La situazione è per molti aspetti paradossale. La lunga crisi partita dal 2007 ha accresciuto il tasso di disoccupazione, ma soprattutto ha enormemente accresciuto la disoccupazione giovanile. Questo dato ha molteplici cause, ma è da rilevarsi che probabilmente la principale sta nella scelta di imporre limiti alle assunzioni nel pubblico impiego. E’ una scelta che – dato poco noto nel dibattito pubblico – ha portato il perimetro della pubblica amministrazione italiana a una continua contrazione, coì che, ad oggi, come rilevato dall’OCSE, per numero di dipendenti, l’Italia è al fanalino di coda fra i Paesi dell’Eurozona e fra i Paesi OCSE: il 13% della forza-lavoro, a fronte di una media OCSE di quasi il 20%. Il blocco delle assunzioni ha anche prodotto un aumento dell’età media dei dipendenti pubblici, che si assesta a 55 anni (a fronte di una media OCSE di circa 34 anni) e gli stipendi medi – al netto di quelli dei manager – sono di gran lunga inferiori a quelli degli altri Paesi europei.
Il paradosso consiste in questo: l’Italia ha un settore pubblico ampiamente sottodimensionato (e anche per questa ragione poco efficiente), con lavoratori in età elevata (e anche per questa ragione la sua produttività è bassa) e con una platea di giovani istruiti molti dei quali preparata per svolgere attività di ricerca. Il paradosso si fa ancora più tale, se si considera che, su fonte OCSE, la spesa pubblica in ricerca e sviluppo in Italia è fra le più basse nei confronti dei Paesi dell’Eurozona e che la spesa privata in ricerca e sviluppo, per il complesso dell’economia italiana, è sostanzialmente nulla. Su fonte OCSE, il numero di ricercatori in Italia è di gran lunga inferiore alla media dei Paesi industrializzati e le poche innovazioni che il sistema fa proprie sono importate. E’ palese come questo influisca sulla dinamica della produttività del lavoro e, dunque, sul tasso di crescita.
Il tasso di crescita della produttività del lavoro in Italia è – anche in questo caso – fra i più bassi nel confronto con la media OCSE e soprattutto è in continuo declino (almeno) a partire dagli anni novanta. Il rallentamento del tasso di accumulazione del capitale – pubblico e privato – e la diffusa presenza di imprese di piccole dimensioni poco innovative ne spiegano la causa. Si può considerare, a riguardo, che circa la metà degli occupati in Italia lavora in imprese con meno di 10 dipendenti producendo circa il 30 percento del Pil. Si stima anche che sono meno del 30 percento i dipendenti di aziende con meno di 10 occupati nell’Unione europea e 20 percento in Germania dove producono rispettivamente il 21 ed il 15 percento del Pil.
Un calcolo approssimativo ma ragionevole porta a quantificare intorno ai 2 miliardi di euro un programma di assunzioni nel pubblico impiego che siano finalizzate a produrre innovazioni (il calcolo è effettuato sulla base di un salario mensile netto di 2000 euro e riferito a un programma di assunzioni che, almeno nella fase iniziale, riguardi i soli lavoratori con più alto titolo di studio). E’ l’ipotesi di Stato innovatore di prima istanza. Se il settore privato non innova e se la disoccupazione giovanile altamente qualificata è in continua crescita, se il settore pubblico è ampiamente sottodimensionato, appare del tutto ragionevole che sia l’operatore pubblico a farsi carico dell’aumento delle assunzioni e, al tempo stesso, della produzione di innovazioni. Produrre innovazioni nelle Università e nei centri di ricerca genera effetti benefici per la crescita per almeno due ragioni:
- Innanzitutto, l’aumento delle assunzioni accresce la domanda interna, a beneficio delle molte imprese italiane – localizzate soprattutto nel Mezzogiorno – che vendono sul mercato domestico.
- La produzione di innovazioni, che potrebbe tradursi nella produzione diretta di beni ad alto valore aggiunto da parte di imprese pubbliche, si trasmette al settore privato per un canale diretto e un canale indiretto. Il canale diretto riguarda possibili (e auspicabili) sinergie fra pubblico e privato per la trasmissione di nuova conoscenza. Questo canale è già in atto in aree nelle quali i centri di ricerca cooperano da tempo con imprese private e potrebbe essere incentivato in aree nelle quali queste prassi sono sostanzialmente assenti (e l’esistenza stessa di sedi universitarie è valutata di scarsa rilevanza dal settore privato, come in molti casi in Italia e ancor più nel Mezzogiorno). Il canale indiretto attiene al seguente meccanismo. L’aumento dell’occupazione conseguente ad assunzioni nel pubblico impiego rende difficile per le imprese competere attraverso la moderazione salariale e le spinge a guadagnare competitività attraverso l’avanzamento tecnico.
Si può aggiungere che le innovazioni alle quali si fa riferimento non sono solo innovazioni tecnologiche ma anche ricerca di base e innovazioni sociali (che possono riguardare, per esempio, modalità nuove di organizzazione del lavoro). In tal senso, il programma di Stato come datore di lavoro di prima istanza non fa riferimento alla sola assunzione di ingegneri e tecnici nel settore pubblico. In più, l’aumento dell’occupazione non riguarderebbe la sola occupazione qualificata. Un aumento della domanda interna, infatti, spingerebbe anche le imprese private ad assumere e, comunque, il buon funzionamento dei centri di ricerca oltre a richiedere ricercatori richiede anche la disponibilità di figure professionali diverse. Sul piano normativo, l’attuazione di questo programma non incontra ostacoli nella legislazione europea. L’importo stimato è di gran lunga inferiore a quello della spesa complessiva dei provvedimenti del Governo in carica.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 12 aprile 2019]