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Il gusto del tempo passato – gli piacque farsi ritrarre da Joseph Sheppard adorno di giacca da camera in stile rinascimentale – il desiderio d’ancorarsi a valori classici e ad uno stile barocco erano nati da un lungo viaggio di formazione in Europa che la madre, Yetta Elen Walker, lo spinse a fare alla fine della scuola superiore, un viaggio che durò due anni ed in cui Truesdell si spese sia come visitatore di luoghi che come discepolo d’insegnanti di lingue (non ultimi il latino ed il greco antico) e non solo.

Tornato negli Stati Uniti, s’iscrisse nel 1938 al Caltech, il politecnico della California che Pasadena accoglie con deciso orgoglio, dove conseguì nel 1941 sia il Batchelor of Science in matematica che quello in fisica (si tratta della nostra laurea triennale). Era nato il 18 febbraio 1919 in riva al Pacifico, a Los Angeles.

Dopo il primo triennio di studi universitari, e il Master nel 1942 in matematica, abbandonò la costa pacifica per spostarsi a Providence, con Boston la più europea delle città americane, dove fu assistente di meccanica alla Brown University ed ottenne il dottorato sempre nel 1942 nell’Università di Princeton con una tesi sulla meccanica delle membrane per la quale ebbe per tutore Solomon Lefschetz (1884-1972), russo, emigrato negli Stati Uniti dopo aver studiato all’École Centrale parigina, un ingegnere quindi che aveva perso l’uso delle mani in un incidente di laboratorio una volta giunto su suolo americano e che si era dato alla matematica pura; ebbe grande influenza sulla matematica statunitense nella prima metà del ventesimo secolo.


Truesdell aveva cominciato la sua tesi già alla Brown University, prima di incontrare Lefschetz che accettò di esserne tutore, sebbene gli interessi di ricerca di quest’ultimo non fossero incentrati sull’argomento che, comunque, gli richiamava le sue origini ingegneristiche. Per Truesdell, invece, la meccanica dei corpi deformabili e, in seguito, la termodinamica ad essa connessa divennero la cifra distintiva costante sia della sua futura attività di fisico-matematico che di quella di storico della scienza. Di Storia volle occuparsi da dilettante, un dilettante nell’accezione della Londra che appare nelle descrizioni di Conan Doyle, un “idiota” nel senso greco del termine, cioè da scienziato e non da storico. An Idiot’s Fugitive Assays on the History of Science è il titolo di un suo saggio del 1984, titolo scelto con la tendenza sempre piccata alle sottolineature, allo stabilire una distanza dal resto, quella tendenza che a volte diventava caustica stroncatura nei commenti che scriveva per la Mathematical Reviews, la rivista di recensioni dell’American Mathematical Society.

L’attitudine per una vista retrospettiva ebbe un ruolo – ritengo – anche nella scelta degli ambiti in cui sviluppò la sua attività scientifica. Non erano, infatti, la struttura dell’universo e/o l’infinitamente piccolo mondo quantistico che attrassero la sua attenzione. Più semplicemente – in maniera quasi minimalista – fu catturato dalla meccanica classica, in particolare da quelle teorie che descrivono la deformazione dei corpi tangibili a seguito di azioni esterne e che hanno interesse cruciale per i problemi e per i metodi dell’ingegneria. A quest’ultima era stato vicino quando, dopo un impiego presso il Radiation Laboratory al MIT, era diventato responsabile della Sottodivisione di Meccanica Teorica del Naval Ordnance Laboratory a Withe Oak, Maryland, nel 1946, e, dopo due anni, della Sezione di Meccanica Teorica del Naval Research Laboratory a Washington D.C., prima di diventare nel 1950 professore a Bloomington, nell’Università dello Stato dell’Indiana, da cui si spostò nel 1961 a Baltimora per insegnare alla Johns Hopkins e, soprattutto, risiedere nel Palazzetto.

La meccanica e la termodinamica dei corpi deformabili erano caratterizzate da una lunga tradizione e semmai sembrava, nel momento in cui Truesdell cominciò ad occuparsene, che non attraversassero un periodo in cui si evidenziavano contributi per così dire rapsodici, sia pur numerosi, che seguivano epoche di profondo impegno pioneristico che avevano dato la stura ad un’intera disciplina.

Gianfranco Capriz, che ne fu amico, sostenitore in Italia (fu il primo, assieme a Tristano Manacorda, a stabilire un contatto tra la scuola di meccanica italiana e il gruppo truesdelliano negli anni sessanta del ‘900) e continuatore, ha posto l’accento sulle motivazioni iniziali delle ricerche di Truesdell in un necrologio accorato.

“Si era reso conto, già nel corso dei suoi primi impieghi, quanto incerte fossero le basi dei più recenti sviluppi della meccanica e quanto importante sarebbe stato un riordinamento di quel capitolo della scienza non solo per amor di logica e di eleganza, ma anche per utilizzazioni in problemi concreti. Era urgente legare i nuovi sviluppi con i lavori basilari di Eulero, dei Bernoulli, di Lagrange, Cauchy ed altri sapienti dei secoli passati, piuttosto che fondarli in modo precario sui lavori di mediocri epigoni. Si impegnò dunque personalmente a cercare e creare quei legami e, con zelo quasi missionario, trascinò altri a contribuire all’impresa. Risalì ai vecchi trattati, non sempre disponibili negli USA e comunque ormai letti da pochi anche in Europa, per interpretarli ed esporne i risultati più significativi nelle notazioni e terminologie ora più correnti in modo da mettere in evidenza allo stesso tempo il ruolo decisivo al momento della scoperta ed il loro durevole valore. Realizzò questo `risorgimento’ efficacemente e brillantemente, usando per strumento un inglese ricco, perfettamente adeguato, magari un po’ all’antica. Ammise il latino come lingua accettata per memorie da pubblicare sulla Rivista da lui fondata e diretta, l’Archive for Rational Mechanics and Analysis. Scrisse lui stesso lavori in latino …”

Truesdell non sapeva allora che proprio questa sua vigorosa opera di costruzione di un edificio classico avrebbe non solo messo in luce la struttura essenziale di quanto si conosceva sulla deformabilità dei corpi, unificando, ampliando, arricchendo, ma anche, per sua stessa essenza chiarificatrice, posto le basi per il superamento del paradigma che andava formando. In questo senso Truesdell è stato uno spartiacque: ha stabilito e fatto stabilire, distillandolo, il canone e, proprio nel far questo, ha dato modo di superarlo.

Il Palazzetto era diventato il luogo di un cenacolo non solo scientifico. I due clavicembali nell’ampia scala d’ingresso erano utilizzati in concerti domestici in cui si erano esibiti Leonard e il gruppo Pro Musica Rara. Joseph Sheppard, che aveva mutuato dal Maryland Institute of Arts la tendenza ad un’arte realista e storicista, scolpiva, dipingeva e disegnava immagini di Charlotte Brudno, preziosa collaboratrice in tutte le attività editoriali. In foggia di ninfa, una statua della padrona di casa ornava la vasca nel giardino, curato dall’artigiano in residenza. Dall’interno della casa la statua appariva al centro della vista dalla parete vetrata della sala per la colazione e i pranzi di famiglia. Vari disegni di nudi di lei ornavano anche le pareti del bagno in una delle due sale in cui si sviluppava la biblioteca, quella riguardante la letteratura scientifica. Un rifacimento di Susanna e i Vecchioni, in cui Susanna è ancora Charlotte Brudno e i “vecchioni” hanno la faccia di Truesdell e Shepard stesso, faceva da sfondo alla sala dove si svolgeva il desinare ufficiale. Lì un tavolo lungo con scomode sedie di foggia antica ospitava cene illuminate da candele su candelabri e consumate facendo uso di posate d’epoca. Quando il tavolo era sparecchiato, al suo centro era posato un centrotavola metallico del medioevo tedesco, per l’acquisto del quale erano stati impegnati i diritti d’autore dell’Handbuck der Physik, o almeno dei volumi che Truesdell aveva curato e che ospitarono i suoi estesi lavori sui fondamenti della meccanica dei corpi deformabili e quelli di rassegna critica dei suoi più stretti collaboratori. Qui e là per la casa si parlava di meccanica. Non vi era televisione, ma vi era impianto stereo localizzato in un sottoscala ed un’estesa collezione di dischi in vinile. Truesdell scriveva con penna d’oca (aveva acquistato una cassa di quelle penne svenduta dagli uffici della Corte Suprema degli Stati Uniti). Se Normanni si fossero intrattenuti a bere calvados per la casa, la scena avrebbe forse interessato Raymond Queneau nel periodo in cui immaginò il Duca d’Alba salire “in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica” (Queneau, 1995).

Truesdell si sforzava di trasmettere la sua visione prospettica di quello che avrebbe dovuto essere la meccanica a un gruppo crescente di persone che voleva fossero coinvolte nei suoi programmi. Alcuni di essi si potevano considerare allievi, indipendenti i migliori, altri erano semplicemente interlocutori interessati. C’era Walter Noll, che era giunto dalla Germania con pochi mezzi e che avrebbe distillato per primo il paradigma standard della meccanica classica dei corpi deformabili. C’era Bernard Coleman, la cui preparazione da chimico lo avrebbe supportato in maniera essenziale nello sviluppo della termodinamica dei continui. C’era Jerald Levine Ericksen, che avrebbe indicato punti di vista nuovi su vari aspetti della meccanica, soprattutto attirando l’attenzione sull’influenza delle deformazioni nelle transizioni di fase nei metalli. C’era Richard Toupin, co-autore con Truesdell del monumentale “articolo” di 667 pagine, The classical field theories, del 1960, che apriva la serie di grandi opere sulla termomeccanica dei continui. C’era James Serrin (1926-2012) che si sarebbe interessato in maniera profonda di termodinamica e fluidodinamica, e soprattutto di analisi matematica, e che avrebbe condiviso con Truesdell un’intensa attività editoriale. C’erano e ci sarebbero stati tanti altri che concorsero al dibattito delle idee.

Riferendosi alla scuola che si sviluppò, Jerry Ericksen distilla principi normativi che attribuisce a Truesdell.

“1. Qualunque cosa si cerchi di fare, ci si deve sforzare di ottenere l’eccellenza. Ciò richiede che ci si ponga alti obiettivi e che si lavori duramente per ottenerli. In qualsiasi sforzo che valga la pena, l’eccellenza deve essere riconosciuta e premiata, così si deve fare quanto possibile per promuoverla.

2. È molto importante che ognuno sia guidato dal proprio giudizio. Punti di vista difesi con forza possono essere impopolari ma non ci si deve scoraggiare per questo.

3. Ci si deve assumere responsabilità nell’aiutare a separare il grano dalla paglia, che può soffocare il grano.

4. Affina la tua abilità nel comunicare con gli altri. Perfino nel discutere di questioni tecniche con persone che hanno una preparazione completamente differente può essere possibile rendere intelligibili le idee di base ed i risultati.

5. Sii generoso e paziente con persone di minore abilità che fanno del loro meglio per diventare eccellenti. Coloro che per accidia non tentano neanche devono essere disprezzati.”

L’elenco è una mia traduzione di note riportate a pagina 17 di (Ball e James, 2002).

Dai documenti (lettere e note) relativi alla gestione della rivista che ho già citato, l’Archive, e dalla corrispondenza con Ericksen, Noll e Toupin, quest’ultima conservata e catalogata con indici commentati dallo stesso Truesdell in sette volumi, sembra emergere fedeltà ai principi dell’elenco che riporta Ericksen. Che nel passare da maestro ad allievo questi principi si siano poi sempre mantenuti tra tutti i continuatori è ancora, sfortunatamente, materia di pessimistica discussione. La scienza è fatta dagli uomini, con tutto quello che questo dettaglio comporta.

Al Palazzetto, lo schedario con la corrispondenza riguardante la gestione della rivista era al terzo piano. Al piano inferiore, quello nobile, lo stesso che ospitava la stanza da letto, una stanzetta tra la biblioteca scientifica e quella umanistica, ornata di uno scrittoio tondo (sempre che i miei ricordi visivi non siano fallaci) era l’ufficio editoriale. La rivista ha indirizzato per lungo tempo l’analisi dei fondamenti e lo sviluppo della meccanica dei corpi deformabili. Truesdell cercava di accogliere articoli che seguissero uno stile, affrontassero certi temi, contribuissero alla discussione sulla struttura dei fondamenti della meccanica. Fu duro nei suoi giudizi, spesso polemico, e non mancò di crearsi antipatie anche accese. Gli si deve riconoscere, però, almeno così mi pare, una consistente dose di onestà intellettuale, espressa in maniera radicale a valorizzare un sentimento antico, e forse per questo modernissimo, di quella che dovrebbe essere l’accademia.

Assieme ai libri della biblioteca scientifica personale di Truesdell (quasi tutti, in realtà), tra cui risalta una prima edizione annotata della Mécanique Analitique di Lagrange, tutti i documenti dell’Archive a sua disposizione, e la corrispondenza scientifica sono ora nella Biblioteca della Scuola Normale, donazione di Charlotte Brudno, per intercessione di Gianfranco Capriz.

Tramite i suoi scritti di meccanica teorica e di storia della scienza – fu anche uno storico non trascurabile, con spiccate propensioni personali, tra tutte quella (non irragionevole, direi) per l’enormità del lavoro di Eulero – Truesdell si sforzò di creare uno stile di pensiero ed azione nella meccanica dei continui. Spinse, valorizzò e curò chi egli riteneva di poter includere nel suo circolo d’interlocutori. Bernard Coleman, scrivendo in ricordo di Truesdell, chiarisce la situazione.

“Considero me stesso come chi sia stato tra gli uomini più fortunati: ho avuto un insegnante e un amico, anzi, più che un amico, un fratello maggiore in effetti, che è stato lo studioso principale nella mia scienza e che mi ha dato incoraggiamenti, consigli sensati e ogni tipo di aiuto di cui potessi aver bisogno, anche quando non sapevo di essere nella necessità. Soprattutto, mi ha insegnato che un’attenta cultura e la ricerca persistente delle idee e della comprensione sono molto più importanti della superficiale abilità nell’usare tecniche contemporanee per la soluzione di problemi al momento popolari” – traduco da (Coleman, 2003).

L’esigenza sentita da Truesdell di mettere ordine nei fondamenti della meccanica dei continui non era prettamente una personale primizia: nasceva lontano nello spazio e nel tempo ed era collegata al sesto problema di Hilbert.

Parigi, mercoledì 8 agosto 1900: era una giornata calda. Quell’anno fu quello dell’Esposizione Universale. Dal 14 aprile al 10 novembre si sarebbero avvicendati nella città sulla Senna cinquanta milioni di visitatori. Fu anche l’anno delle Olimpiadi e del Secondo Congresso Internazionale dei Matematici (ICM 1900) che si tenne nelle aule della Sorbonne, nome che è d’uso italianizzare in Sorbona. Quest’ultimo evento è ormai diventato il (quadriennale) principale momento d’incontro collettivo dei matematici, il più ampio tra quelli di varia dimensione e valore, organizzati in giro per il globo. Nell’ambito dei lavori che esso prevede, dal 1936 si è cominciata ad assegnare la “Medaglia Fields” a ricercatori che abbiano ottenuto risultati che vengono ritenuti fondamentali da esponenti qualificati dell’Unione Matematica Mondiale e che non abbiano compiuto il quarantesimo anno di età. Essere lì invitati a tenere una relazione appare tutt’oggi un onore che molti desiderano, forse soprattutto per le successive conseguenze nell’accademia. Comunque, il lettore sia accorto: tutte le medaglie Fields sono onuste di gloria, ma non tutte le medaglie Fields hanno lo stesso valore, come sempre accade per tutti i premi.

All’ICM del 1900, uno dei relatori era David Hilbert (1862-1943), professore a Gottinga, ovest di Berlino, Bassa Sassonia. Alla sua conferenza non fu data una posizione di preminente visibilità nel congresso. Hilbert era già una figura concretamente prominente nel panorama matematico. Noti erano già i suoi risultati in teoria degli invarianti, teoria dei numeri, fondamenti della geometria e di seguito sarebbero stati essenziali i suoi lavori in analisi funzionale (la teoria degli spazi di Hilbert), teoria della dimostrazione e altro. Scorrere almeno i volumi della raccolta degli articoli scientifici (Gesammelte Abhandlungen, prima edizione pubblicata negli anni 1932-1935 da Springer) fornisce un’idea almeno vaga per lo meno della voluminosità dei contributi.

Al momento del suo intervento al congresso parigino, da cinque anni Hilbert si era trasferito da Könisberg a Gottinga, dove aveva raggiunto Felix Klein (1849-1925) e aveva un ruolo sempre più preminente nell’istituto che in quella città vide un’inusuale concentrazione di ingegni rivolti alla matematica ed alla fisica, uno dei centri cruciali per lo sviluppo del pensiero fisico-matematico dell’epoca. Oltre ai matematici – tra coloro di cui Hilbert fu relatore, ci furono, in ordine di anzianità, Ernst Zermelo (1871-1953), Max Dehen (1878-1952), Oliver Kellog (1878-1932), Hermann Weyl (1885-1955), Hugo Steinhaus (1887-1972), Richard Courant (1888-1972) – vi era, infatti, anche un nutrito gruppo di fisici a partire da Woldemar Voigt (1850-1919) e Max Born (1882-1970) che ebbe come assistenti prima Wolfgang Pauli (1900-1958), poi Werner Heisenberg (1901-1976) ed infine Pascual Jordan (1902-1980); questi ultimi tre ottennero il Nobel in periodi diversi ma tutti prima di Born stesso. Per completare il quadro di quello che era in quei tempi Gottinga, non si devono dimenticare sia Emmy Nöther (1882-1935) che John von Neumann (1903-1957).

Dalle foto d’epoca, Hilbert emerge uomo d’eleganza fin de siecle, come potrebbe parere forse naturale attendersi. Nella collezione dei suoi ricordi Max Born (Born, 2005) ne rileva l’accesa attrazione ricambiata per le signore del tempo. Oltre questi aspetti mondani, però, e forse nonostante essi, proprio per una signora, Emmy Nöther, Hilbert avrebbe agito diciannove anni dopo contro le abitudini dell’epoca, facendo sì che avesse il ruolo di Privatdozent, cosa che sembrava a lei preclusa per il suo essere una donna, anche se aveva indubbia qualità nel suo fare scientifico – un suo teorema è uno strumento essenziale in quella branca della fisica-matematica che chiamiamo teoria dei campi ma non è naturalmente il suo unico risultato rilevante. Le persone dovrebbero essere valutate per quello che mostrano d’essere capaci di fare e per come lo fanno: tutto qui.

Il mattino di quella giornata agostana del 1900, Hilbert principiò la sua conferenza parigina, inclusa nella sezione di biografia e storia, chiedendosi chi non fosse interessato ad avere uno sguardo sul futuro della propria disciplina, sui metodi, i problemi futuri e, soprattutto, i risultati che si sarebbero ottenuti. L’incipit non era così distante dai contenuti come si potrebbe credere, pensando ad una certa tendenza retorica che spesso pare accompagnare queste situazioni. Non vi era, infatti, un seguito caratterizzato dall’esposizione di un risultato tecnico specifico: l’enunciato di un teorema corredato dalle idee che ne giustificano la dimostrazione. Il seguito era una lista di dieci problemi, dieci questioni aperte che egli riteneva a quel tempo cruciali per l’avanzamento della matematica. La lista presentata non era esaustiva. Hilbert aveva in realtà in mente ventitré problemi che raccolse in un articolo intitolato, senza altra fantasia, Mathematische Probleme, e che lo stesso anno apparve sulla rivista di Gottinga, la Göttinger Nachrichten, fu ristampato e poi tradotto per il mondo anglosassone (Hilbert, 1900).

Nel suo racconto del congresso per il bollettino della società americana di matematica Charlotte Angas Scott (1858-1931) annotò solo che all’intervento di Hilbert era seguita una discussione piuttosto frammentaria. Lo stesso Hilbert avrebbe scritto in seguito a Hurwitz dichiarando di non essere rimasto soddisfatto dall’esito del convegno sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. L’impressione era sbagliata. Il discorso di Hilbert (per meglio dire, la sua versione estesa pubblicata in seguito) ha costituito negli anni un programma che ha stabilito una sorta di classe d’onore che accoglie chi ha affrontato, discusso e parzialmente o totalmente risolto i problemi posti nel congresso parigino del 1900 e nello scritto seguente ad esso (si veda in proposito Yandell, 2002).

La conferenza di Hilbert era nata da un complesso di suggestioni. Da un lato, infatti, essa voleva essere una risposta “ottimistica”, ma non ottimisticamente vacua, alla dichiarazione ignorabimus con cui il fisiologo Emile Heinrich du Bois-Reymond (1818-1896) aveva terminato la sua conferenza alla riunione dell’associazione degli scienziati tedeschi il 14 agosto 1872. Du Bois-Reymond era, infatti, approdato a una visione scettica della possibilità di penetrare il senso e la struttura dei fenomeni naturali, in sintesi alla capacità di conoscere, sebbene la sua attività scientifica fosse animata da un rigoroso meccanicismo ed egli “si adoprasse instancabilmente per l’applicazione della fisica matematica e la chimica ai problemi biologici” (si veda pag. 64 di McCarty, 2005, per la frase riportata tra virgolette).

Incidentalmente, ritengo che un atteggiamento dubitativo sulla capacità di conoscere possa emergere dalla constatazione che i modelli matematici di classi specifiche di fenomeni o le teorie (termine qui utilizzato per riferirsi a insiemi di modelli matematici correlati, o talvolta usato come sinonimo di modello matematico) sono rappresentazioni parziali di quanto appare nel fare esperienza della natura. Sono discorsi sul mondo (strutture linguistiche, in effetti) indirizzati dalle evidenze sperimentali ma che al contempo le condizionano in qualche misura e vanno di là di esse per la loro natura predittiva. Il problema essenziale che affligge chi si propone una descrizione (globale) del mondo fisico è quello di voler rappresentare un sistema di cui si è solo una parte. Vi è quindi un iniziale esercizio di fede: che il mondo effettivamente sia come appare (non sia il sogno di un sogno, come sarebbe piaciuto a Borges). D’altra parte, anche se non fosse così, a noi, che facciamo parte del mondo, potrebbe infine non importare molto – l’abitante di Flatlandia di Edwin Abbott Abbott (1838-1926), il quadrato del racconto, non può vedere tutta la sfera tridimensionale che incontra perché per lui la terza dimensione non ha senso; è chiuso nel suo mondo e vede solo l’intersezione della sfera con il piano; crede, quindi, che esista una sfera di quel tipo e forse può compiutamente immaginare quel mondo in cui è immerso senza saperlo, ma non riesce a uscire fuori dal piano e dire toh, guarda, il mio mondo è effettivamente un piano immerso in uno spazio con una dimensione in più. Non lo saprà mai con certezza perché fa parte del piano e non ha possibilità di emergere dal suo mondo e guardarlo da fuori. Vi è difficoltà nell’avere compiuta coscienza che il risultato delle nostre analisi sia l’effettiva natura intrinsecadelle cose. Non sto affermando – sia chiaro – che ciascuno ha la sua verità, come uno scrivente che ignora i termini congettura ipotesi, che invece dovrebbe usare se avesse una percezione piuttosto chiara del significato delle parole e non invocasse l’argomento per questioni altre dalla discussione sulle possibilità della conoscenza. Vorrei avere il pudore di guardarmi da certe banalizzazioni. Affermo solo che un certo pessimismo sulla possibilità di una conoscenza effettiva della natura delle cose scaturisce dal nostro essere parte del sistema che vogliamo intendere.

Queste osservazioni, che ho già sostenuto in altre forme, ma con la stessa sostanza, altrove, non so se fossero quelle che avevano motivato la posizione pessimistica di Emile du Bois-Reymond che fu comunque ripresa e discussa nell’ambito della matematica dal fratello Paul David Gustav (1831-1889). Nel trasferirle alla matematica, però, si deve tener conto che quest’ultima è un linguaggio creato dall’uomo: esso nasce quindi all’interno e con il condizionamento del sistema per la rappresentazione del quale è poi utilizzato. In questo senso penso che debba ricercarsi quella che è stata indicata come “irragionevole” efficacia della matematica nel descrivere le cose del mondo.

L’essere un linguaggio sia qualitativo che quantitativo attribuisce alla matematica uno statuto singolare. La possibilità di costruire strutture astratte può permettere al quadrato del mondo piatto di Abbott – quello che ho richiamato alcune righe or sono – di immaginare che il cerchio che incontra sia l’intersezione di una sfera con il piano in cui egli vive, una sfera che appartiene ad un mondo tridimensionale che gli è precluso. Nel suo ragionare astratto, il quadrato coglie la verità – quella che un osservatore tridimensionale, esterno quindi a Flatlandia, valuterebbe immediatamente con strumenti altri rispetto al ragionamento del quadrato – ma è destinato a non sapere effettivamente che quella sua argomentazione abbia colto la verità. Egli ha solo elementi per credere (ragionevolmente) che ciò sia.

Per suo conto Hilbert tornò direttamente e indirettamente a intervenire sulla posizione di Paul du Bois-Raymond in differenti occasioni. La questione coinvolgeva i fondamenti e la relazione di Hilbert al congresso parigino poneva questioni che riguardano sia aspetti tecnici sia la natura di alcune strutture fondamentali della matematica e della fisica-matematica. Sui fondamenti della matematica Hilbert avrebbe reso esplicito un programma di analisi nel 1917, sebbene su di essi, avesse già cominciato a soffermarsi pubblicando nel 1899 i Grundlagen der Geometrie in cui riorganizzava la geometria euclidea come costrutto derivato logicamente da assiomi primitivi, slegandola da motivazioni di natura intuitiva. L’interesse per i fondamenti della matematica era però lo spirito del tempo, un’esigenza sentita per ragioni tecniche e per un sentimento che emergeva dalla coeva discussione filosofica. Nel campo dell’analisi infinitesimale, lo sviluppo della teoria delle serie di Fourier aveva reso necessaria la precisazione della nozione di funzione e la relazione tra serie di funzioni e continuità. Ancora non erano state soddisfatte le richieste di più solidi fondamenti che erano state avanzate, già nel secolo precedente, da George Berkeley (1685-1753) e da Jean Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) a ciò che emergeva dai lavori pioneristici, anzi, fondatori, di Leibniz e Newton. La stessa nozione di limite aveva dovuto attendere il secolo diciannovesimo per essere formalizzata “in termini di ε e δ”. L’Ottocento aveva ospitato un’ampia opera tesa alla sistemazione delle nozioni e dei fondamenti del calcolo infinitesimale. Figure essenziali erano state Berhard Bolzano (1781-1848), Niels Henrik Abel (1802-1829), Lejeune Dirichlet (1805-1859), Karl Weierstrass (1815-1897), Richard Dedekind (1831-1916), Georg Cantor (1845-1918), Bernhard Riemann (1826-1866). I loro lavori avevano fatto seguito a un primo tentativo di sistemazione dell’analisi che si era avuto nelle lezioni di Augustin Louis Cauchy (1789-1857) all’École Polytechnique parigina, pubblicate nel 1823.

La discussione, però, andava oltre l’analisi infinitesimale. Nel 1884 erano stati pubblicati i Grundlagen der Arithmetik in cui Gottlob Frege (1848-1925) discuteva dei fondamenti dell’artimetica. Il programma di Frege per l’aritmetica era quello che sottende ogni processo di assiomatizzazione: individuare un insieme finito di assiomi non contraddittori da cui sia possibile dedurre le asserzioni significanti nell’ambito cui gli assiomi stessi si riferiscono. Per Frege, lo strumento attraverso cui si sviluppava la deduzione era la logica formale che egli stesso aveva presentato nel precedente saggio del 1879, Begriffsschrift, eine der arithmetischen nachgebildete Formelsprache des reinen Denkens, l’Ideografia. La logica era quindi intesa come strumento normativo, non in sé conoscitivo, perché esterna al contenuto. Sulle motivazioni che sostenevano la concezione teorica dell’impianto, vi era influenza kantiana, sebbene questa non toccasse gli aspetti formali dell’espressione dei concetti per mezzo di funzioni i cui valori fossero vero o falso e la conseguente costruzione specifica della logica simbolica. Anche Hilbert era parso sensibile alle idee kantiane. La proposizione di Kant per cui ogni conoscenza umana parte da intuizione, procede attraverso concetti, e culmina in idee aveva ruolo di esergo nel Grundlagen der Geometrie. D’altra parte, però, Hilbert si discostava progressivamente dalla visione kantiana nel suo essere convinto che l’analisi dei fondamenti della matematica doveva essere interna alla matematica stessa e si doveva perseguire attraverso la logica formale, cosicché gli oggetti matematici non avevano altre proprietà se non quelle che potevano essere dedotte dagli assiomi del sistema in cui tali oggetti avevano cittadinanza (per una discussione di analogie e dissonanze tra la posizione teoretica di Frege, quella di Hilbert, e il pensiero di Kant si può consultare, ad esempio, Cellucci, 2007). Questi oggetti, poi, erano suggeriti all’inizio dall’intuizione pura, influenzata, almeno nel caso della geometria (Hilbert pensava primariamente a quella euclidea), dalla percezione del mondo fisico – un punto di vista, questo sulla connessione tra geometria e fisica, ripreso in anni recenti da Alain Connes. La ricerca hilbertiana dei fondamenti della geometria non era però distante dalla proposta di Frege per l’aritmetica. Hilbert, infatti, aveva dimostrato che ogni contraddizione che poteva esistere nella geometria euclidea doveva manifestarsi nell’aritmetica dei numeri reali.

Il programma di Hilbert, che era cominciato con i Grundlagen der Geometrie, aveva avuto una sua (quasi incubante) manifestazione nella conferenza del 1900 e sarebbe stato affrontato con nuovi scritti e chiarificato nel 1817, era, in qualche modo, una scarnificazione del lavoro del matematico nella sua attenzione ai fondamenti e alle strutture assiomatiche.

L’individuazione di un sistema di assiomi (in numero finito) è generalmente un evento tardo in una teoria matematica o fisico-matematica, la cui costruzione comincia per tentativi, inciampi, e si sviluppa per ripensamenti, discontinuità, stagnazioni, drastici balzi in avanti, arretramenti (nel senso che scoperte più o meno essenziali non riescono a raggiungere la comprensione e l’accettazione di una parte determinante al loro ulteriore sviluppo della comunità che in un dato momento storico lavora nell’ambito ad essi pertinente). La costruzione, lo sviluppo e l’affermazione di una teoria scientifica sono il prodotto dell’azione cumulativa d’ingegni di valore differente, di azioni disarticolate, di altre coordinate. Comunque si sviluppi, però, la presenza di un corpus di risultati teorici, che costituiscano un ambiente matematico astratto o abbiano una correlazione evidente con ciò che emerge dall’interazione dello sperimentatore con il mondo fenomenico, spinge quasi istintivamente alla riorganizzazione del soggetto, all’eliminazione dell’orpello, del superfluo, fino a far emergere la struttura essenziale. Questo istinto della pratica scientifica (almeno quella sostanziale, priva d’infingimenti, purtroppo non infrequenti), che direi naturale, scrivendo dopo Ockham, almeno nel programma di Hilbert, per come lo rese esplicito nel 1917, doveva portare la determinazione dei teoremi a un processo, per così dire, automatico, una volta che si fossero formalizzati per se stessi gli elementi di logica di ciò che si vuole sia una dimostrazione. E per automatico s’intende qui un modo di operare basato su regole di sistemi propri della logica, svincolati dal riferimento al significato delle parole (riconosco la necessità di successive precisazioni coinvolgenti, ad esempio, la nozione di logica e quella di modello di una teoria formale, ma la discussione porterebbe lontano dai limiti di quanto qui scrivo).

I sistemi di assiomi cui ci si vuole riferire qui sono coerenti: non permettono, cioè, che una data proposizione e la sua negazione siano entrambe dimostrabili. In questa visione, una volta assegnato un sistema finito di assiomi e la pertinente classe di regole logiche a un corpus di risultati matematici che costituiscano una teoria, una questione essenziale è se il sistema di assiomi sia allo stesso tempo coerente e completo. E qui mi riferisco alla completezza sintattica, cioè alla possibilità della dimostrazione di tutte le proposizioni che possono essere dedotte dal sistema di assiomi in questione. A questo problema avrebbe dato nel 1931 un contributo essenziale l’allora venticinquenne Kurt Gödel (1906-1978) con il suo Über formal unentscheidbare Sätzl der Principia Mathematica und verwandter Systeme I (Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e sistemi affini I), un articolo apparso sulle Monatshefte für Mathematik und Physik, una rivista di Lipsia. Il lavoro di Gödel riguarda teorie formali sviluppate da un insieme (finito) coerente di assiomi e da regole logiche, tali da includere l’aritmetica, prevedendo per i numeri naturali una definizione di tipo insiemistico. Si tratta di teorie che permettano la codifica di formule autoreferenziali – un elemento essenziale della tecnica usata da Gödel per la sua dimostrazione. Già nel titolo del suo articolo, Gödel indica che per regole logiche si riferisce a quelle contenute nei Principia Mathematica che il conte Bertrand Russell (1872-1970) e Alfred North Withehead (1861-1947) avevano pubblicato nel 1913. Di quelle teorie che ho appena indicato brevemente e che un lettore aduso al linguaggio della logica formale definirebbe capaci di rappresentare tutte le funzioni ricorsive primitive, Gödel dimostra l’incompletezza: l’esistenza di almeno una proposizione sintatticamente corretta di cui non si possa dimostrare verità o falsità nel sistema di assiomi e con le regole logiche considerate. L’unione di risultati di Gödel e di Paul Cohen (1934-2007) darà luogo a esempi concreti di proposizioni indecidibili in un dato sistema formale.

Una volta che si sia individuata una proposizione indecidibile in una data teoria, può venire spontaneo pensare che sia sufficiente inglobarla tra gli assiomi per ottenere una teoria completa. Anche in questo caso si troverebbe almeno un’altra proposizione indecidibile. Se si ripetesse il processo all’infinito, si avrebbe una teoria non ricorsiva, nel senso indicato poc’anzi, che non rientrerebbe nell’ambito cui si riferisce l’analisi di Gödel. E non è tutto. Gödel riesce a dimostrare che un qualsiasi sistema coerente non può essere utilizzato per mostrare la sua stessa coerenza. È quindi necessario ricorrere a elementi esterni alla teoria per mostrarne la coerenza. Un po’, ma è solo una suggestione, come accade nella costruzione dei modelli matematici di classi di fenomeni fisici: è necessario uscire dalla classe di fenomeni considerata, perfino dal mondo fisico stesso, per essere “sicuri” che ciò che il modello rappresenta sia effettivamente l’essenza di quella che intendiamo essere la realtà fisica.

Le stesse teorie fisico-matematiche, essendo strutture formali, ammettono la possibilità – almeno un tentativo – di assiomatizzazione. Di questo era cosciente Hilbert già al momento del suo discorso parigino. Il sesto dei problemi di cui parlò riguardava la possibile assiomatizzazione delle teorie fisiche. Anche questo rientrava nello spirito del tempo. Se si scorrono le introduzioni che Ernst Mach (1838-1916) scrisse alle varie edizioni del Die Mechanik in ihrer Entwickelung historish-kritish dargestellt, dalla prima del 1882 alla settima del 1912, nella quale sono tutte raccolte (si veda Mach, 2008), si osserva come la percezione di un crescente interesse sia tra scienziati sia tra filosofi di professione per la discussione concettuale sui fondamenti della meccanica tutta fosse per Mach sempre crescente. Mach aveva scritto la Mechanik quando era ancora a Praga, prima di trasferirsi a Vienna, e in essa aveva riversato il suo interesse per la storia delle discipline scientifiche, una storia che, a suo vedere, permetteva di evidenziare l’origine empirica dei modelli e la loro natura “pratico-economica” piuttosto che la loro essenza teoretica. I modelli gli apparivano quindi come “espedienti convenzionali” utili alla sola organizzazione dei rapporti funzionali fra i dati fenomenologici, questi ultimi poi filtrati attraverso le radici psico-biologiche delle sensazioni. Echi del pensiero di Mach (quello che è stato definito empiriocriticismo) erano riscontrabili nelle annotazioni di Heinrik Rudolph Hertz (1857-1894) – il suo Die Prinzipien der Mechanik in neuen Zusammenhange dargestellt è del 1894. Era – ripeto – lo spirito del tempo.

Nel presentare il suo sesto problema, Hilbert sostenne quanto segue (traduco un passo della versione inglese dell’articolo originario di Hilbert, disponibile, ad esempio, all’indirizzo elettronico http://aleph0.clarku.edu/~djoyce/hilbert/problems.html): “Le ricerche sui fondamenti della geometria suggeriscono il problema seguente: trattare nello stesso modo, per mezzo di assiomi, quelle scienze fisiche in cui la matematica gioca un ruolo importante; ai primi posti ci sono la teoria della probabilità e la meccanica.” In seguito, dopo una considerazione sulla probabilità, Hilbert ritornava a parlare essenzialmente di meccanica e, più in generale, dei modelli matematici del mondo fisico. “Sono disponibili ricerche importanti di fisici sui fondamenti della meccanica; mi riferisco agli scritti di Mach, Hertz, Boltzmann e Volkmann. Tuttavia è notevolmente auspicabile che la discussione sui fondamenti della meccanica sia ripresa anche dai matematici. Il lavoro di Boltzmann sui principi della meccanica suggerisce il problema di sviluppare in maniera rigorosa [a traduzione letteraria è in realtà “in maniera matematica”; la libertà interpretativa è supportata dall’odierno gergo nella fisica-matematica] il processo limite, lì meramente indicato, che porta dal punto di vista atomistico alle leggi dei moto dei continui. In altro senso si potrebbe cercare di derivare tramite un processo di limite le leggi del moto dei corpi rigidi da un sistema di assiomi correlati all’idea di vincoli che variano in maniera continua in un materiale che occupi anch’esso in maniera continua lo spazio, vincoli definiti da parametri. La questione dell’equivalenza di differenti sistemi di assiomi è sempre di grande interesse teorico. Se la geometria può servire come modello per la costruzione di sistemi assiomatici nella fisica [la traduzione del testo originario è in questo passaggio ragionevolmente libera, pur non alterando il senso, sebbene tradurre voglia spesso essere un dire quasi la stessa cosa], si proverà innanzitutto un piccolo numero di assiomi per includere una classe quanto più ampia possibile di fenomeni fisici, e quindi si potrà aggiungere nuovi assiomi per arrivare gradualmente a teorie più particolari. Ora, al tempo di Lie [si riferisce a Sophus Lie (1842-1899), matematico norvegese per il quale si può consultare (Stubhaug, 2000)], un principio di suddivisione può essere forse derivato dalla profonda teoria dei gruppi infiniti di trasformazioni. Il matematico dovrà tener conto non solo di quelle teorie che si avvicinano alla [descrizione della] realtà, ma anche, come in geometria, di tutte le teorie logicamente possibili. Egli deve fare sempre attenzione a ottenere una visione completa di tutte le conclusioni derivabili dal sistema di assiomi ipotizzato. Inoltre, il matematico ha il dovere di valutare esattamente in ogni caso se nuovi assiomi sono compatibili con i precedenti. Il fisico, allo svilupparsi delle teorie, spesso si trova forzato dal risultato dei suoi esperimenti a formulare nuove ipotesi, quando dipende, rispetto alla compatibilità delle nuove ipotesi con i vecchi assiomi, solo sulla base degli esperimenti [che ha a disposizione] o su di una certa intuizione fisica, una pratica che non è ammissibile nella costruzione logicamente rigorosa di una teoria. La dimostrazione desiderata della compatibilità di tutte le ipotesi mi sembra altresì importante perché lo sforzo di ottenere una tale dimostrazione ci spinge sempre e con grande efficacia all’esatta formulazione di tali assiomi”.

Hilbert assegna un ruolo preminente, anche solo citandolo come esempio, al passaggio dalla descrizione corpuscolare dei gas, propria dell’equazione di Ludwig Boltzmann (1844-1906), alla loro rappresentazione in termini idrodinamici, nel formulare il suo sesto problema. Purtuttavia la sua questione analitica sui fondamenti delle teorie fisiche si riferisce alla meccanica tutta (alle teorie fisiche in generale), includendo sia la descrizione del moto di sistemi costituiti da un numero finito di particelle materiali (palline puntiformi) o corpi rigidi, sia quella continua, propria dei corpi estesi, deformabili. Almeno così mi pare immediato interpretare, in contrasto con quanto sostenuto da Laure Saint-Raymond, per la quale il sesto problema di Hilbert coincide solo con la valutazione del limite cui tende l’equazione di Boltzmann quando il numero delle particelle del gas cui si riferisce cresce all’infinito, che è un suo personale tema di ricerca (Saint-Raymond, 2006).

Tra gli studenti di Hilbert, fu Georg Karl Wilhelm Hamel (1877-1954) quello che s’interessò della questione sollevata dal sesto problema (i fondamenti della meccanica), dopo aver affrontato il quarto problema nella sua tesi. Era proprio il 1900 quando Hamel giunse a Gottinga. Proveniva da Berlino, dove aveva studiato, tra gli altri, con Max Planck (1858-1947). A Gottinga Hamel cominciò a seguire un seminario sulla geometria descrittiva, l’elasticità e altri aspetti della meccanica, che teneva quell’anno Felix Klein. Negli studi con Klein e Hilbert, Hamel incrementò il suo interesse per la meccanica, in particolare per gli aspetti di fondamento, e lo avrebbe mantenuto lungo la sua carriera accademica (ebbe un ruolo preminente nell’associazione dei matematici tedeschi e fu deprecabilmente aderente al Nazional Socialismo) “tramettendolo” negli anni successivi, tornando a Berlino, a Istvàn Szabó (1906-1980) che gli successe.

Nel 1950 Clifford Truesdell giunse all’Istituto di Matematica Applicata dell’Università dell’Indiana, Bloomington, che era stato da poco istituito da Tracy Yarkes Thomas (1899-1983). Lì, tra gli studenti di David Gilbarg (1918-2001), incontrò Ericksen e Serrin che avrebbero avuto – come ho già ricordato – un ruolo essenziale nello sviluppo della discussione sui fondamenti della meccanica dei continui e della scuola truesdelliana tutta. Ben presto, Ericksen fu coinvolto nel servizio militare in Corea e dovette quindi posticipare i suoi studi. Truesdell si pose quindi il problema, neo professore in un Istituto che si proponeva di crescere, di trovare studenti capaci e motivati e pensò di trovarli nell’Europa post-bellica, in particolare in Germania, dove il disagio economico seguito al conflitto mondiale era naturalmente acuto (Truesdell, 1993). Scrisse allora a Hamel che non conosceva direttamente ma di cui aveva letto gli scritti e con cui aveva una connessione per essere entrambi nel comitato editoriale del Journal of Rational Mechanics and Analysis, quello che sarebbe poi diventato sotto la guida di Truesdell l’Archive for Rational Mechanics and Analysis, e avrebbe accolto contributi essenziali della discussione sui fondamenti della meccanica dei continui (una parte del sesto problema di Hilbert, quindi) prima che, progressivamente, al cambiare degli uomini, l’indirizzo della rivista verso gli aspetti analitici dei problemi meccanici diventasse prevalente, come è ormai accaduto nell’attraversare la fine del secolo ventesimo.

Hamel contattò Szabo. Quest’ultimo suggerì a Walter Noll (che probabilmente non voleva come assistente – Truesdell lascia intuire nelle sue note del 1993 difficoltà di rapporto tra Szabo e Noll) di sfruttare la possibilità. Noll giunse a Bloomington il 19 settembre 1953, ventottenne (era nato il 7 gennaio 1925), deciso ad accorciare i tempi per il conseguimento del dottorato. Ci riuscì con il supporto di Truesdell che scelse come tutore per la sua tesi e di cui non seguì gli iniziali suggerimenti – cosa che Truesdell non manca di ricordare con apprezzamento nello scritto del 1993 (Truesdell, 1993). Il 14 ottobre Noll affrontò un esame di qualificazione che dava alla commissione composta da Gilbarg, Gustin e Truesdell stesso un’idea della sua preparazione di base e lo proiettava verso la possibilità di scrivere una tesi di dottorato. Non senza un’implicita ironia e stima, Truesdell annotò (Truesdell, 1993) che in quell’occasione Noll avesse avuto difficoltà solo con due domande, una delle quali era la derivazione delle leggi di base della meccanica dei continui, una questione dei fondamenti della meccanica che avrebbe caratterizzato tutta la sua attività scientifica successiva e l’interazione con Truesdell stesso. Nel cominciare il volume che colleziona la corrispondenza con Noll (due riguardano quella con Toupin e tre le lettere con Ericksen, tutti conservati nella biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa), Truesdell annotò la notizia del superamento da parte di Noll dell’esame finale della sua tesi di dottorato “Sulla continuità degli stati solidi e fluidi” con la data 9 agosto 1954. Il 13 agosto, Truesdell scrisse a Hamel per ringraziarlo di aver sollecitato Szabo a mandare qualche giovane adeguato in Indiana e cominciò a inviare lettere di raccomandazione per assicurare una posizione accademica al suo studente. Il 19 agosto Truesdell scrisse a Garrett Birkhoff (1911-1996), a Harvard, ricevendo il 23 agosto alcuni consigli relativi ad una borsa di studio dedicata a Benjamin Pierce. Lo stesso giorno mandò una lettera di raccomandazione alla Northwestern University, in tutti i casi cercando di assicurare a Noll un lavoro nell’accademia americana. Nel frattempo, però, quest’ultimo era tornato in Germania ma Truesdell aveva speranza di riportarlo negli Stati Uniti, come annotò il 3 settembre di quell’anno. Per suo conto, il 25 gennaio 1955 Noll partecipò a concorsi a Harvard e Princeton, manifestando ulteriormente la disponibilità a tornare negli Stati Uniti. I tentativi furono molteplici e Truesdell cercò di consigliare Noll di scegliere posizioni in ambienti adeguati. Il 17 gennaio 1956, Truesdell ricevette da Szabó la richiesta di una lettera di raccomandazione ufficiale per Noll, perché pareva aprirsi una possibilità d’impiego a Berlino. Truesdell rispose il 23 gennaio.

“Gentile Professor Szabó, sono contento di replicare alla sua richiesta riguardante il Dr. Walter Noll. Non ero a conoscenza del lavoro di Noll precedente al 1953, quando egli giunse in questo Istituto [si riferisce all’Istituto di Matematica Applicata dell’Università dell’Indiana]. A quel tempo egli aveva una buona educazione di base nella matematica pura e in temi classici della meccanica. Non aveva maturato alcuna esperienza con i moderni sviluppi della meccanica dei continui non-lineare. In dodici mesi completò tutti i passi richiesti per conseguire il dottorato, inclusa una tesi di fondamentale importanza. La tesi di Noll è stata sviluppata sotto la mia direzione, ma oltre a suggerire l’argomento generale e criticare i dettagli, non ho interferito con il lavoro. Il principio di “Isotropia dello Spazio”, che è una richiesta d’invarianza per tutte le equazioni costitutive della meccanica, come anche dettagli numerosi e originali, sono interamente idee proprie di Noll. …” E andava avanti con questo tono, attribuendo all’allievo il suo lavoro, senza appropriarsene, quest’ultima un’attività non infrequente nell’industria culturale. Il frammento appena riportato è pubblicato qui per la prima volta – la traduzione è dall’originale dattiloscritto di Truesdell.

L’8 febbraio 1956, Noll ricevette una proposta d’impiego a Berlino. Aveva accettato, però, nel frattempo un’altra proposta per una cattedra di professore associato a quella che oggi è la Carnegie-Mellon University, dove è rimasto fino alla pensione. Noll ritornava negli Stati Uniti, questa volta definitivamente, e il sodalizio con Truesdell poté essere più intenso e culminare con il secondo “articolo” monumentale, anche nelle dimensioni, di Truesdell, The Non-Linear Field Theories, un capitolo dell’Handbuck der Physik che faceva il paio con l’articolo con Toupin che ho già citato, due passaggi fondamentali della moderna meccanica dei continui.

Con il suo lavoro Noll ha spinto con decisione l’interesse non meno forte di Truesdell verso gli aspetti di fondamento. Ha insistito in un atteggiamento (bourbakista, direi) che da un lato ha dato innegabili frutti nello stabilire il canone moderno della meccanica non-lineare dei corpi deformabili, dall’altro, proprio per l’aver determinato un edificio concettuale neoclassico compiuto, ha “rallentato” in un certo senso, proprio per quella compiutezza, la successiva naturale espansione verso quella che viene oggi spesso chiamata meccanica dei corpi complessi. Con questa locuzione intendo indicare i tentativi della meccanica contemporanea dei corpi deformabili di fornire modelli che tengano conto dell’interazione delle mutazioni delle microstrutture materiali a piccole scale spaziali e temporali con il comportamento visibile dei corpi estesi nello spazio. La questione riguarda sia la descrizione della meccanica di materiali dalle proprietà esotiche, disponibili in natura e/o prodotti dall’industria chimica per soddisfare particolari richieste di prestazioni tecnologiche, sia i tessuti biologici. La sua discussione porta ad addentrarsi in territori vasti e in gran parte inesplorati. In ogni caso, la sola descrizione degli aspetti più di dettaglio dell’analisi dei fondamenti della meccanica dei corpi deformabili della scuola truesdelliana e, soprattutto, le ragioni che hanno portato a tentativi contemporanei di una visione più estesa di essi meritano un successivo saggio che vada oltre questo, che deve considerarsi forse solo uno scarno preambolo.

Riferimenti Bibliografici

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  11. Truesdell C. A. (1993), The naturalization and apotheosis of Walter Noll, dattiloscritto disponibile in www.math.cmu.edu/~wn0g/TL.pdf.
  12. Yandell B. H. (2002), The honors class. Hilbert’s problems and their solvers, A. K. Peters, Ltd., Natick, MA.

[in “Prometeo” giugno 2013]

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