Mi viene in mente un famoso brano di Calvino intitolato L’antilingua, che racconta il seguente episodio (immaginario ma realistico, sembra vero). Un poveraccio è accusato di furto con scasso, avrebbe rubato un fiasco di vino da una bottiglieria. L’accusato dichiara: «Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata». E il brigadiere registra la sua dichiarazione “ufficiale”: «Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante».
L’accusato per difendersi usa una lingua concreta, fatta di parole comprese da tutti: «cantina», «accendere la stufa», «fiaschi di vino», ecc. E il brigadiere traduce in una lingua burocratica e lontana, in una “antilingua”, preferita perché sembra più importante rispetto alla lingua di tutti i giorni: «locali dello scantinato», «eseguire l’avviamento dell’impianto termico», «quantitativo di prodotti vinicoli», ecc.
Tutto questo non avviene per cattiva volontà, avviene per abitudine e per superficialità. E non ne risulta affetto solo l’immaginato funzionario di polizia, il fenomeno coinvolge segmenti estesi della popolazione, raggiunge anche chi si occupa professionalmente della lingua, perfino professori e giornalisti. L’antilingua consiste nel ricorrere a parole che sembrano solenni, più elaborate rispetto all’uso corrente, che per questo appaiono preferibili. Ma è vero esattamente il contrario, dobbiamo usare parole facili e comprensibili, migliorerà l’efficacia della comunicazione.
Su un piano diverso, non molto distante, si colloca l’abuso di frasi fatte e di stereotipi, adottati senza badare agli effetti che ne derivano, a volte addirittura comici. In un quotidiano nazionale del Nord alcuni anni fa lessi il seguente titolo involontariamente umoristico: «non piove da mesi e la Brianza è con l’acqua alla gola». Giuro che qualche tempo dopo in un quotidiano del sud (non il nostro, per fortuna) apparve: «non piove da mesi e la Puglia è con l’acqua alla gola». Quei titolisti non si copiano a vicenda, usano la lingua in modo improprio, ricorrendo senza badare a stereotipi linguistici, anche quando sono del tutto inadeguati. Non sfruttano le enormi potenzialità dell’italiano, si accontentano di «minestre riscaldate». Altre volte ho ricordato esempi reali, letti in altri articoli: «il cane, con un balzo felino…» e «i tre, benché calabresi, erano incensurati» (cronaca dell’arresto di tre individui sospettati d’una rapina in banca).
L’uso di espressioni meccaniche e ripetitive farcisce negativamente molte cronache giornalistiche e molti notiziari televisivi. Pensate agli «scafisti senza scrupoli» che traghettano sulle nostre coste migliaia di sventurati, ai «blitz» di polizia e carabinieri che invariabilmente «scattano alle luci dell’alba», alla «morsa del gelo» (puntualmente segnalata dalla «colonnina di mercurio»), che a volte d’inverno ci «attanaglia», specie quando le nostre città sono sepolte da una «coltre di neve». Oppure, «cambiando decisamente argomento», pensate al «transatlantico», dove parlamentari del «cerchio magico» o del «giglio magico», spesso «raggiunti da avvisi di garanzia» oppure sospettatati di attività sottoposte «al vaglio degli inquirenti» («le indagini sono a 360 gradi»), invece di occuparsi dell’«interesse nazionale» si dedicano al «teatrino della politica». O infine, e così «voltiamo definitivamente pagina», veniamo dettagliatamente informati sul «lato B» di molte signore e signorine, non solo quello prototipico di Pippa Middleton, la bella sorella di Kate, «balzata agli onori della cronaca» durante le «nozze del secolo», la «cerimonia da favola» con la quale la sorella ha «impalmato» l’«affascinante/atletico principe William».
Alcuni anni fa Ornella Castellani Pollidori, che ha insegnato a Firenze, per definire questa lingua intessuta di formule consunte e vuote, e perciò stesso vaghe, coniò l’espressione “lingua di plastica” (una variante più diffusa dell’“antilingua” di Calvino). Ci invitava a diffidare dei luoghi comuni linguistici che hanno scarsi margini di precisione, sono poco aderenti alla realtà e alla specificità delle cose e quindi risultano incapaci di esprimere esattamente il nostro pensiero. Peggio, sono fastidiosissimi.
Ricordate il dialogo di Palombella rossa, il film di Nanni Moretti. All’intervistatrice che usa frasi come «matrimonio a pezzi», «rapporto in crisi», «è così kitsch», «io non sono alle prime armi», «il mio ambiente è molto “cheap”», «ma lei è fuori di testa!», il protagonista reagisce aggressivamente: «Dove le andate a prendere queste espressioni, dove le andate a prendere…?», «ma come parla?», «Come parla! Come parla! Le parole sono importanti. Come parlaaaaaaaaaa!» fino alla conclusione, che mi sento di sottoscrivere: «Chi parla male, pensa male, e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!».
Le parole valgono, senza dubbio. Un video, che ha come protagonista la giovane attrice Angela Curri, gioca in maniera divertente sull’uso ripetuto della parola «carino» per descrivere cose, circostanze, luoghi e contesti differenti. Il video ha grande successo anche in rete, è virale (come oggi si usa dire). L’attrice, con diversi toni di voce, usa «carino» quando vede passare un bel giovane palestrato, quando un signore le cede il posto in autobus, quando commenta un film che le è piaciuto, sospira «che carino» quando abbraccia affettuosamente un cucciolo di cocker, sussurra «carinissimo» quando ammira il panorama dei sassi di Matera. Alla fine si ravvede e capisce che non tutto è semplicemente «carino», termine consunto che non può valere per definire cose o fatti così diversi. La nostra lingua possiede altri aggettivi, che possiamo variare a seconda delle circostanze: «magnifico», «emozionante», «sconvolgente», «eccezionale», «splendido», «grandioso», «fantastico», «bellissimo». Si tratta di una intelligente campagna pubblicitaria a favore del Vocabolario Treccani, potrebbe valere in generale per altri vocabolari pure eccellenti (per fortuna ve ne sono: De Mauro, Devoto-Oli, Garzanti, Sabatini-Coletti, Zingarelli). Il video si chiude con uno slogan semplice ed efficace: «Senza parole? La lingua italiana ne comprende oltre 250 mila, usiamole». La campagna si concentra opportunamente sulla ricchezza della lingua italiana e sulle sfumature dei termini che la compongono. L’obiettivo è condivisibile: spingere tutti noi, indipendentemente dalla nostra attività o professione, ad ampliare e diversificare il nostro lessico quotidiano.
Non bastano le 500 parole (più o meno) che parrebbero sufficienti per le necessità elementari della vita quotidiana: ne risulterebbe appiattita e manichea la visione stessa del mondo. Disporre di un lessico ampio non è un lusso per pochi: la ricchezza lessicale consente di elaborare i concetti, semplici e anche complessi, trovando le parole adeguate per poterli esprimere.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 21 agosto 2016, p. 7]