Di mestiere faccio il linguista 6. L’Italiano all’estero

E poi c’è l’emigrazione, che viviamo quotidianamente. Sbarcano sulle nostre coste migliaia di esseri umani con la pelle di un altro colore, spesso per sfuggire a morte e oppressione;  tutti sognano una vita migliore. Ne nascono problemi mastodontici, le opinioni sono diverse, lo so, forse non possiamo accogliere tutti coloro che arrivano da noi. Speriamo che chi è chiamato a decidere decida bene.

Ma ognuno deve fare la propria parte. Anche ricordando, aiuta a riflettere. Nei secoli passati le cose andavano in senso inverso rispetto ad oggi, siamo stati noi gli emigranti, in Europa, in America del nord e in America del sud (oggi in parte ricominciamo). Per decenni gli emigranti sono stati ambasciatori straordinari della nostra lingua, che hanno diffuso in tante parti del mondo. È recente (2011) la prima Storia linguistica dell’emigrazione italiana nel mondo, che affronta globalmente le dinamiche che hanno coinvolto gli emigrati italiani all’estero, ricostruendo gli aspetti linguistici del fenomeno migratorio, diversamente articolati nelle diverse zone. Il progetto Italiano 2010. Lingua e cultura italiana all’estero, varato pochi anni fa dal Ministero degli Affari Esteri, rappresenta una ricca disamina diretta a «studiare, attraverso una ricerca su scala planetaria, l’interesse che l’italiano suscita fuori dai confini nazionali e gli strumenti messi in campo per favorirne la diffusione e l’apprendimento» (vi hanno lavorato Claudio Giovanardi e Pietro Trifone, che insegnano a Roma). La conclusione collima con quanto ho detto prima: nel mondo c’è un crescente bisogno di italiano, cresce la domanda, crescono la qualità e la intensità delle risposte che la nostra nazione riesce a dare, pur a volte con difficoltà.

Le motivazioni che spingono gli stranieri all’apprendimento della nostra linguasi dispongono secondo le seguenti percentuali: tempo libero e interessi vari 55,8 %, studio 21 %, lavoro 12,8 %, motivi personali e familiari 10,4%. Naturalmente i numeri mutano a seconda dei contesti storici e geografici. Per fare un solo esempio, è legato alla storia e ai flussi migratori, alla volontà di rinsaldare le proprie radici, il fatto che in America Latina le percentuali delle motivazioni all’apprendimento dell’italiano siano diversamente distribuite rispetto a quelle globali che abbiamo richiamato prima: motivi personali e familiari (esplicitamente indicata “la famiglia di origine italiana”) 37%, tempo libero e interessi vari 27%, studio 27%, lavoro 9%. Il ribaltamento non è casuale: si tratta delle nazioni dove il legame dei gruppi migranti con la lontana terra d’origine è particolarmente avvertito e l’intensità del fenomeno migratorio è quantitativamente rilevante.

All’estero l’italiano va forte, non c’è dubbio. Non solo siamo amati; si fa di più, siamo imitati. In alcuni campi, quelli in cui siamo molto apprezzati, si verificano episodi sintomatici, con risvolti pratici tutt’altro che secondari. In ambito commerciale si usa la nostra lingua a fini promozionali,  si inventano nomi inesistenti, che pretendono di richiamare il mondo italiano con accostamenti linguistici più o meno fantasiosi. Sui menu di ristoranti italiani negli Stati Uniti è normale leggere «primo» e «secondo», come da noi, certo fa piacere. Ma, in aggiunta, alcuni ristoranti di New York  con cucina italiana offrono pietanze come «Lobster Fra Diavolo», «Shrimp Fra Diavolo», «Chicken Scarpariello», ecc.,  che propongono con nomi fintamente italiani piatti che in Italia non esistono (li ha catalogati un linguista che insegna a New York, Hermann Haller). I clienti, confusi dal nome, cedono al richiamo e credono di mangiare cibi italiani.

Il ricorso a italianismi fittizi, coniati allo scopo di agevolare il consumo e lo smercio di prodotti fintamente italiani non riguarda solo un gruppo di ristoranti newyorkesi, non è limitato ad una sola città, per quanto importantissima. Da circa vent’anni Howard Schutz, fondatore e guida della più grande catena americana di caffetterie, cerca di entrare nel mercato italiano per vendere in Italia, patria del caffè, la miscela da noi preferita in versione americana. Per di più a un prezzo quasi tre volte superiore a quello della tazzina nostrana. L’idea di aprire il primo «coffee store» venne all’imprenditore nel 1983, dopo un viaggio in Italia. Tornato a Seattle, decise di ricreare lo spirito della caffetteria italiana, intesa come punto d’incontro e di lettura dei quotidiani. La sua prima iniziativa imprenditoriale nel campo fu battezzata «il Giornale», dal nome del quotidiano milanese.  La catena è «Starbucks» (registro il nome con trepidazione, involontariamente sto facendo pubblicità), i punti vendita nel mondo sono 22.519 in 67 paesi (crescono in continuazione, magari oggi sono di più). Da qui sono nate bevande che si ispirano a nomi italiani, in parte inventati: «Frappuccino», «Americano», «Espresso macchiato», «Espresso doppio». Per concludere: nomi italiani servono a pubblicizzare un’iniziativa imprenditoriale americana, che ora cerca di entrare commercialmente nel nostro paese. Non conosco gli esiti della lunga trattativa, se approderà lo vedremo.

Non va diversamente nel mondo commerciale tedesco. Recentemente a Lecce una grande catena tedesca di supermercati ha aperto un nuovo punto vendita. Verificate. Negli scaffali predominano vari prodotti etichettati «Italiamo» (che è una ditta con sede in Germania), ci sono grissini,  crackers e fette biscottate che si chiamano «Certossa», sughi, olive e carciofini prodotti da «Baresa»,  marche di caffè e cioccolata che si chiamano «Bellarom» e «Caffeciao»: insomma marchi tedeschi con fono-morfologia allusivamente italiana. Il prodotto (fintamente) italiano si vende di più. In Germania dappertutto è diffuso il «parmesan», che non ha nulla che vedere con l’originale italiano. Non ha avuto successo il «freddocino»  ‘sorta di cappuccino freddo’ che veniva propagandato nei bar, non sempre il trucco funziona.

Parmigiano e prosciutto sono i prodotti alimentari italiani più imitati all’estero. Negli Stati Uniti si spaccia per originale un falso «Parmeggiano». Un articolo di Federico Rampini su «la Repubblica» informa:  «Gli americani […] non hanno mai riconosciuto i marchi locali, come la denominazione del prosciutto di Parma: per loro esistono solo marchi aziendali. Fino alla “circonvenzione d’incapace”, che è l’uso del cosiddetto “Italian Sounding”» (ecco un altro anglicismo, servirà anche questo a mascherare il fenomeno? O a renderlo quasi attraente?), cioè nomi che suonano italiani, assomigliano agli originali, e traggono in inganno la massa dei consumatori meno avveduti. Il giornalista conclude: «Ma ci sono cascato anch’io, confesso: una volta, nella fretta mi è capitato di scambiare l’infame “Parmeggiano” per il prodotto vero».

Il giro d’affari dei cibi che hanno un nome italiano ma non sono italiani pare che valga circa 60 miliardi di euro all’anno. Il ministero del commercio estero, i politici che lavorano in Europa, i nostri imprenditori, hanno niente da dire (o meglio: da fare) in proposito? Si muovano. La battaglia per la lingua può diventare  una battaglia per l’economia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 7 agosto 2016]

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