Zibaldone galatinese. (Pensieri all’alba) XIV

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Uso del presente. Nelle Quattro novelle sulle apparenze Gianni Celati non usa più l’imperfetto (come accadeva nei Narratori delle pianure), ma il presente. Non è un presente storico, ma un presente apparente, ovvero l’unico tempo con cui si può raccontare l’apparenza di una vicenda con una certa immediatezza; per es. quella di Baratto: “… la frase << È l’alba>> vuol proprio dire che è l’alba con tutte le sue apparenze” (Baratto, Romanzi, cronache e racconti, Mondadori, Milano 2016, p. 893).

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Pensiero sulle cose che ho scritto. Non posso dire di averle volute scrivere, cioè di aver pianificato tutto questo. Mi è venuto di scriverle a prescindere dalla mia volontà, senza alcuna apparente intenzione. Un fare staccato dal volere, dunque da ogni angusta soggettività, un fare naturale, come il vivere, che comporta sempre il non sapere che cosa accadrà fra un secondo, tra un minuto, fra un’ora, ecc. Il puro fare che corrisponde alla pura vita. Sapevo io, un minuto fa, che avrei scritto queste parole? Direi proprio di no. Ed ora sono contento come quando si fa la cosa giusta senza pensarci due volte. Questo, dunque, significa scrivere, una cosa molto normale, senza complicazioni, giusta.

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Stamane, all’alba, nel dormiveglia, andavo sviluppando e per così dire deducendo dei pensieri filosofici sul tempo e le passioni. Mi figuravo che le passioni fossero gli strumenti che il tempo utilizza per affaticare e consumare i nostri corpi, cosicché quando una persona muore, muore disfatta dalle sue stesse passioni, che il tempo, ingannandola, le ha instillato. Pertanto, andavo deducendo che se fosse possibile vivere senza passioni, sicuramente il tempo si vedrebbe sottratti i suoi subdoli strumenti di morte e cesserebbe di scorrere, e dunque si fermerebbe il corso della nostra vita, che rimarrebbe immutata e come imbalsamata.  Questo pensavo nel dormiveglia, quando ho sentito il cinguettio degli uccelli dietro la mia finestra. Ho guardato l’orologio ed ho visto che erano le 6:30. Allora, ho pensato che conveniva alzarsi per fare colazione con latte, caffè, pane burro, marmellata: ecco la prima passione della giornata, e già sono le 8:00. Come passa il tempo!

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A passeggio con un anziano amico. Si è fermato davanti alle case  che negli anni passati lui stesso ha costruito per sé e per i propri figli. “Ecco, vedi?” mi ha detto, additandomi il complesso di case, “ora che ho fatto la divisione davanti al notaio, costatami molti soldi, non ho più nulla, solo l’usufrutto di una di questa case!”. Gli sembrava che gli fosse rimasto poco, quasi nulla, dopo la fatica di una vita.

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Ripenso alla morte di Pasolini, al suo assassinio, alla vana ricerca della verità, del colpevole, a me stesso dodicenne che inforca la bicicletta per raggiungere l’edicola e acquistare i giornali per mio padre. Come dimenticare la fotografia del corpo sfigurato di Pasolini in prima pagina?

L’omicidio di Pasolini è stato un omicidio sociale. La società italiana degli anni settanta ha ucciso il suo maggior critico perché non tollerava di essere criticata da chi non si stancava di denunciare la sua involuzione consumistico-capitalistica.

Una società trova mille modi per disfarsi di un corpo che le è divenuto estraneo o nocivo. Se non riesce a zittirlo, cioè a neutralizzarlo, riducendolo al silenzio, lo mette in carcere, come è accaduto ad Antonio Gramsci, oppure trova il modo per ucciderlo, ed è il caso di Pasolini. Più di trenta processi non bastarono a zittirlo, e allora… Quando si dice che ancor oggi l’omicidio di Pasolini è avvolto nel mistero, non si fa altro che constatare l’impossibilità di giungere ad una vera e definitiva individuazione del colpevole. Una società, infatti, sebbene sia a tutti gli effetti un grande organismo vivente, non può essere punita come colpevole perché l’omicidio sociale, cioè l’omicidio perpetrato da una società nei confronti di un individuo che ne fa parte, non è un reato contemplato dal codice penale, ma un’azione sociale. Il corpo sociale sacrifica il corpo individuale quando questo corpo pretende di penetrare nel corpo sociale, corrodendolo con la sua critica. Il corpo sociale allora non esita ad espellere il corpo individuale divenuto insopportabile. Pertanto, l’assassino di Pasolini è l’esecutore materiale, il cui mandante è nel corpo sociale dell’Italia degli anni settanta. L’immagine del corpo sfigurato di Pasolini sulla prima pagina del “Corriere della Sera” ammoniva coloro che si fossero fatti delle illusioni, leggendo gli articoli pubblicati dallo scrittore su quel medesimo giornale,  che il tempo della critica era finito, che non era più possibile “essere contro”, che occorreva “scegliere” la strada dell’omologazione, come si è visto chiaramente negli anni seguenti, fino ad oggi.

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Il bel racconto di Julio Cortázar, Casa occupata (nei Racconti, a cura di Ernesto Franco, Einaudi, Torino 2014), in cui si narra di due fratelli che vengono espulsi dalla vecchia casa, mi ha fatto pensare che non i viventi abbandonano le vecchie case, ma sono le vecchie case che espellono i viventi, poiché i morti non tollerano la presenza dei vivi nelle case dove essi vissero. Di qui la necessità di restaurare le vecchie case, farle come nuove, ammodernandole, in modo che i morti non possano riconoscerle e vadano via loro.

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Mi sono immaginato solo, seduto sul bordo dell’anfiteatro di Rudiae, in un pomeriggio di un tardo aprile, tra gli olivi. Che ci facevo in un posto come questo? Oltre il canto degli uccelli, ascoltavo il rombo delle auto che passavano una alla volta sulla provinciale vicina. I colori intorno a me sono quelli dei papaveri e delle margherite, il rosso e il giallo, e poi tanto verde punteggiato di malva coi suoi fiori azzurri. La terra scavata è marrone, un metro e più di spessore, dissepolti grandi lastroni di pietra, muri possenti, gradoni sbrecciati e consunti come tanti pezzi di uno scheletro gigantesco semidissepolto. Che ci facevo io in quel posto? Un metro e mezzo di terra, cioè due millenni e più, un tempo troppo lungo per essere davvero compreso fino in fondo. Era stato qualche contadino a portare lì la terra oppure il pulviscolo dell’aria o la sabbia del deserto africano trasportata dal vento del sud s’erano depositati fino a formare un simile spessore di terra? Il tempo misurato nello spessore della terra… Perché quella città era morta? Perché era stata abbandonata? Perché se ne era costruita un’altra a tre chilometri di distanza? Davvero in quel luogo Quinto Ennio aveva mosso i suoi primi passi? Romani sumus qui fuimus ante Rudini. Guardavo la terra marrone, resa ferace dalla decomposizione dei viventi. I viventi divenuti terra, uno spessore di terra di un metro e mezzo, utile a misurare il tempo passato. Una terra che è servita a coprire quei resti dimenticati, che oggi l’archeologo riporta alla luce al ritmo dello stanziamento dei fondi (i lavori di scavo, infatti, erano fermi per mancanza di fondi). Serve denaro per fare altro denaro. Il sogno dell’archeologo: “Portare i turisti a vedere quei resti”, “Creare nuove opportunità di lavoro”, “Incrementare l’economia del territorio”. Il mio sogno: ricoprire quelle vestigia, lasciarle riposare in pace, dimenticarle. Niente turisti da queste parti, solo viaggiatori solitari in grado di sentire che cosa c’è sotto la terra, di cosa è davvero fatta la terra, perché, sotto il bosco di olivi  il papavero e la margherita e la malva hanno i colori che hanno, e l’olio il sapore che ha; viaggiatori non intruppati, che vadano senza sapere dove né perché e stanchi si stendano nell’erba e dormano al canto degli uccelli, mentre un’auto passa in lontananza sulla strada maestra che da Lecce porta a San Pietro Vernotico.

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Pensare il pulviscolo invisibile ad occhio nudo che incessantemente si deposita su tutte le cose, cosicché se noi stessi restassimo fermi per duemila anni ci ritroveremmo sepolti sotto un metro e mezzo di terra. L’unico senso dell’antico davanti ad un manufatto dissepolto è il sentimento preciso del nostro essere terra, pulviscolo che si deposita nei luoghi dove siamo vissuti, anche mentre vivevamo, pulviscolo trasportato dal vento da luoghi lontani. Solo in rare occasione ci è dato veder distintamente quel che accade in modo impercettibile, come quando la nostra città finì per molte ore sotto una immensa nuvola di sabbia del deserto africano. Chissà quante storie quella nuvola trasportava con sé dal continente oltre il mare? Ma che cos’era quella polvere se non la terra su cui noi poggiamo i nostri piedi?

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Leggo Ruskin, Pittori moderni I, Einaudi, Torino 1998, le numerose pagine che dedica alle nuvole, ma riporto solo questo pensiero sull’infinitudine (a p. 320): “Perché siamo inclini a scordare che il numero più grande non è più vicino all’infinitudine del più piccolo, se si tratta di un numero finito; che la massa più grande non è più vicina all’infinitudine della più piccola, se è una massa finita; di modo che un uomo può continuare a moltiplicare i suoi oggetti per sempre, e non avvicinarsi all’infinitudine più di quanto fece col primo, se egli non li varia e non li confonde; e un uomo può raggiungere l’infinitudine in ogni tocco e in ogni tratto, e in ogni parte e porzione, se in essi sarà veridicamente vario ed oscuro.”

Queste parole valgono anche per la scrittura, in cui non conta il numero delle parole, ma il grado di infinitudine, cioè di verità, che è in esse. Potrebbero anche essere pochissime e dire tutta la tensione verso l’infinito da cui l’uomo è posseduto.

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Ho ascoltato quello che viene considerato il più importante studioso di storia locale, una persona che ha molto studiato, per la quale hanno importanza i palazzi, le grandi famiglie, i loro esponenti di spicco. Costui ha una concezione importante della storia e lo si nota registrando il gran numero delle volte in cui ricorre questo aggettivo nelle sue spiegazioni. Ho pensato tra me e me che ora, accanto ad una concezione della storia positiva, ottimistica, pessimistica, progressiva, ecc., v’è la concezione importante della storia; una impostazione certamente contigua al potere dominante. Il potere, infatti, qualunque potere, si dà sempre molta importanza. Allora io, per digerire tutto questo, leggo qualche pagina di Gianni Celati.

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Pensiero della tarda notte relativo a un’unica intelligenza, della quale noi saremmo semplici parti, emanazioni temporanee, piccoli bagliori luminescenti presto destinati a spegnersi; un’unica grande intelligenza che sussume e ingloba ogni traccia di vita senziente e intelligente, senza distinzione tra animali, piante e uomini; un globo di vita che si conserva in un equilibrio instabile e precario, messo in crisi dall’eccesso della vita umana;  la quale rischia di avere nei confronti di questa unica intelligenza la stessa funzione che ha la morte per ogni organismo vivente: di spegnerla definitivamente, ovvero di farla collassare, fino a riportare ogni forma di vita allo stato di una sterile ameba; e così finiranno un giorno tutte le cose.

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Rifletto su quanto vado scrivendo e mi accorgo che la mia scrittura nasce dalle sollecitazioni della realtà. Non invento nulla, rifuggo dai plot narrativi che mantengono sempre un quid di falsità, ma reagisco alla realtà di cui pure mi nutro. La scrittura ha molto a che fare con le nostre deiezioni quotidiane, con le quali noi assimiliamo il mondo e lo mutiamo, espellendolo dal nostro corpo. La scrittura in questo modo dota di un senso gli accadimenti del mondo che ci pervadono, ci attraversano, e attraversandoci fanno di noi quello che siamo. Non c’è più distinzione tra dentro e fuori, tra il mondo e l’“io”; rimane una scrittura pervasa dal mondo come semplice testimonianza di un’esperienza vitale.

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La domanda dello studente durante il compito d’Italiano. “Prof, posso scrivere questo? Posso scrivere quest’altro?”. Come se io fossi il censore che decide quali cose possano essere scritte e quali no.

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