di Antonio Errico
Per quanto è stato breve – fugace – il Novecento, o per quanto è stato lungo (interminabile, si è anche detto), la letteratura del Salento lo ha attraversato confrontandosi con le sue storie complesse, complicate, con i suoi interrogativi che bruciavano – che bruciano ancora-, con gli eccessi, le nostalgie, gli entusiasmi, le delusioni, gli equivoci, gli enigmi, i fraintendimenti, le contraddizioni. Le espressioni e le forme del secolo si sono costituite come soglia e come orizzonte, soprattutto per l’esperienza della poesia. Perché, mentre la narrativa ha privilegiato prevalentemente l’indagine del passato, le proposte che venivano dalla Storia, la poesia ha ingaggiato un corpo a corpo con la condizione della contemporaneità, trasformando gli esiti e i significati di quel corpo a corpo in pietra di fionda da scagliare nel futuro. Si potrebbero fare esempi, certamente. Ma ogni esempio è sempre limitazione. Si potrebbe dire Vittorio Bodini, con tutta la sua potenza figurativa; si potrebbe dire l’altro Vittorio, Pagano, con la sua potenza corrosiva; si potrebbe dire Antonio Verri, con le sue manomissioni delle codificazioni della Storia, in particolare nel “Pane sotto la neve”, con il suo sogno del “Declaro”; oppure si potrebbe dire Vittore Fiore, con il sentimento dell’autobiografia che coincide con quello della storiografia; oppure, ancora, Nicola G. De Donno, con una lingua dialettale che diventa resistenza all’omologazione.