalisti, rivoluzionari, giacobini e carbonari; riviveva i forti contrasti e i conflitti di quegli anni per spiegarsi e spiegare da quale complessità e varietà di idee e di disparità economiche, sociali e politiche fosse nata la nuova Italia, quella strappata ai Borbone, ma consegnata ai Savoia che ignorarono i sacrifici e le aspettative di quanti avevano lottato immaginandoLa diversa. Lo stesso Garibaldi era solito dire: “Io ho molti nemici e i Borbone non sono i peggiori.”
Era presente nei ricordi di don Domenico l’analisi del rapporto tra il popolo e i gruppi di insorti, la partecipazione popolare all’impresa garibaldina e i legami del brigantaggio con il potere prima borbonico e poi sabaudo.
Domenico Lopresti (o Vitaliano Staglianò?) “appare come un eroe romantico, carico di contraddizioni, di ripensamenti, di critiche e di rimpianti, portatore di idee nuove e progressiste.” Nelle parole finali del romanzo la Banti parla dell’eroe (eroi) come di uomo//uomini disilluso//disillusi e amareggiato//i, ma che vede nelle idee per cui ha//hanno lottato l’unica salvezza.
Ciò che maggiormente colpisce del romanzo della Banti è la “sovrapposizione” di Domenico Lopresti che (alter ego o ombra di Pasquale Staglianò), raggiunge e si muove in luoghi che non gli appartengono, parla con un prete che non è suo fratello, e con con una donna che non è sua mamma; e descrive luoghi, oggetti ed arredi che non gli sono familiari.
É vero, invece, che i due fossero giovani insurrezionalisti e con ruoli diversi, rinchiusi per anni nelle stesse carceri borboniche dell’Irpinia per la loro fede politica e per la partecipazione attiva ai moti insurrezionali di quegli anni convulsi e ricchi di fede e azione. Ma nel romanzo sono due vite che corrono parallele e sovrapposte, che si incontrano e si intrecciano nel credo politico e nell’azione; personalità e azioni diventano “una sola” così che, quando i patimenti stanno per finire e sta per ricominciare una nuova vita, don Domenico incarna e agisce come fosse (o è?) don Pasquale.
Entrambi sanno di non essere né borghesi, né aristocratici; entrambi hanno la certezza di non appartenere al popolo, ma neppure alla borghesia dei medici e degli avvocati; entrambi danno per scontato di essere dei “galantuomini”, cui però non interessa fregiarsi del titolo nobiliare delle loro mamme di cui, invece, andavano fieri i fratelli. Entrambi avevano a malapena conosciuto i loro padri, morti quando erano in tenera età.
Domenico Lopresti, da fanciullo, aveva fantasticato troppo sul padre, ma, non avendo mai raggiunto una certezza, aveva deciso che non ne valeva la pena porsi tante domande: s’immaginava fosse venuto dalla Sicilia e che fosse ricco e, sapere ciò, gli era sufficiente.
Ma le cose stavano veramente così?
Chi poteva vantare una presenza familiare in Sicilia era don Pasquale Staglianò il cui cognome a Sant’Angelo di Brolo (ME) contrassegna ancora oggi un fitotopònimo e un borgo (rispettivamente Bosco, Angre e Borgo Staglianò) e annoverava terreni conosciuti con nomi uguali a quelli esistenti nel territorio di Chiaravalle che furono proprietà di questa famiglia.
Quando uscirono dalla prigione, Staglianò e Lopresti furono nominati entrambi ispettori delle dogane (Lopresti a Reggio Calabria e poi a Torino e don Pasquale in Irpinia). Tutti e due trascorsero il resto dei loro giorni lontani dalla loro terra d’origine non per propria scelta, ma perché costretti dalle circostanze e per fare cadere nell’oblio il torto perpetrato nei confronti dei rispettivi familiari quando avevano anteposto i propri ideali agli interessi della famiglia. É, invece, la madre, donna Francesca Francica a partire per Avellino, dove morirà confortata dall’affetto dei cinque nipoti e di quel figliolo sventurato, ‘u briganti abbandonato da tanti per non perdere i benefici del Re Borbone, ma in tempi diversi mostrato come l’eroe della famiglia ai Savoia.
Questa è la storia vera; ma la Banti va oltre nell’invenzione letteraria: racconta l’ipotetico viaggio del nonno verso la Calabria per unirsi a Garibaldi e, (sorpresa), la decisione di raggiungere Chiaravalle (e non Pizzo) per abbracciare la vecchia mamma che troverà non già nella villa (dipinta di colore roseo) di contrada Madonna, ma nella canonica annessa alla chiesa baraccata, ospite del nipote prete dichiaratamente borbonico. E qui, tra finzione e realtà, viene descritto un incontro quasi surreale con una donna fragile e fuori di testa per l’età.
I luoghi presentati sono quelli di Contrada Madonna e la chiesa è localizzata al limite della Piazza di Sopra, verso il grosso del paese, nelle cui vicinanze vi era la casa avita che conservava la statua della Madonna delle Sette Spade (l’Addolorata) vestita di seta nera ricamata d’argento; la madre di don Pasquale, infatti, la teneva sul cassettone nella sua camera ed era ancora presente in tempi non lontani nella casa dei Castiglione Morelli di via Ghidoni abitata da don Vitaliano e poi dalla famiglia di Kaba Staglianò e ora è nella chiesa matrice di Chiaravalle.
I luoghi, gli oggetti, l’ubicazione delle case e della villa rappresentati dalla Banti e ora raccontati da Lopresti sono quelli appartenenti alla famiglia di don Pasquale.
Per la Banti, però, è suo nonno che a piedi, in carrozza o a cavallo, dopo aver coinvolto, assoldandoli lungo il tragitto altri sbandati, arriva a Cosenza, da dove devia per Catanzaro e da qui decide di raggiungere Chiaravalle per abbracciare la sua vecchia mamma perché gli erano venute in mente le terre dei suoi, forse confiscate per colpa sua (chi sa da chi ora possedute e magari incolte).
Il dato sicuro è che la famiglia dei Lopresti non possedeva terre a Chiaravalle ed é da escludere che don Domenico vi potesse trovare sua madre che aveva sempre vissuto a Pizzo; e, a ben pensare, le terre di Chiaravalle non potevano essere state confiscate perché don Pasquale non era il primogenito dei coniugi Staglianò-Francica.
La Banti scrive: “La decisione di partire […] fu improvvisa e perentoria […]. L’immagine della madre emergeva dalle brume del passato, e pareva lo chiamasse. […]. Il suo pensiero prevalse: devo rivederla, si diceva, è il mio dovere. “
Raggiunse Chiaravalle a notte fonda senza badare che “[…] un viaggiatore solitario, di notte, rischia una schioppettata anche in tempo di pace […].[…] prese la carrozzabile […] scorrevole che permetteva un più ampio sguardo sulla vallata. Infatti dopo un buon tratto, distinse laggiù profili di tetti e, in fondo, la massa biancastra di […] Chiaravalle. Dalle case […] non trapelava lume, perché i villani, rientrati dal lavoro, usavano rintanarsi e andare a letto al buio. All’improvviso […] un furioso abbaiar di cani lo fece trasalire. Fu a quel punto che si trovò al cancello di casa. Fermato il cavallo e sceso, andava tastando i muretti che cingevano il giardino e l’agrumeto […] (un agrumeto a Chiaravalle! …). Alla cieca le mani del viaggiatore incontrarono la catena che reggeva il campanello, le maglie oblunghe, il cerchio dell’impugnatura ancora spezzato e riparato alla meglio da un fil di ferro, che se non si faceva attenzione, graffiava la mano .
All’abbaiare e al ringhiare dei cani, rammentò che la madre (infatti donna Francesca non amava quegli animali) e, quindi, non era possibile abitasse più in quella villa “dove si respirava l’alito salino del mare” ( “alito salino di mare” a Chiaravalle?!).
Quella, ora, non doveva essere più la sua casa,” pensa Lo Presti né fu sorpreso il mattino dopo di apprendere da un pastorello che il casino apparteneva a tal don Tiburzio “forse un gabellotto arricchito, pensò, magari una spia che aveva approfittato delle disgrazie della famiglia per appropriarsi delle terre. Ma, aggiunse il pastorello, prima, ci stava una signora di Pizzo vecchia e adesso sta con il parrocchiano che è suo nipote.”
Nella famiglia di don Pasquale non erano mai mancati i sacerdoti che avevano contribuito a dare importanza sociale alla casata e accresciuto sempre più il patrimonio familiare. Ed ora si fa apparire il curato di Chiaravalle, che abita in una casa posta nei pressi della piazza, nelle vicinanze della chiesa parrocchiale distrutta nuovamente dal terremoto.
Lopresti lasciò il cavallo libero a rifocillarsi in quel campo e si avviò a piedi sulla strada che menava al paese.
Ricordava che la parrocchiale distava dalla villa poco più di un miglio, localizzata in una piazzetta dopo le prime case.
La chiesa più vicina al roseo fabbricato della villa di contrada Madonna era quella di Spirito Santo o di San Nicola? Era una di queste due quella più vicina alla villa affidata alle cure di Don Gioacchino?
Comunque, scrive la Banti, era una chiesetta povera, ma antica, di gran pregio, […] stucchi grossolani, appiccicati alle pareti di pietra grigia, fiori di carta, merletti finissimi delle tovaglie, lavoro e dono di mia madre. “[…]
Per tutto il percorso il viaggiatore non incontra che un paio di contadini sul loro asino. Arrivato alla piazzetta, cerca invano la vecchia chiesa: al suo posto di notte vede mura sgretolate e cieche, mucchi di pietre frantumate. Conseguenza del terremoto del 1854 […] che aveva fenduto le mura di Montefusco (al tempo in cui don Pasquale e Lopresti erano rinchiusi in quelle carceri); si era abbattuto anche a Chiaravalle o riferimenti al terremoto del 1783?.”
Al limite della piazzetta, verso il grosso del paese, vide un fabbricato rozzo quasi una stalla, sormontato da una croce di ferro. Non c’era campanile e la porta di legno grezzo aveva i battenti accostati, che a una leggera spinta, cedettero. Comunque […] era una chiesa, la più semplice che avessi mai veduto. Le pareti erano scialbate grossolanamente. Ciò malgrado, l’unico altare un paio di candelieri ben lustri, due carte gloria e, a destra, un messale non ancora aperto. […] Il pavimento di terra battuta come nelle più misere capanne […]: a fianco dell’altare una sola séggiola impagliata col suo inginocchiatoio.
Aveva il cuore pesante e se lo sentiva in gola quando gli cadde l’occhio sulla Madonna dalle Sette Spade […] vestita di seta nera ricamata d’argento […], era l’Addolorata che la madre di don Pasquale teneva nella camera del palazzo baronale (di via Ghidoni a Chiaravalle). Ed ecco che […] una campanella prese a suonare qualche rintocco, si avvertì uno strascicare di piedi; e subito dopo vide sorgere da dietro l’altare una figura femminile, piccola, il volto seminascosto da un fazzoletto nero. Recava in mano una pertica col lucignolo in cima che andò avvicinando, con tremula esitazione, all’uno e all’altro candeliere e ogni volta s’inginocchiava al Ciborio. Accese le candele, strisciò il palmo della mano sul piano della mensa, come a lisciarla. Era il gesto compiaciuto della mamma quando si accertava che la tovaglia spiegata sulla tavola non facesse una grinza; era sua quella mano bruna e piccolina. Lo Presti racconta: dell’incontro che seguì conservo un ricordo penoso, avvilito. […] All’Ite missa est il prete si volta e io mi faccio avanti. […] Faccio il mio nome e lui mi fissa con una ostilità che si mescola alla meraviglia e rimane un buon momento immobile, il piede sospeso sul gradino che stava scendendo. Anche la vecchina […] si è voltata […] vorrebbe muoversi e parlare, ma le forze le mancano; […] ricerco invano la compostezza della fiera donna (Giuseppa?) che ne ha vedute tante e mai perdeva il contegno. La bocca le si storce nel pianto come quella di un bambino punito. Micuccio! mormora e poi rivolgendosi al nipote prete, nei cui occhi neri non si è spenta una scintilla di diffidenza, dice riferendosi a me: Gioacchino , vedi come è sparuto, deve dormire, deve mangiare. Il pranzo. Corre, la poverina; a passetti infila l’uscio della sacrestia.
Il prete scuote la testa: è svanita, poco capisce,… la vecchiaia!….
Don Gioacchino senza i paramenti sacri non sembrava un prete: sotto la tonaca indossava pantaloni di fustagno e una camicia di tela rustica di lino. Sembrava un contadino che torna dai campi stanco e affamato, che racconta i suoi guai, la sua povertà dovuta ai tempi incerti e alla “miscredenza” diffusa e di questo Garibaldi che non guarda in faccia nessuno, non ha timor di Dio, ci tirerà addosso i villani affamati, quelli che ci fanno la pelle come è già successo, un massacro.
A Don Gioacchino non interessavano le idee del congiunto per le quali aveva fatto la galera; non condivideva la sua intenzione di raggiungere e unirsi ai garibaldini per chiudere la partita con il Borbone; il prete, in cuor suo, si augurava l’arrivo di un altro Cardinale Ruffo per risistemare l’ordine nel Regno. Durante il pranzo il prelato continuò a informarlo delle disgrazie familiari conseguenti anche alla confisca dei beni per causa sua e sarebbe andato avanti chissà per quanto se non fosse stato chiamato da un ragazzino per accorrere al capezzale del nonno moribondo cui impartire la sacra unzione.
Rimasti soli, la mamma si estraniò: tirò fuori il rosario e cominciò a borbottare le sue Avemarie quasi immemore della presenza del figlio.
Fu insopportabile vederla ridotta come una donnuccia del volgo, lei così poco bigotta, così ardente nel difendere la libertà di coscienza da rischiare, presso i compaesani, la fama di eretica socialista, o quanto meno di testa stramba. Quando poi una contadina, entrata per rigovernare, aveva cominciato a sistemare piatti e stoviglie, quel figlio si alzò per salutarla e andar via: Ci vediamo, mamma. Ella sorrise così teneramente da sembrare ringiovanita. Le staccò la mano dalla corona e si chinò a baciargliela; le sue labbra si posarono lievi sulla sua fronte: Dio ti benedica, figlio mio. La donna non proferì più parola al figlio.
Lopresti (o Pasquale?) aveva deciso di lasciare Chiaravalle e ritornare verso Cosenza per unirsi alle camicie Rosse e seguire Garibaldi sino a Napoli. Fu una fuga: uscì dalla canonica e, in un baleno, raggiunse la piazza; era impaziente di allontanarsi da sua madre, ormai vecchia, ospitata per pietà dal nipote in una casa misera.
Rammentò di aver raggiunto il paese a piedi lasciando il cavallo libero alla pastura e sperava comunque di ritrovalo già rifocillato e pronto per la partenza.
La gente che incontrava lungo il tragitto lo guardava come se non lo riconoscesse. E non si meravigliava né s’infastidiva di essere osservato ben sapendo che le notizie, anche se non divulgate, nel paese si diffondevano in un baleno. Tutti sapevano tutto. Scendeva a passo spedito verso la valle da cui era partito all’alba: c’era animazione sulla strada quando si trovò a costeggiare l’antica proprietà.
Adesso che il cancello era spalancato, […] riconobbe il viale delle sue corse di ragazzo e il palazzo dalle mura dipinte di roseo. Rivide il cavallo lasciato la mattina ancora lì nel prato, pronto per riprendere la strada del ritorno alla ricerca dell’armata del generale Garibaldi che, lasciata la Sicilia, marciava verso Napoli. Il visitatore (don Domenico o don Pasquale?) salutò Chiaravalle, abbeverò il cavallo, vi montò e lo lanciò al galoppo; i ricordi del passato correvano con gli uliveti, i castagneti, le casupole e i pagliai.
Non provava nessuna nostalgia: libero dagli affetti familiari; padrone di se stesso, non si curava, come il giorno precedente, di evitare le vie scoperte. Viaggiò tutta la notte e al mattino, mentre si riteneva fortunato di non avere fatto brutti incontri, intravide uomini armati che cantavano con una freschezza e un impeto mai posseduti da soldati regolari. Senza indugiare un istante spronò il cavallo per raggiungere quelle che riteneva fossero le avanguardie garibaldine. Ne incontrò una di volontari che l’otto agosto si erano imbarcati e avevano attraversato il mare al comando di Benedetto Musolino. Garibaldi stava per raggiungere Monteleone.
L’avanguardia era formata quasi esclusivamente da calabresi pratici dei luoghi i quali precedevano e spianavano la strada ai garibaldini. Si unì ad essa, ma la sua stagione militare fu breve e intensa. Assistito dalla fortuna, aveva avuto la ventura di incontrare compaesani, democratici e repubblicani, tutti giovani: dunque le sue idee avevano conquistato le nuove generazioni. Ogni giornata era un’avventurosa scommessa: si mangiava quando ce n’era, si dormiva come si poteva, in una situazione di strapazzi resi inebrianti con cui si recuperava la giovinezza perduta.
Gli uomini dell’avanguardia possedevano armi scadenti, comunque sufficienti per scompaginare le poche pattuglie fedeli ai Borbone che si incontravano. Negli scontri vi furono solo alcuni feriti. Nei paesi attraversati si era accolti con trofei di alloro, tripudi, bevute; il nome di Garibaldi operava miracoli persino sui contadini.
Trovarono Garibaldi a Cosenza prima che egli ripartisse; (Lopresti – don Pasquale ?) si ripromise di far di tutto per incontrarlo. Missori l’introdusse nella stanzetta terragna dove il Generale stava cenando a pane e fichi.
In umiltà contrita, egli raccontò la sua discesa da Napoli e gli palesò la sua amarezza di aver dovuto constatare che la repubblica era morta e che non aveva saputo parlare in suo nome. Garibaldi posò la sua piccola mano sul tavolo e allontanò il piatto dei fichi, rimanendo un attimo pensieroso e rispose: Amico, […] ricordatevi: gli uomini della consorteria non possono perdonare alla rivoluzione di essere la rivoluzione. Tocca a noi democratici […] evitare il peggio, questa terra scotta e più scotterà in futuro quando mi si accuserà di non aver mantenuto ciò che ho promesso al popolo. Se potessi dare un ordine, […] io comanderei di non seguirmi al nord: siete del paese e avete il prestigio del martirio, uomini come voi debbono tener viva la fede in un avvenire di vera giustizia per tutti. Il tempo non conta e non sempre avremo le mani legate. Io ho troppi nemici e i borbonici non sono i peggiori. Qualcuno bussò alla porta: era un ufficiale con una carta topografica in mano; l’ex galeotto patriota (Domenico o Pasquale?) si congedò da Garibaldi e uscì nella notte fonda.