Che cosa ha fatto nascere la coscienza nell’uomo? La coscienza come l’essere presente a se stessi, il sapere di essere qui ed ora, col proprio corpo, in uno spazio e in un tempo precisi. La coscienza, dunque, è figlia della caducità, e ci accomuna a tutti gli esseri viventi. Anche gli animali, infatti, temono la morte e le si sottraggono, e così pure le piante inventano sistemi di autodifesa e di riproduzione finalizzati a sconfiggere la morte. Tutti gli esseri viventi hanno una coscienza, che è, in definitiva, il sentimento del vivere.
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Non avrebbe senso pensare ad un tempo infinito tout court, privo di una scansione. Tempo infinito e tempo finito. Il tempo finito lo abbiamo dedotto dalla coscienza della morte, il tempo infinito da quanto immaginiamo che ci sia prima e dopo la nostra morte. Il tempo finito ha dato un senso alla nostra caducità, quello infinito all’illusione della nostra immortalità (l’anima). Così abbiamo elaborato un’artificiosa nozione di tempo finito-infinito, proprio quella che si legge ne L’infinito di Leopardi, che culmina nel naufragio del pensiero (e il naufragar m’è dolce in questo mare). Proviamo a sottrarre la vita dell’uomo a tale artificio. Che cosa rimane? Il nulla, l’essere privo di coscienza.
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Penso al luogo in cui vivo, la città di Galatina, come a una piccola parte dello spazio urbano dove si svolgono i miei rapporti umani. I paesi del circondario, Sogliano, Soleto, Aradeo, Cutrofiano, Galatone, ecc., e poi quelli più lontani, a sud fino al Capo di Leuca, a nord-est e a nord-ovest fino a Brindisi e Taranto, formano uno spazio urbano relativamente vasto, intervallato da ampie campagne e chiuso tra i due mari, una vera conurbazione che chiamiamo Salento (un tempo Terra d’Otranto); una rete di paesi e città in una mappa, nella quale Galatina compare come un semplice snodo stradale. In effetti, quando diciamo Salento, diciamo il luogo dove abbiamo vissuto, le cui strade abbiamo percorso, i cui paesi ci sono familiari, sulle cui marine abbiamo passeggiato, i cui paesaggi, belli o brutti che siano, hanno visto tante volte i nostri occhi. Ma oltre c’è il mondo intero, non lo dimentichiamo. Zibaldone galatinese, sì, ma entro questa cornice, e anche oltre…
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Da ragazzo, essendo mio padre piuttosto impacciato nei movimenti a causa degli esiti della poliomielite infantile agli arti inferiori, gli davo una mano nel sistemare i libri della sua biblioteca. Posso dire di essere stato, fin dall’età di dieci anni (e anche meno) il suo bibliotecario. È così che ho fatto il mio apprendistato coi libri, non leggendoli, ma semplicemente maneggiandoli. Ora, io credo che questa azione del maneggiare i libri abbia influito molto sul mio successivo attaccamento agli stessi libri e mi abbia condotto naturaliter alla loro lettura. Maneggiare i libri: non è forse quanto facciamo in primo luogo quando ci accingiamo a leggere? Ecco la ragione per cui spesso porto i miei studenti in biblioteca, perché maneggino i libri. E con ciò anche sperimento su me stesso che l’insegnamento è un’arte che si impara vivendo, non seguendo un corso di didattica.
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La parola a J. J. Rousseau, Discorso sull’economia politica, in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 118: “Riassumiamo in poche parole il patto sociale dei due stati: Tu hai bisogno di me perché io sono ricco mentre tu sei povero; facciamo dunque un accordo fra di noi: io ti concedo l’onore di servirmi, ma a condizione di consegnarmi quel po’ che ti resta, per ripagarmi della fatica che mi costerà il darti degli ordini”.
Così Rousseau riassume il rapporto tra ricco e povero. E non è senza significato che, come avverte la n. 30 di p. 1389, “Questo passo fu ripreso da Karl Marx, Das Kapital, I, 8, 30, che attribuisce queste parole al capitalista. Oggi potrebbe essere riscritto in questo modo: “Riassumiamo in poche parole il patto sociale dei due stati: Tu hai bisogno di me perché io sono ricco mentre tu sei povero; facciamo dunque un accordo tra di noi: io ti concedo l’onore di servirmi, ma a condizione che tu mi consegni non solo quel po’ che ti resta, ma anche, contraendo dei debiti con me, tutto quello che guadagnerai durante la tua vita, per ripagarmi della fatica che mi costerà il darti degli ordini e il farti dei prestiti”.
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Penso che cosa voglia dire davvero volere qualcosa, alla natura del desiderio, che, per realizzarsi, deve incontrare sulla sua strada un quid di realtà, utile a liberarlo dalla sua soggettività. Il desiderio deve incontrare la necessità, sotto pena di mutarsi in velleitario impulso che si ripiega su se stesso e muore. Tutta la vita, forse, non è altro che un desiderio incessante che si realizza nella realtà, e quando si muore ciò accade perché manca l’uno e l’altra. La morte subentra quando non è più necessario vivere. A volte il desiderio di vivere insiste, ma la morte se ne infischia perché esso si è ormai diviso dal suo quid di realtà. La vita infatti altro non è che l’essere di ciò che è necessario che sia.
Indicazione di morale pratica: se hai un desiderio, tientelo per te; lo appagherai solo quando alla vita sembrerà necessario che ciò accada, sapendo bene che non è la vita a farti un favore, ma è essa stessa che con ciò pienamente si realizza.
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Leggo ne “Il Manifesto” del 6 gennaio 2016, p. 15 un articolo di Laura Pennacchi dal titolo Diseguaglianza, una scelta politica, da cui traggo questa citazione: “… la “genialità”, se così vogliamo chiamarla, del neoliberismo è stata di inventare, per sopperire alla caduta del tenore di vita conseguente alla compressione dei salari, un nuovo elemento autonomo di domanda – il consumo finanziato con debito – …”.
In parole povere, il ricco non solo ha tenuto bassi i salari dei poveri (prima fonte di sfruttamento), ma ha anche incoraggiato il salariato a indebitarsi (seconda fonte di sfruttamento). “Genialità”? io parlerei meglio di una gran “furbata”!
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Quello che tento di fare nelle mie scritture è creare me stesso. Mettendo in scena il mio io, gli do una forma, e sono il primo a stupirmi di molte cose inaspettate che vengono fuori dalla mia penna. Non credo di essere affetto da narcisismo, perché il narcisista è preso dall’illusione di poter amare se stesso, un se stesso che è lì, di fronte a lui, nello specchio del fonte, e gli rimanda un’immagine sempre uguale, irretendolo nell’inganno. A me capita, invece, di scoprire, scrivendo, il me stesso che non c’è più, il me stesso che sono stato un tempo, ed anche il me stesso che non conoscevo; e di poter fare questo solo ora che è passato tanto tempo e sono rimaste solo immagini vaghe, ch’io cerco di rendere nitide, recuperandole, restaurandole in un discorso coerente, in un racconto. Quest’opera di recupero e di scoperta è lontanissima dal narcisismo, perché è dettata dalla necessità di salvaguardare quanto resta di un’esistenza che rischierebbe di presentarsi muta dinnanzi alla morte.
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Mi torna in mente la mia stanza nel Collegio Vecchio ad Urbino, dove alloggiai nell’ultimo anno di università, a.a. 1985-1986. Era una stanza piuttosto ampia, con una gran vetrata e con bagno e doccia in camera, riservata agli studenti laureandi e ai professori. Dopo la vita goliardica dei collegi La Vela, Tridente, Aquilone e Serpentine, nei quali, all’interno del medesimo appartamento, si aprivano sei e più stanze coi servizi in comune, improvvisamente si era proiettati in una realtà diversa: il Collegio Vecchio. Gli esami sostenuti con regolarità e la prossima laurea davano diritto ad una maggiore autonomia. La solitudine della stanza doveva favorire lo studio e la preparazione della tesi. Ci si sentiva soli, ma la solitudine era gratificante, perché il traguardo si intravvedeva vicino. Mancava la cucina, ma io supplivo con un fornelletto a gas, sul quale scaldavo il latte e preparavo il caffè o il tè, mentre andavo a mangiare nella vicina mensa.
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Sconsolate considerazioni di Emanuele Trevi, (In)felici a cinquant’anni, nel “Corriere della Sera” del 4 febbraio 2016, p. 25: “Quando eri giovane, pensavi ai cinquant’anni come a un’età biblica, in cui tutto ciò che è possibile imparare dalla vita è stato imparato, nel bene e nel male. E invece, eccoti qui, che della vita non hai capito nulla, e hai il sospetto che ormai andrai avanti così, dovessi pure arrivare al beato traguardo dei novanta…”.
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Scena di vita famigliare. Io e Ornella seduti sul letto uno di fianco all’altra, lei intenta a smanettare al computer, io con un libro in mano; di fronte a noi lo specchio dell’armadio che riflette la nostra immagine, come in un quadro. Ci siamo detti, sorridendo, che somigliamo molto a quei coniugi etruschi che si fecero ritrarre nella scultura funeraria (il famoso Sarcofago degli Sposi) in questa posizione più di duemilacinquecento anni fa.
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Visita dai parenti. Mia cugina prepara sua figlia per la sfilata di Carnevale del pomeriggio. La ragazza si vestirà da contadina, con uno scialle che apparteneva a mia nonna e un paio di scarpe consunte della vecchia zia. Ne deduco che i contadini di una volta non sono più pensabili come persone ma solo come maschere.
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Improvviso ricordo di un mattino urbinate, un mattino della primavera avanzata. Sotto il balcone della mia camera, la 2/24 del Collegio La vela, qualcuno tagliava l’erba con un rumoroso tagliaerba. Io ero lì, dietro il mio tavolo azzurro, intento a studiare, quando l’inserviente spegne il tagliaerba e chiede ad un paio di studenti di passaggio l’aiuto necessario a catturare un leprotto che cercava di raggiungere l’erba più alta. Concitazione. Alla fine il leprotto è catturato. Studenti, inserviente e leprotto scompaiono dalla mia vista, ma mi rimane questo ricordo come una cicatrice della mente.
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Che cosa sia la nuda vita ce lo spiega bene Emanuele Severino, Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1998, p. 40: “La natura del mortale è “ignuda” perché quando esiste è indifesa e inerme di fronte al nulla. Trova difesa, rifugio e sicurezza solo nel nulla della morte, ossia quando essa non ha ormai più nulla da difendere.”
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Incontri. “Nelle società tradizionali della Nuova Guinea, quando due perfetti sconosciuti si incontravano al di fuori dei loro rispettivi villaggi iniziavano subito una lunga discussione per cercare di stabilire se avessero qualche parente o amico in comune, e quindi una valida ragione per cui l’uno non dovesse uccidere l’altro.” Quanto scrive Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino 2006 [I ed. 1998], p. 214, mi ha fatto pensare all’incontro con compaesani prima sconosciuti o con abitanti in paesi viciniori al mio, incontro avvenuto per caso in una città lontana; ci si metteva a parlare innanzitutto per sapere se ci fossero tra noi amicizie comuni, persone, fatti e situazioni che potessero avere per entrambi un carattere di familiarità. Insomma, nessuno di noi pensava di uccidere l’altro, ma è certo che ricondurlo entro confini noti, rendeva l’altro una figura meno inquietante.
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Rissa in spiaggia, a Lido Conchiglie, quarant’anni fa. Si immagini un assolato mattino di agosto, la spiaggia rovente e affollata, alcuni prendono il sole, altri fanno il bagno. All’improvviso si sentono urla da un luogo preciso della spiaggia, poco distante da me, e si leva in aria la sabbia all’accorrere di numerosi uomini di diversa età verso quel punto donde provenivano le urla, che ora si amplificano a dismisura. Contemporaneamente, è un fuggi-fuggi generale di persone che vorrebbero sottrarsi alla mischia, mentre alcune donne trascinano lontano i bambini e altre tirano via i loro uomini. Ma già lo spettacolo toglieva il fiato: cento uomini in mutande da bagno si spintonavano gli uni gli altri come in una partita di rugby, dandosi calci e cazzotti. Era una massa omogenea che si muoveva sulla spiaggia, travolgendo ombrelloni e sedie a sdraio, secchielli e palette, borse da mare e teli. La cosa non dovette durare a lungo ma a me parve un’eternità. Forse in due minuti tutto era finito: le donne avevano avuto la meglio; ma intanto quel tratto di spiaggia era spopolato. La polizia arrivò mezz’ora dopo, interrogò i bagnanti, ma nessuno racconto di preciso il motivo che aveva scatenato la rissa. Ma io so che il motivo fu una donna contesa, sicché fu cosa buona e giusta che la rissa, incominciata per una donna, finisse sedata dalle donne.