di Andrzej Nowicki
Nella filosofia italiana del Novecento ci sono due lacune, non di contenuto ma di forma. Mancano i poemi filosofici e i dialoghi. Da questo punto di vista il Novecento italiano rappresenta non un progresso ma un deplorevole regresso in confronto agli splendidi vertici raggiunti con Giordano Bruno, Giulio Cesare Vanini e decine di loro contemporanei vissuti tra il Quattro e il Seicento.
L’epoca di Bruno e Vanini merita il nome di rinascimento della cultura filosofica dell’antichità greca e romana, perché il poema filosofico De innumerabilibus di Bruno non cede al De rerum natura di Lucrezio, i poemi filosofici di Marcello Palingenio Stellato, Aonio Paleario e Scipione Capece pure suscitano ammirazione, e i dialoghi filosofici di Lorenzo Valla, Giordano Bruno, Giulio Cesare Vanini, Galileo Galilei non cedono ai dialoghi di Platone.
C’è un solo poema filosofico scritto nel Novecento? Il nome di un italiano contemporaneo capace di esprimere pensieri filosofici in settemila esametri latini?
Con la boria contemporanea si potrebbe rispondere che si tratta di forme antiquate, antidiluviane, che oggi non si scrive in questo modo. Che non si scriva in questo modo è vero, ma perché? Perché non si ha più la capacità di comporre trattati filosofici in versi né veri dialoghi.