di Antonio Errico
Racconta Matteo nel suo Vangelo che, passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro. All’improvviso sentirono un terremoto e subito dopo un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve.
In quella straordinaria narrazione che è il Vangelo, forse questa è l’immagine che suscita più meraviglia, più stupore, l’evento che sbalordisce per il mistero che, ad un tempo, nasconde e rivela. In poche righe, Matteo riesce a stringere una catena di eventi prodigiosi: il terremoto, l’angelo che scende dal cielo, il macigno del sepolcro che rotola e l’angelo che si siede sulla pietra – sulla natura- sconfitta dal miracolo, e poi quella descrizione dell’aspetto che mette insieme la folgore, che rappresenta lo squarcio, l’evento impaurente, e la quiete silenziosa della neve: la pace. Come a dire: tutto finisce con questa pace; tutto comincia da questa pace.
Nella narrazione di Matteo, il Cristo si pone come presenza invisibile, come puro pensiero, come presentimento, sensazione, sentimento inspiegabile, incomprensibile. Un enigma. La sua è un’immagine completamente dematerializzata, l’esatto contrario di quella maestosa, magnifica, possente, sovrastante, incombente, gloriosa, che Piero della Francesca rappresentò nel 1463 con la sua “Resurrezione.